Palloncini di Lucia Bettoni

Palloncini di Lucia Bettoni

Disegno di Carmela De Pilla

Palloncini – di Patrizia Fusi
disegno di Carla Faggi

L’immagine dei palloncini mi ha colpita.
Ognuno di noi è diverso dall’altro per intelligenza, cultura, estrazione sociale, bellezza, fantasia, tutte doti del proprio bagaglio genetico.
Se persone così diverse fra loro hanno il piacere di ritrovarsi nel gruppo delle Matite, qualcosa ci accumuna.
Io vedo ognuno di noi con un rocchetto di filo: sono le nostre vite e le nostre capacità, che mettiamo in evidenza nel gruppo con i nostri lavori.
La persona a cui abbiamo affidato i nostri rocchetti è la Cecilia che è riuscita a dare la libertà a ognuno di adoperare il proprio filo secondo le nostre capacità.
Alla sommità di ogni filo c’è legato un palloncino, tutti sono posizionati a varie altezze ma sono sempre tutti insieme e c’è anche quello della nostra Guida.
Sono un bellissimo mazzo colorato, fatto di tante storie, emozioni, esperienze, dolori e tanto altro.
Io ho scelto quell0 di colore rosso.
Questo mazzo di palloncini ci solleva dal peso del momento che viviamo attualmente.
E del vivere quotidiano di ognuno di noi.
L’unione fa la forza.
(E’ questo che ci fa stare insieme???)
con Cecilia Trinci







Ultimo, generoso, commosso incontro in videoconferenza di questo anno, così importante e diverso dagli altri, così partecipato e condiviso.
Un tempo che è stato meno giocoso ma più “utile” (Tina), un “tempo bello, di qualità” (Stefania), che ha dato respiro in un periodo difficile (Anna), che ci ha concesso la malinconia (Gabriella), che ci ha permesso e richiesto maggiore concentrazione ( Luca) e intimità (Nadia, Carmela, Patrizia), che ci ha dato la possibilità di osservare noi stessi (Rossella), che ci ha permesso di ascoltarci di più (Carla), che ci ha sollecitato e risvegliato (Vanna), un tempo di empatia e rispetto (Lucia, Laura), che ci ha permesso di conoscerci di più tra noi (Sandra), un tempo in cui i nostri dolori sono stati accolti dagli altri e sostenuti come da tanti palloncini colorati (Gabriella) , un tempo in cui, con questo mezzo, le Matite si sono reciprocamente ospitate in casa propria.
Un tempo di Umanità.

La cosa più bella di questo anno insieme è stata la capacità di restare uniti e aver saputo scrivere pagine importanti. Non solo per noi stessi, perché scrivendo abbiamo liberato pieghe dell’animo e aperto nuove finestre, ma anche per chi ci ha letto con interesse e affetto.
Sono felice di questo nuovo traguardo, che dietro ne promette altri, ancora da inventare.
Sono felice del chiarore che si intravede, dei legami che ci hanno fatto compagnia.
Da soli siamo qualcosa di unico e possiamo volare come un palloncino leggero, ma insieme siamo forti, come un mazzo di palloncini, capace di sollevare pesi che altrimenti sarebbero rimasti a terra.
disegni di Carla Faggi e Lucia Bettoni



Mi dispiace per chi si è perso per strada, auguriamo loro un buon cammino,…. se non un possibile ritorno.


