Una riflessione

Ispirato a: “Una lettura da ascoltare” pubblicato in questo blog

Dal vocale di Cecilia: Identitàdi Vanna Bigazzi

Le prime sensazioni di un bimbo piccolissimo che ancora gattona, l’identificarsi nelle cose circostanti, nei primi rumori della sua vita. Identificarsi attraverso il gioco delle ombre e delle luci, che si spezzano, appaiono e scompaiono, come in un gioco: esisto-non esisto. Così gli affacci della casa del sottosuolo sono come le ombre: solo cemento e il fazzoletto di cielo che si scorge guardando in alto, è la luce che si alterna geometrica al grigiore della corte. L’identificazione è anche e soprattutto nella tartaruga, IO impara da lei a reagire: come lei sta immobile e poi gattona lungo il corridoio. Come lei vuole l’insalata; percepisce la propria “potenza” quando battendo la manina sul carapace, la induce a far uscire la testa e proprio alla sua testa si eguaglia: testa e alluce del suo piedino hanno la stessa forma: una tartaruga con due teste oppure IO con due teste. Quando la incontra riconosce se stesso e ride…

Tessuto di Carla: LA SETA

Camicetta rosa antico – di Carla Faggi

Aveva voluto comprarmela quella camicetta di seta rosa antico, a lei piaceva tanto e a me sarebbe stata benissimo. Dopo anni che non la mettevo mai ho finito per regalagliela.

Era una camicetta delicata così come era delicata mia madre, seta preziosa per una donna preziosa.

Carezzare mia madre era carezzare la seta, toccarla con mani attente per non sciuparla, gustarne la compattezza del carattere e la dignità di storia antica.

Bella, altera, fragile e moderna era mia madre con la sua camicetta di seta rosa antico.

Tessuto di Luca: LA PELLE

Giubbotto divino – di Luca Di Volo

Foto di StockSnap da Pixabay

Molti non lo sanno, e si stupiranno alquanto.  .  ma è tutto vero.  . 

C’è stato un momento, circa all’epoca in cui la mia generazione aveva i suoi adolescenti o quasi, in cui Dio aveva preso le sembianze di un oggetto banale.  .  (si fa per dire.  .  ): un giubbotto di pelle …qualunque pelle.  .  purche’ fosse pelle vera…

Anzi.  .  bisogna completare la definizione di prima.  .  che era questa: ”giubbotto di pelle da quarantamila lire.  .  ”.  Le ”quarantamila lire“ non erano un particolare trascurabile…Raccomando ai lettori di fare uno sforzo per riportarsi all’epoca e alla sua realtà economica.  . 

Completo il lungo preambolo dicendo che, oltre a questa specie di “vitello d’oro”, ce n’era un altro.  .  ma per il fatto di essere totalmente irraggiungibile, alla portata solo di pochi figli di papà, era stato rimosso più o meno inconsciamente.  . 

Era la famosa Giulietta spider.  .  con la quale l’unico contatto possibile era assistere al loro sfilare davanti al Bar Milano a Forte dei Marmi, con un abbronzatissimo pilota, e con a bordo non so più quante splendide ragazze appese anche in improbabili appoggi pur di partecipare allo show.  . 

Ma rimaniamo nel popolino…Il profeta di questa nuova religione si chiamava (e penso si chiami tuttora) Piero.  . 

Figlio di un’Italiana e di un soldato Americano che, vista la mala parata, aveva pensato bene di tornarsene al paesello, era cresciuto con le cure della mamma e di una vecchia zia…viziato e coccolato  , nonostante i magri guadagni della madre, che faceva la sarta e della zia, che faceva ripetizioni di Italiano e di Latino a tutto il quartiere, era sempre vestito elegante, azzimato e pulitissimo. 

La sua origine Americana la tradivano i capelli biondissimi, la sua altezza e gli occhi azzurro profondo.  . 

