Auguri a tutti per un domani sereno
Mese: dicembre 2022
Caro 2023
Sono pronta – di Stefania Bonanni

In questi tempi difficili da capire, nei quali il bianco ed il nero si sono confusi in un marrone incongruo, ed i nostri pensieri continuano ad esprimere giudizi in un bianco e nero che non somiglia più a nulla e non serve a nessuno, una delle poche certezze è che il tempo scorre come sempre, e forse come sempre, è fatto di ore sempre più brevi di giorno e più lunghe di notte.
E finisce un anno, e ne comincia uno nuovo. Un tempo l’anno nuovo era una pagina bianca, alla quale si promettevano comportamenti corretti, in cambio d’amore, allegria, serenità, salute. Ora quella pagina è quasi tutta scritta, c’è scritto d’amore, allegria, serenità, salute, è la ricchezza di questo nuovo futuro, quella vecchia, solita pagina, è tutto quello che abbiamo.
L’anno che oggi finisce ha visto tragedie causate da uomini che non impareranno mai l’umanità, ma qui, nella bolla, nella cella di sicurezza dove sconto l’ergastolo, siamo stati bene. Certo, il tempo che passa cambia i contorni ed anche i contenuti, ma lascia parole che piano sedimentano e costruiscono palazzi. Questi non sono più gli anni delle torri e delle cattedrali, sono i momenti delle decorazioni , degli affreschi, del ricordo delle ombre della notte, degli angeli che ci hanno sempre evidentemente volato con le mani sulla testa, delle parole belle che ci sono state regalate, dei momenti di tenerezza che solo i vecchi ed i bambini sanno regalare. I vecchi con la possibilità, finalmente, di dire cose un tempo sconvenienti, i bambini con l’imparare l’amore, che li rende fragili e potentissimi. Una frase d’amore detta da un vecchio o da un bambino è un tatuaggio, non ha prezzo nella sua gratuità, è un regalo. Nel portafoglio ho un biglietto con errori d’ortografia di Ricca in prima elementare, uno di Francesca senza errori ma con calligrafia ancora incerta, uno di Paolo “alla donna più bella del mondo”, uno di Leo con una bella calligrafia in corsivo “cara nonna ti voglio tanto bene”, e nonna è spezzato no…a capo nna. Pezzi d’amore, caso mai perdessi la memoria. La Trinità che non capivo. Qui ero una moglie giovane, una mamma giovane, poi una mamma adulta, poi una nonna. Tutte stellette sul petto, medaglie della vita.
Ora si discute per caricare la lavastoviglie, ed io mi diverto a dire che se avessi saputo che sarebbe diventato “l’uomo perfetto” non l’avrei sposato, Paolino. Lui mi risponde che sono sempre la solita deficiente, che ormai non migliorerò. E si fa il chiasso, come sempre, da sempre. Poi si discute anche seriamente, come sempre. Io piango meno, lui sbatte meno porte. Non si dice più “vado via”, nessun di due. Si fa la pace sempre nella stessa antica maniera. Da quando sta con me ventiquattro ore al giorno mi leva l’aria, ma se penso a che compagnia sceglierei per vivere al Lago Ghiacciato, sceglierei sempre lui, zuccone, prepotente, innamorato.
Sono pronta, 2023.
Natale con Anniversario
Care Matite, cari amici tutti…
B U O N N A T A L E!
e BUON ANNIVERSARIO per i nostri P R I M I D I E C I A N N I di lavoro insieme






















Mani in orchestra per Carla
Mani in orchestra – di Carla Faggi



Nel mosaico delle foto delle mani delle matite ci ho visto movimento, danza, musica.
La musica è formata da più note e nasce quando ne mettiamo due insieme.
Poi altre note si organizzano e si uniscono alle prime due e se una nota più ardita si slancia verso un’altra nasce una nuova combinazione come nel jazz. Le nostre mani sembrano un’orchestrina jazz, improvvisano, azzardano, ritmano, a volte stonano e a volte sono sublimi.
