Case: Sandra

Tre case e un solo castello – di Sandra Conticini

Ricordo il dispiacere che provai quando, arrivando nella casa che dovevo lasciare, la trovai vuota. Lo sapevo che doveva succedere, ma speravo il più tardi possibile. Andai in terrazza per non farmi vedere e  iniziarono a scendermi le lacrime. Era la casa della mia infanzia e da poco, siccome la nonna ci aveva lasciati, mi ero guadagnata un letto in salotto. Un bel traguardo, perchè fino ad allora avevo dormito in camera con i miei genitori. Ricordo quando la mamma mi lavava in cucina nell’acquaio di granito sempre  con l’acqua fredda, oppure quando uscivo dalla vasca e mi rimetteva subito a letto per non farmi ghiacciare… quanto amore c’era in quei momenti! A volte ci sono ritornata e ricordo che uno dei miei giochi preferiti era scendere le scale con il sedere, siccome c’era uno scalino con un piccolo difetto, anche ora il mio occhio lo va a cercare e lo trova subito.

La casa dove andai ad abitare era nuova, molto più confortevole con riscaldamento, una camera tutta mia, un bel salotto luminoso, ma per me era sconosciuta. Poi con gli anni ho fatto amicizia anche con lei e sono stata bene.

Venire via da quella casa è stata una scelta, perchè mi sposai e lì rimasero i miei genitori. Ci tornavo sempre volentieri, anche se non la sentivo più la mia casa. Poi negli ultimi anni quando i miei genitori erano molto anziani per me era diventata “la casa del grande dolore”, e quando arrivavo sarei scappata correndo.

Quando tornai nella mia casa, dopo essermi sposata,  non solo la casa e i mobili erano nuovi ma tutto il menage  era cambiato. Ero contenta, perchè l’avevamo arredata come più ci piaceva, ma dovevamo abituarci a questo nuovo stile di vita. Poi arrivò un fagottino con un fiocco rosa e ci riempì di gioia, ma le gioie nella vita non durano molto e così dopo qualche anno arrivò un grande dispiacere.

Questa casa vissuta  con grande entusiasmo, amore, novità, all’inizio è stata la casa della nostra felicità. Facevamo progetti per il futuro, sognavamo cose semplici ma per noi belle, ma purtroppo non a tutti i sogni si avverano.

Spero di poter avere qualche altro anno da vivere  tranquilla nella mia casa, che per me è il mio castello.

Con la coda dell’occhio

Con la coda dell’occhio – di Stefania Bonanni

Foto di Prawny da Pixabay

Con la coda dell’occhio trascino un pensiero improvviso.

I bagliori che non sanno più diventare sogni restano ricordi confusi, singulti, sospiri, che non sanno parole per diventare frasi. Non trame, né disegni, né intrecci. Solo rimane per sempre il foro dell’ago che ha tentato di unire la pelle strappata. Non ha fatto un disegno, né  un ricamo ruffiano che ricopre lo spacco solo perché non si veda da fuori, non si veda la carne. Ha infilato quell’ago con il filo rosso che ha rincorso di notte, quando è apparso reale, sola strada tra il cielo e la terra. L’ha cercato, come per non avere più  fame, a momenti ha creduto di stringerlo, ha pregato, poi ha aperto le mani, ed erano vuote, e l’hanno consegnata ad un’alba insonne, che non può diventare altro che un giorno ancora opaco, come d’ambra, trasparente di turbamenti e confusioni inattese ed inafferrabili.

Ed è difficile seguire il filo, che continua a bucare ed infilare, per tracciare profili di cose e persone che il sole diretto nasconde alla vista, ma possono essere rivelati da una nuvola improvvisa, nell’ombra.

Tessere come essere tessere. Ritagli, frammenti, pezzetti di vetro colorato, minuzzoli di mosaici, dettagli inosservati. Colla che non appiccica. Che forse un giorno un bagliore c’è stato, di un raggio che ha colpito proprio lì,  forse quel magico momento ha avuto testimoni, o forse no, non era fatto per essere visto da fuori. Il suo solo senso era da dentro, perché fosse mancato, quel disegno avrebbe avuto un vuoto da null’altro riempibile.