Odori di case – di Patrizia Fusi

La mia famiglia era composta da cinque persone e lasciare la mia prima casa è stato bello, era un semi interrato di due stanze e mezzo, con il gabinetto per le scale che serviva per le sei famiglie che ci abitavano.
Un piccolo quadrato, da un lato c’era uno scalino alto con al centro un grande buco che veniva richiuso da un tappo che aveva sopra una maniglia, per noi bambini avevano fatto un piccolo foro alla base del pavimento per la pipi, all’inizio non c’era la luce elettrica e quando era buio si andava con la candela.
Mio babbo mise la luce che si accendeva da dentro casa, fu una bella cosa.
Era situato alla prima rampa di scale e aveva lo sfiato dell’aria che usciva sopra il tetto, quando alzavo gli occhi vedevo questo lungo rettangolo pieno di ragnatele con una luce fioca alla sommità.
Non c’era acqua e l’odore pungente invadeva le scale, quella era la normalità.
La mattina si poteva incontrare le massaie con i vasi da notte che andavano a svuotarli.
Noi bambini quando eravamo fuori a giocare nel campo i nostri bisogni li facevamo dietro i cespugli e ci pulivamo con i ciuffi d’erba.
Traslocare in un appartamento di cinque stanze grandi al primo piano, con la mia prima stanza da bagno molto piccola ma dove c’era tutto e era solo nostra.
Avere la luce e il sole che entravano nelle stanze fino a tardi, senza le inferiate che c’erano nell’altro appartamento.
Nel primo appartamento ho lasciato tanti ricordi della mia infanzia, sensazioni, odori, paure.
E ho visto la mia crescita da bambina a ragazza e lì, in quel contesto del mio paese e dentro quell’abitazione, ho preso la consapevolezza di cosa voleva dire classe sociale, mi sono anche fortificata come persona.
Ricordo ancora tutto il periodo trascorso dentro quelle piccole stanze, il bello e le difficoltà incontrate, gli oggetti, la moscaiola un piccolo rettangolo con ai lati della rete per far circolare l’aria, dove la mamma metteva il burro, la marmellata o altri cibi per proteggerli dalle mosche. Quando è arrivato il frigo è sparita.
Le mezzine di rame per l’acqua, l’acquaio in pietra serena un po’ consunto.
La vetrina con il sotto che serviva a contenere pane pasta e altro, c’era un vaso di terracotta con dentro dello strutto che la mamma comprava al forno dove cuoceva la carne di maiale, con questo grasso arricchiva le verdure stufate con il pomodoro
A me piaceva stenderlo sulla fetta di pane, le goccioline di succo di carne con l’aroma del rosmarino nell’inverno era una merenda golosa.
Nel lato superiore aveva in bella mostra le tazzine da caffè, i piccoli bicchieri da rosolio, la trina che pendeva dai ripiani.
La sveglia a cipolla che con il suo ticchettio rumoroso ci accompagnava tutti i giorni e ci faceva compagnia.
Il grande camino che non si è mai adoperato dove era posizionato il fornello a gas.
La stufa a legna che serviva per riscaldarsi e cucinare nei periodi freddi.
Il prete con lo scaldino che veniva messo nel letto per riscaldarlo e per levare l’umidita dalle lenzuola.
L’odore del mangiare che mamma preparava, odore di cavolo, di minestra di verdura, tutto questo mi abbracciava e mi accoglieva a differenza di quello che provavo quando andavo nella casa di una mia zia che abitava nello stesso paese che profumava di borotalco, per me odore sgradevole che mi faceva sentire diversa e respinta.
La casa tra i fiori- di Tina Conti
foto di Tina Conti




