La pietra magica di Tina nel cestino incantato

Pietra magica – di Tina Conti

Colori intrecciati, mescolati armoniosi, forma piatta, liscia, ovaleggiante.

La natura fa cose meravigliose, impossibili da imitare.

Geniale nella sua invenzione, ci fa sognare, riflettere, stimola  la nostra Italia

Ci  incoraggia  a inventare situazioni, ambienti, storie.

Sopra un pavimento sconnesso, luminoso e colorato di toni ambrati e dorati, litigavano  due figure, intorno cantavano e svolazzavano stormi di strani uccelli.

La pietra rotolava e sobbalzava, oscillava come mossa da uno strano potere.

Cataste di legname di varie forme e tonalità  in bilico, si accatastavano formando un grande cumulo. In fondo alla grande catasta, una pietra luccicante a forma di cuore sembrava reggere tutto quel peso da sola, emetteva raggi luminosi e bagliori accecanti, intorno, folate di vento facevano rotolare due foglie gemelle.

Roteavano nell’aria si alzavano e salivano in alto fino a scomparire

Tornavano a terra cercavano la pietra,  spaventate si allontanavano di nuovo.

Nuvole grigie affollavano il cielo, il vento sempre più impetuoso strapazzava ogni cosa, foglie volavano sulle pietre, sui muri, sul lago.

Le foglie gemelle si posarono a terra, ripartite da un tronco caduto, calme, sicure, fiduciose, aspettarono  la pioggia.

Il fiore col ciuccio di Sandra nel cestino incantato

Il ciuccio e l’Omino del sonno – di Sandra Conticini

Il fiore con il ciuccio centrale sfaccettato, che sembra il pistillo,  ha una bellissima luminosità e mi ha fatto ricordare i cristalli di Swaroski. Quando sono illuminati dal sole con tutte le gradazioni dell’azzurro o del giallo-arancio la  fantasia mi fa sognare figure immaginarie, prati con fiori di tutti i colori e mi sembra di sentire il profumo dei giacinti, delle rose, o dei fiori di campo bianchi profumatissimi che la mia mamma chiamava tazzette.

Il ciuccio da solo mi ricorda la mia bambina. Non so chi abbia inventato questo strumento per placare quei piccoli esserini che, fino al  giorno prima erano nella pancia della mamma,  nuotavano tranquillamente cullati dai rumori esterni, senza essere disturbati. Non duravano fatica per mangiare, non dovevano essere tocchicchiati per fare il bagnetto e soprattutto non esistevano i piccoli malesseri quotidiani di adattamento.

All’inizio non volevo abituarla, ma poi la paura di non saperla  calmare me l’ha fatto usare.  La sera, quando era più stanca e nervosa da tutti gli stimoli della giornata, se non c’era il ciuccio che le dava serenità e tranquillità non riusciva a prendere sonno.  Mi ricordo  un giorno che ero in bagno con lei: improvvisamente aprì la bocca e il ciuccio  se ne andò via nel water insieme all’acqua.

Lì per lì rimase un po’ perplessa, poi attaccò a piangere e ci toccò andare a comprare un ciuccio nuovo. La fortuna era che a lei andavano bene tutti.

Poi venne il momento di togliere questo magnifico strumento.

Tutte le sere quando si tornava a casa iniziava a girare per le stanze nella speranza di ritrovare il suo amico, ma l’aveva preso “l’Omino del sonno”.

Solo  all’ora della nanna come per magia il ciuccio riappariva. Era un po’ una caccia al tesoro, poteva trovarlo su una sedia, sul lettino, sul divano o dove era stato lasciato la mattina. Le si illuminavano gli occhi dalla contentezza, lo acchiappava se lo metteva in bocca e si tranquillizzava subito.  

Il cartoccio di Rossella G. nel cestino incantato

La pietra nel cartoccio – di Rossella Gallori

Ero salita sul “ treno” già  stranita, con poca voglia, sarà che  le avevo raccontato un fatto tra il tragico ed il folle,  sepolto da anni, cercando di alleggerirlo, ma la riesumazione era stata pesante, lei ascoltava, senza meravigliarsi, ascoltava senza giudizi.

Con la compassione, che si ha per se stessi da grandigrandi quando si parla di giovanigiovani  infilavo motivazioni per il mio gesto: ero innamorata, sola, poco matura, stanca, ci credevo, la verità è che volevo attirare l’ attenzione di qualcuno, essere importante. Il fatto cadde, dovevo tacere.

Il vagone era semibuio, semivuoto, c’ era la voglia di un caffè che non c’ era,  forse avevo deciso di urlare o di piangere, nella totale immobilità che poi mi contraddistingue.

