Il vento di tramontana e i fuochi nei campi – di Tina Conti

Questo pomeriggio, completati i lavori programmati, ho acceso il fuoco nel camino e sono andata al tavolo per scrivere due righe.
Ieri al mattino, mentre salivo per il vialetto vicino all’orto dove il contenitore del compost trasforma gli scarti per il concime, ho pensato che avrei dato fuoco facilmente alle potature degli olivi, cosi i campi riordinati si potevano passare con il tagliaerba ..sono partiti due grandi fuochi, lingue alte e svettanti mosse dal vento freddo di tramontana. Lo scoppiettare e crocchiare del fuoco si e’ fatto sentire quando ho aggiunto un ramo verde di alloro.
Il profumo si e’ presentato subito, insieme a una folata di vento fumoso.
Ho messo a punto strategie efficaci per far partire il fuoco all’esterno.
Raccolgo pine e pezzetti di scorze di legno, coccole di cipresso e le impacchetto con fogli di giornale, curando l’avvio, con pazienza, la fiamma si alza e si propaga al cumulo .aggiungendo pian piano i rami tagliati, in poco tempo il fuoco diventa potente e gagliardo.
Nei campi in questo periodo e’ necessario liberarsi delle frasche di potatura.
Si vedono girando lo sguardo sul territorio pennacchi di fumo sparsi ovunque. Rispettando le indicazioni e le regole territoriali è ancora possibile adottare queste pratiche per liberare i campi.
Adoro fare il fuoco, guardarlo, accudirlo, domarlo.
Ricordo il grande camino di nonna Cesarina nella grande casa del Monastero che ci accoglieva alla sera riscaldandoci d opo una lunga giornata all’aperto.
Le guance si accendevano, le mani arrossate e screpolate avevano un po’ di refrigerio, ai bambini dopo cena toccavano anche delle chicche: fette di mele secce ,noci, fichi secchi e un bicchiere di acquerello.
Che bevanda prodigiosa, non so cosa darei per un sorso di quel nettare.
La cosa che mi piaceva tanto del fuoco erano i profumi che si sprigionavano.
Mi capita anche adesso di riconoscere gli odori della legna bruciata.
Non mancava mai pero’ nella cucina della nonna quel padellino con il lungo manico dove sulla fiamma vivace venivano cotte le nostre frittate, una per ognuno, gonfie e morbide che ci facevano saltare di gioia.
E poi che goduria il fuoco dello scaldino nel letto che fumava vapori di freddo.
Non si voleva mai che ce lo togliessero, ci ripagava di tutto quel freddo che nei campi per la raccolta delle olive si pativa di giorno.
Il veggio o scaldino di coccio oppure di metallo, veniva preparato con sapienza
Il fuoco doveva scaldare, durare, non bruciare.
Sopra i tizzoni immersi nella cenere, si spargeva ancora un velo protettivo di cenere e si infilava nel letto appeso al trabiccolo.
Bello Tina mi riporti nella mia infanzia dai miei nonni nella casa colonica di Tignanello,grazie
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