Oggi è il mio giorno libero, (il martedì), sono contenta da quando scendo dal letto.
Mentre preparo la colazione sbircio fuori dalla finestra: tempo mezzo e mezzo, il letto lo faccio subito, ieri sera mi sono avvantaggiata in casa per esser libera, i bambini ieri erano solo in tre e hanno giocato quasi sempre fuori.
A parte le merende continue, il più grande mangia come un lupo, il pane che ho comprato ieri , quasi un chilo e’finito., divorato in fette con il pesto di baccelli che doveva essere per la cena, insieme a banane, nespole e mini schiacciate. Le minacce che spingevano a pulirsi le scarpe quando rientravano in casa hanno dato buon esito, sembra tutto in buono stato.
Esco, vado nella mia palestra privata, camminata veloce sul vialetto, con sacco del differenziato al seguito, piegamenti davanti alle piante di rose per estirpare le erbette che le vogliono soffocarle, visita all’orto.
Controllo delle semine e poi leggera zappatura alle cipolle.
Ascolto mentre il mio corpo rallenta il galletto mattutino che mi saluta energico e squillante, la tortora, che gongola morbida e ondeggiant mentre, libera dalla cova, si accovaccia nell’erba bagnata.
Mentre respiro mi beo del verde che e’ spuntato ovunque, tante tonalità, che quasi mai riesco a cogliere nei miei acquerelli.
Le gocce di pioggia sui baccelli sono perle ondeggianti, lucide e incantate.
Zappetto leggermente la terra appena bagnata e mi piego per liberare le fragole dai fili d’erba che si sono intrufolati.
Le lumache questa volta non hanno fatto danni, tutto è rigoglioso, sono contenta.
Riprendo la camminata per rientrare a prendere lo spago, per formare piccole fascine con le potature degli olivi lasciate a terra.
Serviranno per il forno e le cotture autunnali conservate al riparo nella legnaia.
Allungamenti, respiri consapevoli, ginnastica con gli occhi per scrutare il bello che la primavera ci regala..il canto degli uccelli e’musica melodiosa e ginnastica per il cuore, e poi fruscii, brezzoline, odori, sprigionati dalle erbe calpestate.
Godo nel vedere gli uccelli avvicinarsi alla casa per mangiare le briciole e i semi che nascondo vicino ai vasi perché indugino e si facciano vedere.
Si alternano cinciallegre e pettirossi, qualche volta anche tortore, le upupe arrivano nel prato, si fermano alla ricerca di vermi, poi volano via.
La ginnastica e’finita, dopo aver riportato le biciclette lasciate dai bambini
sotto la tettoia, raccolto monopattini e palette rientro.
La casa che abito da venticinque anni è arrivata dopo le altre tre della mia vita.
La casa di famiglia, tanto amata e che mi ha fatto sentire sicura e protetta insieme a quel grande contesto di luoghi e persone che l’animavano. Non volevo lasciarla e anche dopo, quando ci tornavo, sentivo che qualcosa si distendeva. L’orto non lo abbiamo venduto, è un pezzo di casa che è rimasto di tutti e se anche non ci vado più so che c’è, che serve a qualcuno, che è fonte di amore e di vita. L’orto della nostra “casa delle cose” ci metteva in comunicazione, perché lì, all’aperto, si stava insieme e c’era sempre qualcosa da raccontare, da scambiare.
La casa di due anni in via dell’Arione, non mi ha lasciato grandi ricordi e affetti.
Poi la casa nuova, organizzata in modo giovane, con spazi aperti, luce e tanta famiglia, dove si era ricreato un mondo caldo e pieno di vita. Abitata per mezza vita e lasciata con trepidazione.
La casa di oggi, per tutti i figli, fratelli, amici, grandi tavoli per ospitarli dentro e fuori, aperta, felice degli ospiti che si presentano, con sempre qualcosa da regalare.
Un po’ di radicchio, una pianta, la frutta degli alberi, un piatto cucinato, e tanti mazzi di fiori. Si mi piace regalare e ricevere fiori. Sparsi in giro nel campo e nel giardino sono stati piantati cespugli e piante perenni che regalano fioriture nelle varie stagioni e ancora ne verranno piantati, ci sono tanti nuovi progetti.
Una casa per sentirsi accolti, dove i bambini hanno giochi, abiti vecchi, consoli, oggetti, spazi per stare, giocare, lavorare e divertirsi, riposarsi, dormire.
Una casa con poche pretese, da usare, senza paura di rovinare, tanto io dico non si finisce una casa in una vita , tanto vale sfruttarla bene.
Le case del cuore – di Carmela De Pilla