Gli strumenti sono le nostre matite. Creiamo musica contemporanea, ma visto però che molto è improvvisazione, a volte la musica diviene sinfonia, a volte suoni stonati. Ma mai quando si scrive, solo quando si prova.
A volte c’è un assolo che ti lascia senza fiato tanto è struggente.
A volte una percussione troppo energica ti lascia senza fiato ma per il motivo opposto.
A volte siamo stanchi e non tutti i pezzi ci piacciono.
Spesso però non è così , anzi spessissimo siamo un’orchestra affiatata con tanti strumenti diversi e con un maestro d’orchestra attento paziente ed eclettico.
E allora dai, ritmo! Attacca maestro che abbiamo da improvvisare tanta e tanta musica ancora!
Le mani delle Matite
Mani attive e passive – di Cecilia Trinci

Sono io che le ho mescolate, in questa specie di carta da parati, un manifesto alla capacità di incontrarsi.
Un saluto per questo Natale, il nostro “decimo”.
Le riconosco le vostre mani, e ne penso mille altre paia che non avete conosciuto. Le mani sono sempre due, come i piedi e gli occhi e gli orecchi, perché è più difficile ascoltare che parlare, più difficile vedere che commentare.
È più difficile abbracciare che accusare.
La bocca è una, ma sta in mezzo, non a caso, perché prima di emettere parole dovrebbe aver saputo guardare e ascoltare e solo dopo aver raccolto i pensieri avrebbe dovuto imparare e parlare.
Le riconosco le vostre mani.
Ma penso alle altre mani che mi hanno sfiorato, togliendo con un solo tocco una paura forte, o per dirmi, “tutto bene? Hai freddo?” o per dirmi “brava! Era quello che pensavo!”
Si pensa alle mani attive e io penso alle mie passive, quando hanno ricevuto, percepito, quando sono state sfiorate o strette fortemente.
Le donne pensano subito, come voi avete fatto, alle mani attive, agili, che sanno, che si agitano, che vivono e fremono, che ricamano, lavano, asciugano, costruiscono, sferruzzano, sbucciano, fasciano, stirano, spazzano, pelano, mani brave, mani esperte, mani amorose.
Io penso alle mani passive. Che vengono sfiorate, strette, cercate nel buio, mani in girotondo, mani che si intrecciano, le mani in cui un bambino si infila dicendo sei calda. Le mani strette all’improvviso quando non si può parlare.
Le mani che fanno ciao da lontano, attraverso un finestrino.
Dedico questa pagina a “TUTTE LE MATITE CHE SONO PASSATE DI QUA”. Hanno lasciato tutte una traccia, piccola o grande, un segno della loro esistenza. Non è poco in un mondo che corre e sa distruggere più che coltivare. L’essenza del nostro cammino è stato questo “imparare ad ascoltare” e scordarsi di accusare. Spesso ci è riuscito.
Cecilia
Mani per Nadia
Mani – di Nadia Peruzzi
foto di Lucia Bettoni

Mani, mani, mani.
Mani, mani, mani. Dal vetro del negozio appannato per il freddo le osservava quasi rapita. Slanciate e con smalti fluorescenti, tozze e brutte, giovani, vecchie, poche, molto poche segnate dalla fatica.
Tutte o quasi tutte curate, fin troppo.
Toccavano di tutto. Erano quasi mosse di un balletto. Era attratta dal loro movimento incessante.
Attorno ai foulards e alle pashmine, c’era un vera e propria sarabanda. Cera chi saggiava la stoffa per poi posarla subito, per l’eccesso di sintetico. Chi invece se la portava al collo per la morbidezza inaspettata, ma erano poche che lo facevano.
Non c’erano più le belle cose di un tempo, lo sapeva anche lei che pure ormai era costretta a guardare i gesti degli altri da fuori.