Sua madre non si era voluta mai risposare, accettando un duro destino di lavoro e ristrettezze, vivendo solo per questo figlio.  .  a cui ancora.  .  senza nemmeno vergognarsi qualcuno accennava parlandone come il “figlio della colpa”.  .  Ahimè.  .  questi erano i tempi.  . 

Questo per spiegare la sua volontà di riscatto.  .  oggettivizzata, chissà perché, nel famoso “giubbottino da quarantamila lire.  .  ”

Fatto sta che aveva trascinato in questa specie di Santo Graal quasi tutti i ragazzi del quartiere che non potevano nemmeno parlarne coi genitori…forse per non umiliarli. 

E non appena qualcuno nella zona esibiva un indumento del genere.  .  immediatamente lo veniva a sapere…annunciandolo come qualcuno che era salito troppo in alto per  essere un mortale.  .  L’ultimo era stato un certo Lallo.  .  per forza.  .  era stato il commento ”issubabbo faiddentista.  .  ”  Quindi non c’era da stupirsi.  .  come oggi.  . 

Allora…sforzatevi di immaginare la scena quando lui .  .  proprio lui.  .  si avvicinò al solito gruppetto di fannulloni esibendo.  .  gonfio come un tacchino…proprio un giubbottino di pelle.  .  non si sa se da quarantamila lire o no.  .  ma così, a prima vista di pelle lo era senz’altro.  . 

Tralascio i falsi commenti invidiosi degli astanti…

Però ogni Eden ha il suo serpente…E questo apparve con l’arrivo un po’ in ritardo di un altro della combriccola.  .  si chiamava Giancarlino…il più “bene” (si fa per dire) della compagnia.  .  figlio di un tipografo con una piccola tipografia sua…sarebbe stato l’indiziato maggiore come futuro possessore del famoso indumento…invece Piero, detto Pierino.  .  l’aveva superato in curva.  . 

Invece di congratularsi.  .  con un sorrisetto mellifluo si avvicinò al festeggiato dicendo.  .  ”Mi fai vedere?!”…e poi .  .  ”Me lo fai toccare.   ?!”

E dopo averlo un po’ assaggiato con le dita pronunciò l’orribile sentenza…”O bischeri.  .  unvuvvedete chell’è pelle finta.  .  ?!”

Una tragedia.  .  Il vitello d’ora era caduto sotto gli strali del nuovo Mosè…

E qui chiudo per evitarvi lo strazio che ne seguì…

Personaggi e storie: Gabriella

Oddo Giulin – di Gabriella Crisafulli

Foto di Sandra Conticini

Ispirato a:

Un biglietto di sola andata Roma-Torino

Uno scontrino di un bar di Firenze di 5,80 euro

Un fazzoletto di carta con un indirizzo e-mail

Una fede d’oro

Una carta socio dell’Accademia La Colombaria

Una foto di gruppo spezzata in quattro

Un tacco a spillo di una scarpa da donna.

Personaggio

Oddo Giulin ha 70 anni.

Gli occhi vigili sovrastano un’espressione tirata, i denti serrati, le labbra strette.

Non sorride mai: non può farlo, divorato com’è dalla preoccupazione di sé, degli altri, di quel che succede.

Alto e dinoccolato ha un’andatura ondeggiante.

Nella sua vita, fin da giovanissimo, ha lavorato tanto, ha lavorato sempre, con passione, con dedizione, con fanatismo: adesso è in pensione e non sa cosa fare.

Da poco tempo ha perso la moglie.

Storia

Ecco è nato, ce l’ha fatta, è lì, nero su bianco: funzionerà? Chissà. Scrive e riscrive. Cancella. Si affiancano più file nella cartella. Primo, secondo, terzo. E la storia? Qual è la storia? Non ne può più di narrazioni nostalgiche. Ma gli sbocchi che le vengono in mente sembrano inconcludenti. Salva tutti i testi. Vorrebbe che il personaggio andasse spedito per la sua strada, al di là del caos, verso i segreti che lo paralizzano.