Fino alla maggiore età, e una volta si diventava maggiorenni a ventun anni, la mia casa è stata il mio cuore, un cuore calpestato da un’inquietudine che mi avvolgeva nel silenzio di mille notti scure e malinconiche.
Ho vagato per infiniti anni, così mi sono parsi, tra muri invalicabili e stanze abitate da sconosciuti, ho soggiornato in più collegi o in casa di zie che “mi tenevano per un po’ di tempo”, mi sentivo forzatamente abbandonata, ma per fortuna amata perciò il calore di una casa l’ho sentito solo quando ero già una giovane o quando una volta l’anno la famiglia si incontrava in un affetto che attenuava quella solitudine che si infiltrava nell’anima.
Una casa ha impresso dentro il mio sangue il marchio dell’amore che ci legava e ci sosteneva nonostante tutto, era la “casa del mare” costruita da mio padre negli intervalli di tempo in cui rientrava in Italia “Questa deve essere la casa del cuore, quella che ci permetterà di stare insieme, ognuno avrà la sua camera e ci sarà una grande sala dove potremo mangiare e ballare anche quando sarete sposati e saremo più numerosi” così dicevano papà e mamma.
La semplicità della casa contrasta con la bellezza del luogo, essenziale nella struttura, un unico pian terreno con quattro camere, per i miei due fratelli, per me e per i miei genitori, una piccola cucina e un’ampia sala centrale che si affaccia su una grande veranda che guarda il mare…quel mare con le isole Tremiti che ci osservano giorno e notte.
Lo conosco bene il mare, ne conosco l’ odore a volte delicatamente profumato, a volte così intenso da dar fastidio, ne conosco il suono, dolce musica spinta e accompagnata dalla brezza o il frastuono del mare mosso che di notte lascia spazio alla paura, conosco la sua trasparenza che non tradisce mai e i mille colori sempre diversi, ho imparato lì a scoprire le innumerevoli sfumature dell’alba e del tramonto che invitano a sognare, è lì che sento l’odore acuto del giglio marino e quello delicato del mirto.
Nel silenzio e nel blu intenso della notte sembra di toccarla la luna e le stelle che sembrano più luminose e più vicine ci indicano senza fatica l’orsa maggiore, l’orsa minore, il carro…e ti lasci rapire da tanta bellezza.
Nel tempo è diventata più bella, ma è rimasta sempre “la casa del cuore” che ha custodito quell’amore che ci ha unito a dispetto di un destino che ci ha voluto separare, tuttora è la casa del mare dove si sono divertite anche le mie figlie e i miei nipoti e ora anche i loro figli.
Ho percorso tante strade affollate di paure, dubbi, silenzi, ma via via si faceva sempre più spazio dentro di me una forza che mi ha spinto a trovare la voglia di una rinascita ed è proprio in questo momento che ho incontrato l’amore e un’altra “casa del cuore”, finalmente la mia casa! Quella che mi ha vista moglie, mamma e donna sempre più sicura e più desiderosa di conoscersi e di realizzarsi.
Era una bella casa, nella zona di Rifredi a Firenze, un terratetto su due piani, arredato con mobili semplici ed eleganti, con un piccolo giardino dove le mie bambine, ora donne sono nate e cresciute e dove ho vissuto momenti importanti della mia vita.
L’ultima “casa del cuore” è quella dove vivo attualmente, ora che sono una donna matura, per così dire vedo le stelle più luminose perché ho imparato a costruire una strada fatta di amore, di amicizia, di passioni e questa casa rappresenta la sintesi di tutto ciò, è la casa dei miei sogni, la volevo proprio così!
Abbiamo sempre desiderato vivere in campagna così tra rinunce e un mutuo da pagare siamo riusciti a comprare una porzione di colonica immersa nel verde, anche questa come la casa al mare ha una grande sala per la convivialità, è piena di cianfrusaglie come dice mio marito che a me invece piacciono un sacco e poi c’è un grande giardino, luogo di incontro e di feste con gli amici e l’orto, ultime mie passioni.
Soprattutto in primavera, quando le piante hanno bisogno di me, passo molte ore della giornata fuori a trapiantare, potare, seminare e la fatica che faccio è ampiamente ripagata dalla gioia immensa di vedermi circondata dai colori, dai sapori, dalla musica e dal profumo della terra.
LE CASE DEI RICORDI – di Simone Bellini

Infanzia: la noia dei mesi estivi si consumava in una villa padronale dei miei avi, vecchia, stravecchia, ma contenente in sé un’antica dignità. Una marea di stanze affrescate in stile grottesco e camini mai utilizzati.
Tre mesi di vacanza scolastica di una noia mortale per un ragazzino confinato nel nulla. Fu così che trovai sfogo imparando a suonare la chitarra in maniera autodidatta.
Solo dopo che fu venduta capii quanto quella casa mi mancava.
La casa di città; ci sono nato io e i miei figli che, una volta venduta, hanno sentito molto il distacco da quelle mura, dagli amici, da una vita accertata nei suoi piccoli agi, accusandomi poi, una volta tornati all’ Antella, di averli portati in mezzo ai lupi.
Adesso non andrebbero più via da questa zona. Mia figlia, che è tornata in città, aspetta a gloria di fare a cambio con noi, e recuperare la nostra casa all’Antella.
Sognai l’altra notte che ritornavo a Manderley…….

