Il mio cuore è rimasto nella casa dove sono nata, una casa costruita prima della guerra, sulla cui facciata, per alcuni anni, sono rimaste le tracce dei bombardamenti. Sono venuta via da quella casa, quando avevo circa otto-nove anni e per me fu un vero trauma. E’ la casa in cui ho vissuto con tutta la mia famiglia al completo, poi eventi, morti, hanno modificato questo Eden. Tante volte ci sono passata davanti ma non sono potuta entrare, neanche oltre il portone d’ingresso, perché sempre chiuso. Capitò solo una volta in cui vi stavano facendo lavori di ristrutturazione in uno degli appartamenti del palazzo, per cui trovai il portone aperto. Dopo una vita potei di nuovo calpestare quel luogo. Salii subito al primo piano e capii, con sorpresa, che l’appartamento in restauro era proprio quello che avevo abitato. Anche la porta dell’appartamento era quindi aperta. Sembrava un miracolo poterci rientrare… L’emozione mi assalì, guardai dall’esterno l’andito grande dove giocavo, nell’attesa di veder entrare dalla porta d’ingresso i miei genitori che tornavano dal lavoro. In un istante ho rivissuto tutte quelle attese, ansiose, che terminavano con la loro comparsa e gli abbracci. Rimasi paralizzata e non ce la feci ad entrare per ripercorrere quei luoghi amati, sempre desiderati, così rimasi immobile, quasi timorosa di quel magico passato.
Il nome della strada era insolito “Via sotto la Fortezza” e infatti era una strada interna, senza sfondo, sotto la fortezza di Poggibonsi. Di là e di qua poche villette unifamiliari, i proprietari si fermavano a chiacchierare davanti ai cancelli, i bambini giocavano in strada. Da quella casa, di cui non ricordo il numero, dal retro del giardino che la circondava, si saliva a piedi lungo una fila di orti e si raggiungeva uno stradello sterrato che portava direttamente alla Fortezza medicea. Lungo il percorso, oasi di piante spontanee, arbusti e alberelli. Dopo pranzo la nostra giratina ci portava lassù, a raccogliere le ghiande per giocare e a nasconderci nei capannini naturali dentro certe siepi grassotte a basso fusto. Eravamo regine o cacciatori o animali fantastici, secondo le giornate. Quando con noi veniva anche il suo migliore amico, Fabio, allora io guardavo e basta e i protagonisti delle storie erano solo loro due, che camminavano avanti, per mano, a piccoli passi. Il mondo che ci portava alla Fortezza era tutta fantasia. Ho lasciato lì le finte principesse e anche il corpo di un gatto anziano seppellito sotto un leccio. Aveva vissuto libero con noi gli ultimi suoi anni, dopo che lo avevo ereditato da mia nonna. Appena ci vedeva seduti, ci correva incontro a ciucciarci con vera passione il lobo degli orecchi. Era grato, libero e felice. E’ la casa che sogno spesso, quando sogno case. Si infila nel sonno con qualche particolare secondario, le grandi finestre sul giardino, le porte a vetri, il lungo corridoio, il salotto largo con il divano di pelle e le librerie immense, si ricompone intera dopo, da sveglia, quando cerco di ricordarla. Ho lasciato i mobili, quasi tutti. Ho lasciato anni faticosi, importanti. Ci ho lasciato l’asilo e le prime tre classi elementari di mia figlia e molti dei suoi giocattoli belli. Ci ho lasciato un divorzio.
La precedente, la prima da “grande”, era una casa moderna, piccola e simpatica, con stanze striminzite e nuove, di fronte ad un passaggio a livello sulla Pisa-Firenze che batteva 28 sbatacchiate di campanello quando abbassava le sbarre e che ci faceva addormentare a orario fisso, nell’intervallo tra le 22,10 e le 23,07. Ci ho lasciato la libertà, la piacevolezza della pianura, con certe passeggiate in bicicletta da sola in cui ho scoperto il rumore dei ruscelli e il profumo della prima erba. Ci ho lasciato la meraviglia del rimanere incinta, le parole incrociate con il mio exmarito nell’intervallo del pranzo, una gatta siamese che non ci ha voluto. Ci ho lasciato anche una orribile testimonianza, un piccolo corpo sconosciuto distrutto dal treno mentre attraversava in bicicletta, il brivido mai dimenticato delle urla di chi lo ha riconosciuto.
Ce ne sono state tante altre, in campagna, in città, in paesi di provincia dove la comunità è più presente e curiosa. Le marmellate, le conserve, la raccolta delle castagne in campagna, i tramonti e i silenzi e certe rincorse di monti al mattino, in lontananza. La fretta, gli impegni, gli incontri, le scale e gli ascensori, i vicini buoni e cattivi…ogni casa un periodo, un carattere, un modo di vivere globale e sempre un gatto con noi, giovane o vecchio, maschio o femmina, trovato o ereditato.
Ma l’unica che mi dà vibrazioni ancora vive quando la rivedo da fuori, è la casa di Via Aretina, dove ho soggiornato più che abitato, ma è che è stata la casa della rinascita, dell’unico giardino goduto, un tavolo e due sedie al tramonto riparati dal glicine, in una città inavvertita, al di là dei muri. La casa in cui tornare a sognare. L’unica che ho maneggiato, percepito e perfino modificato….una casa in cui si sarebbe potuto giocare. Dove poi ha abitato mia figlia, crescendo con una piccola gatta raccolta da un cassonetto.