Stoffe morbide, lane vere e non mischiate con troppo di tutto, tessuti avvolgenti che indosso, anche se comprati nel nogozzietto sotto casa , una volta confezionati in abiti o gonne, ti facevano sentire una vera signora.
Così come stava messa adesso in un negozio del genere non l’avrebbero mai fatta entrare.
Le mani che seguiva con più attenzione erano quelle affaccendate attorno ai cappelli.
La biondina stava benissimo con quel basco rosso sulle 23, ma la grassona con quello a cloche sembrava una campana con la sua faccia come battaglio.
Era sicura che le sarebbe stato meglio un cappello a tesa larga o con una visiera molto lunga così da coprirla il più possibile.
Era brutta come il peccato e tutto sommato il cappello non era in grado di migliorare la situazione. Provava ad usarlo come paravento o maschera, ma era evidente che lo faceva proprio per nascondersi e l’effetto era pessimo.
Perbacco, la bruttezza, si anche la bruttezza andava indossata con stile. A viso e capo scoperto.
Sbattuta in faccia agli altri con l’orgoglio dell’io sono io , prendetemi come sono, si sarebbe senz’altro notata di meno. Dagli occhi si sarebbe almeno visto trasparire le qualità dell’anima, quelle che avrebbero fatto passare in secondo piano quella bruttezza. L’aveva osservata bene. Vedeva in lei il suo riflesso per come era diventata oggi. I casi della vita, la morte di suo marito, la perdita del lavoro, lo sfratto l’avevano cambiata , dentro e fuori.
Lei si sentiva brutta, si vedeva brutta e cercava per questo di non riflettersi in nulla che le rimandasse la sua immagine attuale. Non l’avrebbe sopportato. Non avrebbe retto il confronto con ciò che era stata e la barbona che era diventata oggi.
Tutta la sua vita dentro una vecchia borsa per la spesa con le ruote, per alleviare la fatica, e via di strada in strada , di panchina in panchina , di angolo in angolo.
Lo sguardo tornò a posarsi sui cappelli. Come era bello il colbacco che si stava provando la signora alta con le dita piene di anelli. Faceva un freddo tale che bramava di poter sentire su di sé la morbidezza e il calore di quel cappello. Il colore non le piaceva per nulla. Ma chi se ne frega del colore quando fuori inizia a nevicare e il freddo paralizza.
Era stufa di guardare cappelli che tanto non avrebbe indossato, figurarsi se qualcuno si sarebbe scomodato a comprarne uno anche a poco prezzo per una come lei. Era invisibile per chi era dentro il negozio. Con tutta quella mercanzia esposta , chi poteva vedere quel volto che scrutava dall’esterno. Tanto più che il suo respiro appannava il vetro così tanto da non far vedere che fuori stava iniziando a nevicare.
Lo sguardò si spostò sulle mani che stavano facendo una battaglia per accaparrarsi il paio migliore e più elegante del reparto guanti.
I classici di pelle erano quelli che andavano per la maggiore. Dato il freddo molte mani si infilavano direttamente in quelli che avevano l’interno foderato di pelliccia e andavano direttamente alla cassa con quelli indosso.
La signora col colbacco e i tanti anelli si fiondò su un paio di guanti di pizzo nero. Chissà per quale festa si stava preparando. O erano in previsione di un incontro galante?Non l’avrebbe saputo mai, ma le piaceva lo stesso sognare sulle vite degli altri visto che i sogni sulla propria aveva smesso di farli da un bel po’ di tempo.
I più trascurati erano i mezzi guanti. Se ne stavano appesi a testa in giù in perfetta solitudine. Attorno nessuna ressa , nessun intreccio di mani per prendersi quelli dai colori più sgargianti e adatti al clima delle festività. Anche loro sembravano invisibili, messi da parte, ai margini.
Una ragazza dai capelli fiammeggianti evitò tutte le resse e si rivolse decisa proprio a quel reparto. Al collo una macchina fotografica, che forse era la ragione della ricerca.
