La pietra nel cartoccio – di Rossella Gallori

Ero salita sul “ treno” già stranita, con poca voglia, sarà che le avevo raccontato un fatto tra il tragico ed il folle, sepolto da anni, cercando di alleggerirlo, ma la riesumazione era stata pesante, lei ascoltava, senza meravigliarsi, ascoltava senza giudizi.
Con la compassione, che si ha per se stessi da grandigrandi quando si parla di giovanigiovani infilavo motivazioni per il mio gesto: ero innamorata, sola, poco matura, stanca, ci credevo, la verità è che volevo attirare l’ attenzione di qualcuno, essere importante. Il fatto cadde, dovevo tacere.
Il vagone era semibuio, semivuoto, c’ era la voglia di un caffè che non c’ era, forse avevo deciso di urlare o di piangere, nella totale immobilità che poi mi contraddistingue.
Poi, poi: arriva un cestino di cencini e sassi, di pompon morbidi e balocchini minuscoli, sento che non so scrivere, che non lo saprò rileggere, eppure il vagone si muove, so che il viaggio sarà breve, prendo la rincorsa inciampo nell’ostacolo, acchiappo l’ imbutino bordeaux di feltro e la pietra rettangolare turchese, la sceglierei tutte le volte, mi ricorda il suo colore preferito, che poi è anche il mio, mi ricorda lei, l’ amica che non c’ è più, della quale conservo ( io che perdo tutto) la più bella lettera d’amoreamicizia, che abbia mai ricevuto.
Scrivo, ora che lo scompartimento è pieno, gli ultimi ritardatari han preso posto, scrivo, ma grido:
Tu pietra, io feltro (giro tra le mani il sasso color mare)
Amo i tuoi angoli, quelli che mi porgi generosa.
Per farmi dire la verità
Per darmi due appoggi
Amo il freddo del tuo colore, estintore delle mie paturnie
Venature scure, come piccole onde di mare, per farmi sorridere.
Allora un po’ perché, non so andare avanti, annuncio più volte: non volevo scrivere questo, fa tutto un po’ schifo, vorrei appallare il foglio gettare il quaderno, ma se mi alzo perdo il posto, forse ci sono viaggiatori in piedi, ma non sono stanchi come me.
Metto la pietra nel ruvido cono e ci riprovo:
Sembri una farfalla di lana cotta, senza ali né occhi,
che incontra uno scoglio turchese, forato ai lati, che imbarca acqua, mare che entra ed esce, come un ago sottile, che non ha più voglia di ricamare.
Una voce fuoricampo annuncia la stazione di sempre, scendo con la certezza di non aver scritto quello che volevo dire….
Sono tornati i puntini di sospensione (che ho tolto subito) all’inizio del racconto. Segno di un disagio, del bisogno di una rincorsa per rompere il velo di silenzio, forse di timore. Ho tolto i puntini di cui non c’è alcun bisogno e resto orfana di un inizio più esplicito che dica le vere parole che ci siamo dette nel percorso per arrivare al “vagone”, il ritorno a un indietro che non trovava, allora, spettatori o meglio ascoltatori. Non sono io la padrona di quelle parole e non posso dirle io, ma tu sì, tu puoi, tu dovresti. Con fiducia e distacco. Quel distacco che ancora forse non c’è, da anni di dolore mescolato.
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