Poi, poi: arriva un cestino di cencini  e sassi, di pompon morbidi  e balocchini minuscoli, sento che non so scrivere, che non lo saprò rileggere, eppure il vagone si muove, so che il viaggio sarà breve, prendo la rincorsa inciampo nell’ostacolo, acchiappo l’ imbutino bordeaux di feltro e la pietra rettangolare turchese, la sceglierei tutte le volte, mi ricorda il suo colore preferito, che poi è anche il mio, mi ricorda lei, l’ amica che non c’ è più, della quale conservo ( io che perdo tutto) la più bella lettera d’amoreamicizia, che abbia mai ricevuto.

Scrivo, ora che lo scompartimento è pieno, gli ultimi ritardatari han preso posto, scrivo, ma grido:

Tu pietra, io feltro  (giro tra le mani il sasso color mare)

Amo i tuoi angoli, quelli che mi porgi generosa.

Per farmi dire la verità

Per darmi due appoggi

Amo il freddo del tuo colore, estintore delle mie paturnie

Venature scure, come piccole onde di mare, per farmi sorridere.

Allora un po’ perché, non so andare avanti, annuncio più volte: non volevo scrivere questo, fa tutto un po’ schifo, vorrei appallare il foglio gettare il quaderno, ma se mi alzo perdo il posto, forse ci sono viaggiatori in piedi, ma non sono stanchi come me.

Metto la pietra nel ruvido cono e ci riprovo:

Sembri una farfalla di lana cotta, senza ali né occhi,

che incontra uno scoglio turchese, forato ai lati, che imbarca  acqua, mare che entra ed esce, come un ago sottile, che non ha  più voglia di ricamare.

Una voce fuoricampo annuncia la stazione di sempre, scendo con la certezza di non aver scritto quello che volevo dire….

Il giocatore di Nadia nel cestino incantato

Il giocatore – di Nadia Peruzzi

Un fiore di stoffa verde con dentro un bottoncino blu.
Sul tavolo da gioco il tappeto verde era quasi fosforescente per le luci che lo inondavano.
Si vedevano solo mani così bianche da sembrare morte.
Eppure erano indaffarate, si muovevano veloci.
I volti, invece, restavano in ombra, quasi a cercare l’anonimato.
Si intravedevano occhi. Occhi che bucavano il cono d’ombra. Occhi lucidi, vigili e fin troppo attenti.
Eccitati fino quasi al limite dell’ossessione. Occhi malati.
Le fiches si muovevano senza tregua, insieme alle palline che ruotavano sulla roulette.
Vinci, perdi, rouge, noir. I giochi sono fatti.
Rien ne va plus.
Il giocatore che vinceva arraffava in modo quasi parossistico le fiches. Era una partita del vincere o morire, ogni volta.
Ad ogni vincita gli occhi rilucevano come due tizzoni ardenti. Durava poco, però.
Ogni vincita induceva a puntare di nuovo, sempre di più. Il cappio si stringeva di nuovo , a ghermire anima e movimenti.
Nuova puntata, nuova sconfitta.
Stavolta aveva perso tutto quanto. Ci aveva sperato un momento, di aver tutto quello che gli serviva a saldare il suo debito col gestore del locale.
Guardò le fiches che sparivano e il vuoto che aveva davanti a sé e provò prima sgomento, poi paura.
Sapeva ciò che lo aspettava.
Le botte degli scagnozzi del boss, già pronti a portarlo via, oppure arrivare a prosciugare completamente il suo conto staccando un assegno dal valore esagerato.
Il gioco era un tarlo per lui. Una ossessione malata da sempre.
Sua moglie aveva provato a farlo uscire dal giro. Lui non ci aveva mai provato realmente.
Aveva fatto promesse su promesse. Non ne aveva mantenute nemmeno una.
Uscì dal locale sentendosi un verme.
Avrebbe dovuto confessare a sua moglie che aveva dato fondo a tutto quanto avevano accumulato in una vita di gran fatica, sacrifici e rinunce.
Salì in macchina con la testa che gli girava.
Agitato a tal punto che si ritrovò in un luogo che non era nemmeno sulla direzione di casa sua.
Vide delle luci arrivare.  Erano alte , forse un camion.
Al momento che giudicò quello giusto sterzò di botto. Il camion trascinò la sua auto per diversi metri, prima di riuscire a fermarsi.
Il garde rail messo a protezione del lato della curva che costeggiava lo strapiombo, sembrò essere in grado di trattenere la macchina.
Il crack ruppe il silenzio della notte mentre il garde rail si aprì come fosse stato tagliato da un apriscatole.
Il tonfo dell’auto seguì poco dopo.