Le sue mani scattanti sembravano dire:” provatevi a fare le foto con i guanti interi e capirete il perché di una scelta che voi non considerate per nulla”.
Ne scelse un paio neri. Quelli che piacevano anche a lei. Avevano un accenno di piccolo ricamo rosso fra il pollice e l’indice che li rendeva particolarmente carini.
Cosa avrebbe dato con quel freddo per poterseli permettere. Si sarebbe sentita bella con quei guanti.
Cacciò a forza il ricordo che stava affiorando. Una lei giovane che se li stava infilando a testa bassa e che andò a sbattere contro un armadio d’uomo che poi era diventato suo marito.
No , non doveva piangere. Le lacrime erano finite da tempo. Nemmeno quelle si poteva permettere. Erano del tutto inutili.
Ma i lucciconi vennero fuori lo stesso.
La ragazza dai capelli di fuoco alzò lo sguardo proprio in quel momento e incrociò i suoi occhi.
Se la ritrovò accanto poco dopo. Indossava i mezzi guanti neri, e ne aveva in mano un altro paio. Per lei!
Li indossò. Si sentì una regina.
Intrecciò le sue mani inguantate con quelle della ragazza.
Ne venne fuori una forma a ventaglio da cui le arrivò un calore che la ravvivò tutta. La ringraziò con gli occhi per quel gesto gentile e generoso. Non le era facile trovare le parole giuste in quelle situazioni e lei d’altra parte di parole ne diceva sempre meno visto che difficilmente trovava chi volesse parlare con lei. La ragazza rispose con uno sguardo dolce e complice insieme. Le soffiò un piccolo bacio e se ne andò di corsa.
Ne aveva viste di mani in movimento quel pomeriggio. Solo quelle della ragazza dai capelli rossi portò con sé mentre riprendeva la sua strada, trascinando i piedi e il borsone con le sue poche cose dentro.
Per un attimo e per qualcuno non era stata invisibile.
Questo pensiero le dette forza.
Sentì affiorare una voglia di combattere che col tempo era svanita.
Aveva perso già tutto, peggio di così non avrebbe potuto andare.
Era il caso di provare a tornare a combattere, a non accettare
ciò che il destino aveva apparecchiato per lei. Le forme e i modi li
avrebbe cercati e forse trovati lungo la strada. Chissà!
Incontro alla Carrozza 10 del 15 dicembre 2022
Le mani, gli intrecci e le parole
Foto di Lucia Bettoni e Cecilia Trinci











Con Rossella sull’eco di Annie Ernaux
Maschere o donne – di Rossella Gallori

Il quaderno aperto, la penna in mano, la certezza di ascoltare, di non scrivere, ascolto, riesco ad ascoltare, la mano quasi da sola intreccia parole, maschere che ascoltano nell’aria….mi strappano rime sconnesse…un evento si annuncia….
Io Pierrot, tu Pulcinella.
Inciampa Colombina, in un matto Arlecchino, che cerca di afferrare il bavero di tulle della fatina.
Ci vuoi dire qualcosa tu?
No, sono Pinocchio ed un po’ Mangiafuoco, brucia lentamente il grillo parlante.
Salta Biancaneve dal cesto cadono mele.
Ci vuoi dire qualcosa tu?
Alla strega cade il mantello, il principe si sveglia ad occhi chiusi.
Ci vuoi dire qualcosa tu?
Zorro svolazza perde il cappello.
Ago e filo per Cappuccetto Rosso ricuce la nonna.
Lei fantasma, lui pirata
C’è un vampiro con il sangue sulle labbra.
Ci vuoi dire qualcosa tu?
… fermiamo il girotondo…..
E l’ evento si annuncia….e non sono solo parole, non sono fantasie, si scopre un autore, ci si trova personaggi del libro, un libro che parla di altri, per altri:
C’è Chi parla di sé, sembra solo cronaca, ma è la tessera, di un puzzle solo all’ apparenza poco trasparente, non è vetro grezzo, è cristallo di anni passati, non taglia, riflette un pugno che vibra ancora.