Case intorno a una chiesa – di Stefania Bonanni
disegno e foto di Stefania Bonanni

Primo tempo: casa nr. 1. La vita sconosciuta .
Una casa piccina piccio’, senza acqua corrente e con i mattoni rossi lucidati da cinabrese ed olio di gomito, uno strano odore di cera e sugo, sempre in aria. Genitori bellissimi e giovani, due bambine con i vestitini ricamati , le ginocchia sempre sbucciate , le gote rosse di sole e corse. Una nonna che più nonna di così non sarebbe stato possibile, brontolona, saggia, sempre proverbi, detti antichi, rimedi, rosari. Fuori dall’uscio campi, fiori, prati, il fosso, il fiume a due passi. Nei prati lenzuola ad asciugare, vele bianche come pensieri, negli occhi per sempre. E bambini sempre, fuori c’erano sempre bambini. Si dormiva nel letto della nonna in tre, la nonna e le bambine. Appoggiata alla parete, sentivo battere il bambino della casa accanto, un colpo era buonanotte, due a domani, tre ho paura del buio. Un’infanzia piena di giochi, amore, famiglia e compagnia. Ho lasciato in quella casina la convinzione che sarebbe stato così sempre, non avrebbe potuto essere che così.
Casa nr. 2: il paese e le regole.
Sempre in affitto, si andò ad abitare in una casa orizzontale, con le stanze e le finestre in fila. Una casa con l’acqua corrente e la stufa a kerosene che riscaldava tutto. Si erano lasciati i grandi catini di metallo. Il bagno si faceva nella doccia, arrivò perfino la lavatrice. Le finestre in fila guardavano tutte l’Arno. Eravamo proprio nel centro del paese, esattamente sotto il campanile della Chiesa, con le campane che battevano le ore, compresi ovviamente dodici colpi a mezzogiorno, dodici a mezzanotte , più i rintocchi che annunciavano la messa, il vespro, il rosario, quelli che suonavano a morto, quelli a distesa per le feste. Accanto alla porta di casa cominciava un grande scalino dove c’era sempre qualcuno a chiacchierare, seduto su sedie portate da casa. Davanti alla porta, l’ufficio postale dove lavorava Anna ed in salita la stradina, saranno stati venti, trenta passi, che portava alla Chiesa, e che la mia nonna percorreva di corsa ogni volta che suonavano le campane. La rivedo bene, con il vestito scuro, in testa il fazzoletto da Chiesa, nero di pizzo, legato sotto il mento, le mani lungo i fianchi, strette per scongiurare un colpo di vento che alzasse la sottana, le labbra che si muovevano in silenzio per rammentare santi antichi. Aveva il suo posto in Chiesa, e quando ci sono tornata mi ha emozionato sedermi lì, quel pezzetto di panca è stato la sua casa, in quegli anni. E forse anche dopo, perché quando abbiamo cambiato casa, la nonna ha cominciato a perdersi, non trovava la strada di casa. Io ho sempre pensato che lei sia rimasta lì, nella casa sotto il campanile.
Sotto le finestre in fila, passava decine di volte al giorno il garzone del macellaio, su un motorino smarmittato che faceva un fracasso impossibile da ignorare. Guardava in su, per vedere se mi affacciavo. Mi piaceva moltissimo il macellaio, e c’erano anche molti altri “mosconi” che mi giravano intorno. Fu lì che cominciarono gli orari da rispettare, i divieti di uscire, le domande, le chiacchiere delle donnine che sempre ti avevano vista parlare con tizio, poi con Caio. E io parlavo, e ridevo, rimasi molto male quando il babbo cominciò a chiudersi dietro la porta di casa, con le mandate. Lui lavorava di notte e sbarrava tutto appena dopo cena, mentre fuori c’erano tutti i ragazzi e le ragazze del paese, che ci chiamavano da sotto le finestre. Poi venne anche l’amore, ma non cambiò l’abitudine di passare le giornate sul piazzale della Chiesa a giocare, parlare, cantare, sognare, e sempre tutti insieme, con quel fidanzatino, e Paolo che mi guardava da lontano, e gli scherzi, ed il grande affetto tra di noi, ancora. Ho lasciato in quella casa l’estate senza ombre.
Tre case e un solo castello – di Sandra Conticini