Oddo Giulin è allo specchio e si rade.

Si osserva e vede che l’età lo ha raggiunto alle spalle senza che se ne accorgesse.

A quel pensiero la mano che fa su e giù sul volto ha un attimo di esitazione.

Si impegna a procedere con calma, ormai è in pensione e non ha la preoccupazione di fare tardi.

Era un appassionato del suo lavoro. Il lavoro era stata la sua ossessione. Da quando era diventato maggiorenne tutte le sue energie sono state utilizzate quasi solo per quello. I colleghi lo apprezzavano. Le donne lo corteggiavano. Adesso c’è il vuoto.

Si sente morto.

Ha smarrito le sue sensibilità affettive, le sue certezze, la percezione del tempo, dello spazio, dei luoghi. Non sa più chi è. La sua identità era legata al ruolo e alla moglie. Oggi li ha persi entrambi.

Il mondo è diventato irreale: risiedeva tutto nella relazione con Carla, nella loro lunga convivenza fatta di un gioco che facevano per riuscire a sopportare le incongruenze e la fatica della vita, un gioco dissacratore che conservava in sé l’unica verità possibile, l’assurdo.

Oggi il presente è popolato da illusioni perdute, delirio, fallimento ma soprattutto da un grande silenzio che si dilata nella mancanza di interlocutori.

Il passato era andato al di là delle barriere che la giovinezza mantiene ben salde e adesso lo aveva sprofondato in una inquietudine inconsolabile.

L’idea dell’assenza che lo pervade è davvero molto forte.

Si trova immerso nel vuoto.

Per andare oltre, per lanciare la propria sorte scavalcando la barriera, ci vuole un’idea ma non sa quale.

Dice a sé stesso che il destino non è già scritto e deve provare a ricostruirselo.

Ora però i giochi sono altro e non sa quali pedine muovere.

Negli anni aveva lasciato poco spazio per altro.

Non dedicava tempo ad amici e conoscenti: erano loro a cercarlo. Gli piaceva giocare a calcio. Due volte alla settimana, la sera, andava con i colleghi a fare qualche partita. Ma non lo può più fare. Deve trovare un altro campo di gioco.

La sua attenzione viene catturata dalla scaffalatura alle spalle, riflessa nello specchio nel quale si guarda. Ci sono ancora, ben allineate, le scarpe lasciate da sua moglie: spicca l’oro di un tacco a spillo. Lei, con qualunque tempo ed in ogni stagione, indossava calzature con tacco vertiginoso. Mettevano in risalto le lunghe gambe e le caviglie sottili.

Quel tacco era venuto via. Sente che lo deve portare dal ciabattino per farlo attaccare alla suola: lo deve a Carla ma non sa perché.

Intanto la mente è ingombra di domande che intralciano il succedersi delle azioni: nella tazzina…prima lo zucchero o il caffè??

Ha amato Carla?

E lei gli ha voluto bene?

Si pone interrogativi su di sé, su di lei, sulla coppia che erano, sugli amici perduti.

Ha rovistato nei suoi cassetti per trovare delle risposte.

Chi era Carla?

Conosceva tutto della sua vita?

Ha trovato un indirizzo mail, a lui ignoto, scritto su un fazzoletto di carta ben conservato dentro una scatolina e lo assilla una grande curiosità. Guardando nel suo cellulare scopre che è di un’amica di penna. Non sapeva nulla dei loro contatti, dei loro incontri.

Ritornò da Oddo.

Erano passati dieci giorni da quando erano stati in contatto l’ultima volta. Intanto le sue ore erano trascorse tra una complicazione e un’altra. Ancora non riusciva a mettere insieme la mattina con la sera mentre il tempo si era frantumato in ritagli che le svolazzavano intorno senza che li potesse afferrare, senza poter dare loro una sequenza, un ritmo, una regola. Figurarsi se poteva stare dietro al personaggio. Però gli si era dedicata e aveva messo in campo per lui tutti gli elementi che potevano servire per una storia. Ma questo non era bastato a trattenerlo.