Chi grida ancora dolore, per culle non riempite, per scarpine di lana verde acqua, riposte nell’ attesa…
Donne, che hanno scelto, subito, amato, odiato, studiato, lavorato, donne che per fortuna hanno raccontato, femmine mai di serie b, nascoste nel cuore di altre donne, che in un pomeriggio di quasi domani, han parlato di ieri, di guerra, di miseria, di buona sorte, di figli troppi, di figli pochi, amati sempre, anche senza carezze, nel silenzio totale nel non vedersi, nel non guardarsi, figli tirati su da sole, in giorni non sempre di sole…
E poi c’ era la libertà, poi la schiavitù, poi la fede politica, poi quella di Dio, poi il lavoro che è poco, poi che è troppo, la discriminazione…..l’età….il sesso….
Femmine, donne.
Riprendiamo il girotondo, senza maschere, tenendosi per mano….al centro bimbi stupendi, nati non nati, voluti, non voluti….ci sorridono in segno di perdono…..una voce lontana, canta: tanti auguri a te….è mia madre…festeggia il compleanno dei miei fratelli mai nati… i suoi non nati, morti in una guerra chiamata vita…
Riprendiamo il girotondo….
L’8 dicembre di Stefania: un amore di compleanno
Il tuo compleanno – di Stefania Bonanni

È il tuo compleanno, un giorno per te. Ricordo la leggenda, tante volte raccontata dalla nonna. Era nel campo quando cominciarono i dolori. Raccattò la falce e piano piano camminò verso casa. Preparò le lenzuola pulite mentre il nonno con il carretto andava incontro alla levatrice, che sapeva del tempo che scadeva ed era pronta, la trovò sulla strada. Fu tutto veloce, la nonna non strillò, le contadine non strillavano, tante volte avevano visto le bestie mettere al mondo agnellini, vitellini, non era diverso. Strillavano le signore, le contadine no, non stava neanche bene.
Poi, a registrare la nascita andò il nonno dopo la festa. Sarà stato il nove, o forse il dieci. Andò il primo giorno che pioveva, e non si poteva andare nel campo. Disse che il bambino era nato nel giorno della Madonna, del resto che fosse il sette o l’otto, non cambiava nulla per nessuno. Noi ti si è sempre festeggiato l”otto. Me li ricordo, i tuoi compleanni, con festeggiamenti severi. la mamma e la nonna preparavano i cenci, che ti piacevano, o perlomeno dicevi ti piacessero. Un anno ti ho comprato un dopobarba, all’emporio, e mi sono sentita grande, una donna che compra un regalo da uomo all’Uomo di casa. La tua era una cifra da pochi fichi…..ma gli occhi…Hai sempre quegli occhi. Occhi da lanciare fulmini, ed un attimo dopo annegare nella nostalgia. Sei diventato vecchio, e mi sono sempre piaciuti gli uomini vecchi, convinta com’ero che saresti stato il più bello di tutti. Sei un vecchio bellissimo. Tanti capelli, e “di tanti capelli ci si può fidare”, bianchissimi da far pensare fossi biondo un tempo, e invece eri moro moro, con occhi di un azzurro che si vedeva da lontano. Un vecchio tutto nocche e ginocchi, con mani magre dalla pelle tesa, fragile e nervosa. Un uomo sempre colorito, con la perenne abbronzatura d’Arno, forse guardando bene hai qualche macchia, sulla pelle del viso, ma ti sta bene anche quella. Le spalle si sono un po’ curvate, gli anni e non solo gli anni, sono stati pesanti. Quando mi sono ammalata, mi ha curato e ho potuto cullarmi nei tuoi abbracci. Avevo bisogno di essere abbracciata, e di storie. E tu raccontavi, raccontavi, e non era il vino, allora. Erano storie come ponti, passerelle che attraversavano distanze e costruivano spazi nuovi, e non erano importanti né i nomi dei protagonisti, che si erano mescolati nei ricordi, né gli anni esatti. Anzi, la nebbia, il fumo, l’improbabile, aggiungeva, non toglieva, e la collocazione diventava “sempre” e gli uomini e le donne erano “tutti gli uomini e tutte le donne”. E lo sai tu, e lo so io, che non si può fare di più, né meglio, che raccontare una bella storia. Alla fine, può essere il senso di tutto, raccontare, ricordare, una bella storia. O forse, una storia, anche brutta, anche dolorosa, anche finita male, o che non finirà, che sarà un mattoncino della nostra torre, forse inutile, ma indispensabile. Come quella di tu che mi siedi vicino, vecchio tu e vecchia io, che mi tagli a pezzetti quello che io non riesco a tagliare, a tavola. O che leggi prima di me quello che poi leggerò anch’io, e poi se ne riparla, e si cominciano discorsi che finisce l’altro, e si reagisce nello stesso modo, soprattutto al banale, con quel fastidio irritato che significa dimmi chi sei davvero, perché io non sono capace di altro che di me, e so che non è molto.