Ricordo il dispiacere che provai quando, arrivando nella casa che dovevo lasciare, la trovai vuota. Lo sapevo che doveva succedere, ma speravo il più tardi possibile. Andai in terrazza per non farmi vedere e iniziarono a scendermi le lacrime. Era la casa della mia infanzia e da poco, siccome la nonna ci aveva lasciati, mi ero guadagnata un letto in salotto. Un bel traguardo, perchè fino ad allora avevo dormito in camera con i miei genitori. Ricordo quando la mamma mi lavava in cucina nell’acquaio di granito sempre con l’acqua fredda, oppure quando uscivo dalla vasca e mi rimetteva subito a letto per non farmi ghiacciare… quanto amore c’era in quei momenti! A volte ci sono ritornata e ricordo che uno dei miei giochi preferiti era scendere le scale con il sedere, siccome c’era uno scalino con un piccolo difetto, anche ora il mio occhio lo va a cercare e lo trova subito.
La casa dove andai ad abitare era nuova, molto più confortevole con riscaldamento, una camera tutta mia, un bel salotto luminoso, ma per me era sconosciuta. Poi con gli anni ho fatto amicizia anche con lei e sono stata bene.
Venire via da quella casa è stata una scelta, perchè mi sposai e lì rimasero i miei genitori. Ci tornavo sempre volentieri, anche se non la sentivo più la mia casa. Poi negli ultimi anni quando i miei genitori erano molto anziani per me era diventata “la casa del grande dolore”, e quando arrivavo sarei scappata correndo.
Quando tornai nella mia casa, dopo essermi sposata, non solo la casa e i mobili erano nuovi ma tutto il menage era cambiato. Ero contenta, perchè l’avevamo arredata come più ci piaceva, ma dovevamo abituarci a questo nuovo stile di vita. Poi arrivò un fagottino con un fiocco rosa e ci riempì di gioia, ma le gioie nella vita non durano molto e così dopo qualche anno arrivò un grande dispiacere.
Questa casa vissuta con grande entusiasmo, amore, novità, all’inizio è stata la casa della nostra felicità. Facevamo progetti per il futuro, sognavamo cose semplici ma per noi belle, ma purtroppo non a tutti i sogni si avverano.
Spero di poter avere qualche altro anno da vivere tranquilla nella mia casa, che per me è il mio castello.
Un ricordo essenziale – di Rossella Gallori
La mamma di Rossella, e poi lei, hanno sempre conservato questo cimelio. La mamma lo ha sempre portato con sé nel portafoglio.
Qualcosa da non dimenticare mai !