Se n’era andato.

L’aveva lasciata in difficoltà davanti a tutto il gruppo a cui non sapeva cosa dire.

Aveva dovuto confessare la sua confusione, il suo male di vivere che non interessava proprio a nessuno e forse nemmeno a lei che se lo doveva sorbire notte e giorno e non vedeva l’ora di passare un po’ di tempo con gli amici per non doverci pensare.

Le veniva quasi da ridere.

Oddo è stanco. Si dice che è inutile restare lì ad ingarbugliarsi nei suoi pensieri. Vuole andare via.

Fra tre giorni a Torino inizia la fiera del libro. I libri sono stati e sono davvero importanti per lui. Avevano salvato la sua infanzia quando si recava nella libreria degli zii e stava ore a leggere tutto quello che trovava, seduto su uno sgabello dietro il bancone. Aveva ancora nel naso quell’odore di carta che lo avvolgeva e lo inebriava. I libri avevano attenuato il peso dei primi anni di lavoro al Nord, lontano dalla famiglia, quando i soldi finivano velocemente e spesso gli mancava il mangiare. Avevano sempre accompagnato il suo tempo libero e lo avevano distolto dalle preoccupazioni.

Sì, andrà a caccia di libri: siede al computer, prenota il biglietto del treno, lo stampa.

Ha anche una finestra di settantadue ore per fermarsi a Firenze: è lì che risiede l’amica di Carla. La cercherà. Vuole che lei gli racconti sua moglie.

Ha tante cose da chiederle.

Mette in uno zainetto il minimo indispensabile e infila nelle tasche della giacca alla rinfusa il portafoglio con documenti e carte, il biglietto del treno, il fazzoletto di carta con l’indirizzo e-mail dell’amica, la carta socio dell’Accademia La Colombaria di Firenze, il tacco a spillo dorato che era appoggiato sullo scaffale in bagno, il numero di telefono della sua autrice dalla cui penna è venuto fuori, la foto recente di un gruppo in cui compare la moglie insieme a persone a lui sconosciute. Inspiegabilmente l’istantanea è stata strappata in quattro pezzi e poi rimessa insieme con il nastro adesivo.

Quando chiude la porta di casa si sfila la fede dal dito e anche quella finisce nella tasca della giacca: vuole forse imbroccare?

Quando ebbe finalmente la testa un po’ più libera, cercò di nuovo Oddo nel computer dove lo aveva lasciato, ma non lo trovò. Si mise a rovistare ovunque, in ogni angolo della memoria tentando di individuarlo per data e per titolo di file, ma il suo personaggio era sparito. L’aveva abbandonato davanti allo specchio del bagno mentre si faceva la barba e contemplava il tacco spezzato della scarpa della moglie e adesso non sapeva dove fosse finito. Ora cosa avrebbe detto alla sua editor? Cosa avrebbe raccontato ai suoi compagni? Ne andava del rispetto nei loro confronti. E non aveva nessuna voglia di pensare ad un altro personaggio, ormai aveva dipinto quello, voleva vedere cosa combinava. Aveva trascorso ore pensando e ripensando a situazioni, incastri, coerenze, assurdità. Doveva trovarlo a tutti i costi per vedere cosa succedeva.

Ha impiegato due ore per arrivare a Firenze.

Durante il viaggio ha scritto all’amica della moglie che gli ha fissato un appuntamento e lo ha informato che ci saranno altre persone ma avranno tempo per parlare di Carla.

Ha poi concordato con la segreteria dell’Accademia La Colombaria l’acquisto delle fotocopie del testo originale della “Didone abbandonata” di Pietro Metastasio. Erano stati di una gentilezza estrema, gliele avrebbero preparate per il pomeriggio. Via Sant’Egidio non era lontana dalla stazione e avrebbe potuto sbrigare quella commissione comodamente.