Sei magro e fumi come sempre, ma sei meno teso, dormi bene, ti appassioni allo sport, che ti diverte, come sempre. A momenti sei sereno, so che ti piacciono i nostri figli, i tuoi nipoti, ed anche tanto i figli di Ricca. Ti fanno ridere, ti scopro tenero, indifeso nel proteggerci, e tenero.
Guardarti mi provoca un sentimento denso, che mi riempie e mi risolve. Scoprirti vecchio, essere consapevole che ci sei e ci sei sempre stato e che non c’è stata un’ora, un minuto, un secondo, in cui non mi hai voluto bene, in cui sono stata sola, mi può anche bastare.
Nadia sulla scia de L’Evento, di Annie Ernaux
Non era il tempo – di Nadia Peruzzi

Non era il momento.
Lei che rimuginava spesso su tutto e che difficilmente si scrollava di dosso ogni morte che riapriva tutte quelle precedenti. Non ci aveva mai ripensato.
Lei che anche negli amori più volte si era trovata a dirsi la sua serie di “se avessi fatto” e “se avessi detto”, se, se, se…”Ho sbagliato così tanto anche io in quel rapporto, non andato come avrei voluto”, ” se mi fossi comportata in altro modo, forse..”
Non ci aveva mai ripensato.
Non era il tempo.
Su quello, nessun “se” successivo.
“Cosa decisa , capo ha” diceva sua nonna , che non era cinica ma un pozzo di civile e umano realismo. Quando una decisione si imponeva, non c’era da starci sopra a rimuginare più di tanto. Per una donna di fine 800, aveva sempre pensato che fosse qualcosa di grande. In effetti votò ai referendum sul divorzio e sull’aborto senza porsi problemi particolari. In lei c’era apertura e grande modernità anche su aspetti come questi non facili per una donna che veniva diritta dall’altro secolo, e per ogni donna.
La sostenne, nella scelta. Così come la sostenne la famiglia. Lei si sentiva ed era libera di scegliere in autonomia, ma allora ancor di più il sostegno corale della famiglia era indispensabile.
L’aborto era illegale e punibile per legge. La 194 era di là da venire. La decisione avrebbe coinvolto tutti, nel caso qualcosa fosse andato storto e la polizia avesse bussato a quella porta.
Era con suo marito. Ricorda la sua mano che la stringeva, ma lo stanzone dove entrarono è svanito nella nebbia. In nessun cassetto dei ricordi è stato messo. Nemmeno in uno di quelli di fondo pigiato ben bene dietro a tutti gli altri.
Puf, svanito. Sembrava una sala biblioteca riadattata. C’erano i macchinari, una infermiera. Tutto si svolse in grande rapidità .Il tempo di riprendersi e poi fuori di nuovo alla luce del sole e della legalità. Nemmeno il peso di aver varcato la soglia del proibito sentì più di tanto. Lei così ligia alle regole, quella soglia la varcò senza paura .
