Sognai l’altra notte che ritornavo a Manderley…….

Sognai l’altra notte che ritornavo a Manderley…….

Case intorno a una chiesa – di Stefania Bonanni
disegno e foto di Stefania Bonanni

Primo tempo: casa nr. 1. La vita sconosciuta .
Una casa piccina piccio’, senza acqua corrente e con i mattoni rossi lucidati da cinabrese ed olio di gomito, uno strano odore di cera e sugo, sempre in aria. Genitori bellissimi e giovani, due bambine con i vestitini ricamati , le ginocchia sempre sbucciate , le gote rosse di sole e corse. Una nonna che più nonna di così non sarebbe stato possibile, brontolona, saggia, sempre proverbi, detti antichi, rimedi, rosari. Fuori dall’uscio campi, fiori, prati, il fosso, il fiume a due passi. Nei prati lenzuola ad asciugare, vele bianche come pensieri, negli occhi per sempre. E bambini sempre, fuori c’erano sempre bambini. Si dormiva nel letto della nonna in tre, la nonna e le bambine. Appoggiata alla parete, sentivo battere il bambino della casa accanto, un colpo era buonanotte, due a domani, tre ho paura del buio. Un’infanzia piena di giochi, amore, famiglia e compagnia. Ho lasciato in quella casina la convinzione che sarebbe stato così sempre, non avrebbe potuto essere che così.
Casa nr. 2: il paese e le regole.
Sempre in affitto, si andò ad abitare in una casa orizzontale, con le stanze e le finestre in fila. Una casa con l’acqua corrente e la stufa a kerosene che riscaldava tutto. Si erano lasciati i grandi catini di metallo. Il bagno si faceva nella doccia, arrivò perfino la lavatrice. Le finestre in fila guardavano tutte l’Arno. Eravamo proprio nel centro del paese, esattamente sotto il campanile della Chiesa, con le campane che battevano le ore, compresi ovviamente dodici colpi a mezzogiorno, dodici a mezzanotte , più i rintocchi che annunciavano la messa, il vespro, il rosario, quelli che suonavano a morto, quelli a distesa per le feste. Accanto alla porta di casa cominciava un grande scalino dove c’era sempre qualcuno a chiacchierare, seduto su sedie portate da casa. Davanti alla porta, l’ufficio postale dove lavorava Anna ed in salita la stradina, saranno stati venti, trenta passi, che portava alla Chiesa, e che la mia nonna percorreva di corsa ogni volta che suonavano le campane. La rivedo bene, con il vestito scuro, in testa il fazzoletto da Chiesa, nero di pizzo, legato sotto il mento, le mani lungo i fianchi, strette per scongiurare un colpo di vento che alzasse la sottana, le labbra che si muovevano in silenzio per rammentare santi antichi. Aveva il suo posto in Chiesa, e quando ci sono tornata mi ha emozionato sedermi lì, quel pezzetto di panca è stato la sua casa, in quegli anni. E forse anche dopo, perché quando abbiamo cambiato casa, la nonna ha cominciato a perdersi, non trovava la strada di casa. Io ho sempre pensato che lei sia rimasta lì, nella casa sotto il campanile.
Sotto le finestre in fila, passava decine di volte al giorno il garzone del macellaio, su un motorino smarmittato che faceva un fracasso impossibile da ignorare. Guardava in su, per vedere se mi affacciavo. Mi piaceva moltissimo il macellaio, e c’erano anche molti altri “mosconi” che mi giravano intorno. Fu lì che cominciarono gli orari da rispettare, i divieti di uscire, le domande, le chiacchiere delle donnine che sempre ti avevano vista parlare con tizio, poi con Caio. E io parlavo, e ridevo, rimasi molto male quando il babbo cominciò a chiudersi dietro la porta di casa, con le mandate. Lui lavorava di notte e sbarrava tutto appena dopo cena, mentre fuori c’erano tutti i ragazzi e le ragazze del paese, che ci chiamavano da sotto le finestre. Poi venne anche l’amore, ma non cambiò l’abitudine di passare le giornate sul piazzale della Chiesa a giocare, parlare, cantare, sognare, e sempre tutti insieme, con quel fidanzatino, e Paolo che mi guardava da lontano, e gli scherzi, ed il grande affetto tra di noi, ancora. Ho lasciato in quella casa l’estate senza ombre.