Infine aveva chiamato la sua autrice. Le aveva detto: – Sono diretto a Firenze sulle tracce di Carla. Acquisto le copie degli originali di “Didone abbandonata” e vado a trovare la sua amica. Ti faccio sapere. –

Nel momento in cui poggia il piede alla stazione di Santa Maria Novella si rende conto di avere una gran fame. È andato via di casa senza mettere nulla in bocca. La sua era stata proprio una fuga.

Si ferma ad un bar e ordina un toast e un cappuccino. Mangia con calma: in mente la musica di Monteverdi. Deve prendere una stanza per la notte e ne prenota una in un alberghetto in via Cerretani dove svuota lo zaino e si fa una doccia. C’è un grande sole in città e fa caldo: esce con indosso solo jeans e camicia sotto la giacca.

Va prima di tutto a ritirare le fotocopie e poi si dirige dall’amica di sua moglie.

Ecco, si era fatto vivo: l’aveva chiamata. Ora sapeva dov’era, cosa faceva. Lei avrebbe dovuto intingere la penna nel sangue come riusciva a Metastasio con i suoi personaggi.

  • Passò quel tempo, Enea,

           che Dido a te pensò. Spenta è la face,

           è sciolta la catena,

           e del tuo nome or mi rammento appena.

E invece le sue parole erano impregnate di the. Non c’era nessuna attrattiva nella storia che stava scrivendo, la vita banale di un uomo mediocre, con un’esistenza ordinaria. Non sapeva nemmeno chi era sua moglie e non riusciva a piangere. I veri eroi piangono: Achille, Enea, … spargono fiumi di lacrime.

Pur non essendo un eroe, piangeva lacrime amare anche lei che non riusciva a volare, a ridere, a cantare e soprattutto a scrivere una storia.

Prende l’autobus in piazza stazione. Arriva in orario all’appuntamento in via delle Panche alla chiesa di Santo Stefano in Pane. Lì, in una grande canonica, c’è Lisa che lo aspetta. Lo accoglie calorosamente, lo abbraccia. Intorno a lei un gruppo di giovani. Alcuni sono seduti ai tavoli con sopra tante strisce di carta di quotidiano, ciotole di colla di farina e materiali vari colorati come bottoni, tessere, nastri, palline, stoffe, strass, … e cianfrusaglie varie. Più in là, addossato ad una parete, un piano con barattoli di tempere e pennelli. Oddo guarda i ragazzi che stendono le strisce su dei contenitori di carta riciclati e li carezzano con le mani intinte nella colla: formano degli strati. Quando il tutto si ammorbidisce lo modellano col palmo e fra le dita. Altri ragazzi girano fra i tavoli per aiutare. C’è un sottofondo di chiacchiericcio ridente, di voci sincopate, di esplosioni di contentezza, di un battere di mani sudice, di commenti goderecci. Oddo è flesciato da quell’atmosfera. Intorno vede nascere navi spaziali, mostri, animali, piante, … Lisa gli chiede se vuole provare anche lui. Si siede accanto a una bambina molto concentrata su quel che fa. Lei è nella fase in cui vengono incollati i materiali a disposizione. Oddo parte da una scatola del sale. La colla è tiepida. Accarezzare la scatola è piacevole: via a via che mette strati e colla il cartone perde di rigidità, si smussano gli angoli e lui si concentra a tal punto da dimenticare il mondo circostante. Il contenitore da essere un parallelepipedo è diventato ovale. Oddo tira fuori quello che ha in tasca: i pezzi di foto diventano capelli intorno alla nuca, lo scontrino del bar ben appallottolato, il naso, il tacco sulla sommità del capo un ciuffo alla Brachetti … Per la bocca va a cercare qualcosa nei tavoli: la trova. Del panno lenci rosso ritagliato a cuore.

Lisa non lo disturba.

Si avvicina solo per dire sottovoce: “Quando vuoi parliamo di Carla.”