Era necessario. Non era il momento.
Un bambino non era da mettere nel conto. Doveva ancora laurearsi e non ce l’avrebbe fatta altrimenti.
Approccio troppo freddo e privo di sentimento? No, lei che piangeva di nulla a volte, e che si assumeva fin troppo il dolore degli altri tanto da farselo proprio, di sentimento ne aveva. Ma su questi aspetti della vita aveva sempre pensato che non ci fossero altre regole se non quelle dettate dalla propria coscienza e sensibilità, e leggi che quella coscienza e sensibilità dovessero in ogni caso tener presente una volta che fossero scritte. Come non esiste una regola per imporci un codice di comportamento univoco rispetto al dolore per la perdita delle persone più care, o per la frequenza con cui si debba andare al cimitero a onorare morti che si vogliono ricordare da vivi , perché ancora sono vivi dentro di noi, ci accompagnano e spesso ci sussurrano cose del passato vissuto insieme.
Era arrivata a 70 anni, aveva raccontato a qualcuno, quando era capitato il momento ma nel farlo mai le era balenato nel cuore e nella mente di ripensare a quell’evento in chiave di perdita o di mancanza. Né aveva rimuginato sul come avrebbe potuto essere, se…
Nemmeno quando si ritrovò in braccio sua figlia, e fu inondata e quasi stordita da quel profumo di neonata che è qualcosa di unico e incredibile. Un regalo di madre natura al genere umano che nessun borotalco riesce ad eguagliare.
Nemmeno allora le capitò di pensare che avrebbe potuto avere un fratello o una sorella più grande, se, se, se.
Eppure un altro figlio lo avrebbe voluto, almeno fino ai suoi 40 anni, età che considerava limite. Non era venuto, la natura aveva deciso altrimenti. La menopausa arrivò a 40 anni a spegnere qualsiasi volontà e poi anche il desiderio di nuova maternità.
Malgrado questo, ancora adesso, nessun rimpianto, nessun pentimento anche perché laicamente la categoria del pentimento non rientrava nel suo approccio alle questioni della vita. Un bambino non nato nei primi tempi del concepimento non riusciva a collocarlo fra le persone perdute. Lo sarebbe stato se fosse volato via, nel non essere, dopo il parto. Allora si l’avrebbe vissuta come una assenza di cui portarsi dietro il peso con un rimpianto che avrebbe lacerato il suo cuore e la sua anima per sempre.
Ma per lei allora non era tempo.
No, non era il tempo.
Emozioni di Carmela con Annie Erneaux
L’ultimo respiro – di Carmela De Pilla

La gracile foglia roteava nell’aria, aveva consumato il suo tempo, ma resisteva alla forza del vento e frenava la discesa per gioire degli attimi rimasti, avrebbe voluto ritornare solo per un istante nel grembo del grande albero per sentirne ancora il profumo, il calore e la cura.
E volteggiava, volteggiava lasciandosi cullare dall’ultimo respiro poi delicatamente si adagiò sulla terra, unica custode della sua vita; un aquilone si fermò un attimo per donarle un sorriso “ È bello, giallo come il sole che mi ha dato la vita” si disse, per un attimo si sentì sospesa poi si abbandonò tra le braccia della Grande Madre.
Ninuccia, seduta sulla fredda panchina un po’ arrugginita dal tempo aveva osservato tutto e si commosse, con prepotenza un ricordo si fece spazio nella sua mente e con gli occhi un po’ umidi si avvicinò alla foglia e la prese tra le mani.
Era bellissima, il rosso e il giallo sprigionavano ancora amore e le cinque dita erano ancora ben tese, il grande acero avrebbe voluto trattenerla, ma la lasciò andare, sapeva che doveva essere così, altri sogni sarebbero nati.
La giovane donna se la portò al petto e accompagnata dal ricordo incominciò a ondeggiare su se stessa come per alleggerire il trapasso, mentre la cullava la sentiva sempre più pesante… più pesante e come per incanto rivide il suo piccolo, anche lui era bellissimo, con le guanciotte paffutelle e due occhioni neri che baciavano il cuore.
Aveva dato tutto l’amore per quel figlio, lo aveva desiderato, lo aveva coccolato rannicchiata sotto le coperte e aveva aspettato con pazienza quei lunghi nove mesi poi la gioia di vederlo, toccarlo, abbracciarlo e per un attimo essere felice.
Durò proprio un attimo la sua gioia.
Seguì un silenzio inspiegabile, lo capì dallo sguardo della madre che la strinse fra le braccia e le disse: – Devi farti forza Ninù, Lina ce l’ha messa tutta, ma il destino ha voluto così, è la vita, a volte capita.
È vero, succedeva a quei tempi e ben presto tutti avevano dimenticato, tutti ritornarono alla vita di sempre, ma non fu così per Ninuccia, cosa ne sapevano gli altri che non dormiva più la notte? Chi conosceva la sua solitudine, chi sapeva cosa nascondevano i suoi silenzi, chi aveva ascoltato il suo ventre e il suo cuore? Chi parlava alla sua anima per quietare i suoi tormenti? Quante volte aveva sognato di portare al seno il suo piccolo e invece si ritrovava tra le braccia un fantoccio!
Ci volle molto tempo perchè ritrovasse se stessa, nessuno aveva mai capito fino in fondo il suo dolore, nemmeno suo marito che appena possibile la rimise in cinta senza chiederle nulla, ma era così, tutto rientrava nell’ordine naturale degli eventi.
Ci volle molto tempo perchè riuscisse a rivedere la luce, poi capì che doveva parlarne, doveva raccontarlo, doveva far conoscere la sua pena, solo così poteva salvarsi.
Era stata brava Ninuccia, aveva fatto tutto da sola, ma le donne sono così, quando sembrano perdute trovano sempre una forza vulcanica che le fa risorgere.
Incontro online del 1 dicembre 2022
Siamo occasionalmente tornati in video causa contagi diffusi….ma saremo ancora in Carrozza il 15 dicembre prossimo
Raccontiamo L’Evento di Annie Ernaux
Incontro importante, tutto al femminile.
Arriva potente un quadro profondo sulla DONNA, intesa come forza di resistenza, determinazione, sentimento, scelta.
L’Evento è un momento solo femminile: si tratta del racconto dell’aborto di Annie Ernaux, che lei decide di descrivere con il suo linguaggio asciutto e lucido.
Ne segue, tra noi, una riflessione sulla maternità, sulle implicazioni, sul fatto che non è un momento così facile, né sempre naturale come sembrerebbe e come urlano i luoghi comuni.
Due sono i concetti di Annie:
“Le cose mi sono accadute perché io potessi renderne conto”
“Lo scopo della mia vita è che il mio corpo, le mie sensazioni, i miei pensieri diventino scrittura………. la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri”.
Dice Sonia Bergamasco nel video di essere innamorata di questo concetto di Ernaux: “La scrittura come percorso di immersione nel profondo, feroce, senza non detto”.



Colori di Anna sulla scia del Colibrì
IL COLIBRI’ – di Anna Meli

Non so esattamente che colori avesse inventato per me madre natura tante erano le sfumature di giallo, di verde, di azzurro cenere che le mie ali piccole ma instancabili spandevano intorno a me.
Ero un uccello di luce, di aria, di sole in un costante e immobile movimento.
Immergevo il lungo becco con delicatezza nel mio fiore preferito e mi nutrivo di quel dolce polline senza mai stancarmi in una continua danza sempre uguale che, oltre al nutrimento, mi donava sicurezza
Sarebbe stato sempre così.
Il tempo sarebbe rimasto fermo, prigioniero nel frullio delle mie ali.