Con la coda dell’occhio – di Stefania Bonanni
Con la coda dell’occhio trascino un pensiero improvviso.
I bagliori che non sanno più diventare sogni restano ricordi confusi, singulti, sospiri, che non sanno parole per diventare frasi. Non trame, né disegni, né intrecci. Solo rimane per sempre il foro dell’ago che ha tentato di unire la pelle strappata. Non ha fatto un disegno, né un ricamo ruffiano che ricopre lo spacco solo perché non si veda da fuori, non si veda la carne. Ha infilato quell’ago con il filo rosso che ha rincorso di notte, quando è apparso reale, sola strada tra il cielo e la terra. L’ha cercato, come per non avere più fame, a momenti ha creduto di stringerlo, ha pregato, poi ha aperto le mani, ed erano vuote, e l’hanno consegnata ad un’alba insonne, che non può diventare altro che un giorno ancora opaco, come d’ambra, trasparente di turbamenti e confusioni inattese ed inafferrabili.
Ed è difficile seguire il filo, che continua a bucare ed infilare, per tracciare profili di cose e persone che il sole diretto nasconde alla vista, ma possono essere rivelati da una nuvola improvvisa, nell’ombra.
Tessere come essere tessere. Ritagli, frammenti, pezzetti di vetro colorato, minuzzoli di mosaici, dettagli inosservati. Colla che non appiccica. Che forse un giorno un bagliore c’è stato, di un raggio che ha colpito proprio lì, forse quel magico momento ha avuto testimoni, o forse no, non era fatto per essere visto da fuori. Il suo solo senso era da dentro, perché fosse mancato, quel disegno avrebbe avuto un vuoto da null’altro riempibile.
La casa del cuore – di Vanna Bigazzi

Il mio cuore è rimasto nella casa dove sono nata, una casa costruita prima della guerra, sulla cui facciata, per alcuni anni, sono rimaste le tracce dei bombardamenti. Sono venuta via da quella casa, quando avevo circa otto-nove anni e per me fu un vero trauma. E’ la casa in cui ho vissuto con tutta la mia famiglia al completo, poi eventi, morti, hanno modificato questo Eden. Tante volte ci sono passata davanti ma non sono potuta entrare, neanche oltre il portone d’ingresso, perché sempre chiuso. Capitò solo una volta in cui vi stavano facendo lavori di ristrutturazione in uno degli appartamenti del palazzo, per cui trovai il portone aperto. Dopo una vita potei di nuovo calpestare quel luogo. Salii subito al primo piano e capii, con sorpresa, che l’appartamento in restauro era proprio quello che avevo abitato. Anche la porta dell’appartamento era quindi aperta. Sembrava un miracolo poterci rientrare… L’emozione mi assalì, guardai dall’esterno l’andito grande dove giocavo, nell’attesa di veder entrare dalla porta d’ingresso i miei genitori che tornavano dal lavoro. In un istante ho rivissuto tutte quelle attese, ansiose, che terminavano con la loro comparsa e gli abbracci. Rimasi paralizzata e non ce la feci ad entrare per ripercorrere quei luoghi amati, sempre desiderati, così rimasi immobile, quasi timorosa di quel magico passato.
Le case che parlano – di Cecilia Trinci
Il nome della strada era insolito “Via sotto la Fortezza” e infatti era una strada interna, senza sfondo, sotto la fortezza di Poggibonsi. Di là e di qua poche villette unifamiliari, i proprietari si fermavano a chiacchierare davanti ai cancelli, i bambini giocavano in strada. Da quella casa, di cui non ricordo il numero, dal retro del giardino che la circondava, si saliva a piedi lungo una fila di orti e si raggiungeva uno stradello sterrato che portava direttamente alla Fortezza medicea. Lungo il percorso, oasi di piante spontanee, arbusti e alberelli. Dopo pranzo la nostra giratina ci portava lassù, a raccogliere le ghiande per giocare e a nasconderci nei capannini naturali dentro certe siepi grassotte a basso fusto. Eravamo regine o cacciatori o animali fantastici, secondo le giornate. Quando con noi veniva anche il suo migliore amico, Fabio, allora io guardavo e basta e i protagonisti delle storie erano solo loro due, che camminavano avanti, per mano, a piccoli passi. Il mondo che ci portava alla Fortezza era tutta fantasia. Ho lasciato lì le finte principesse e anche il corpo di un gatto anziano seppellito sotto un leccio. Aveva vissuto libero con noi gli ultimi suoi anni, dopo che lo avevo ereditato da mia nonna. Appena ci vedeva seduti, ci correva incontro a ciucciarci con vera passione il lobo degli orecchi. Era grato, libero e felice. E’ la casa che sogno spesso, quando sogno case. Si infila nel sonno con qualche particolare secondario, le grandi finestre sul giardino, le porte a vetri, il lungo corridoio, il salotto largo con il divano di pelle e le librerie immense, si ricompone intera dopo, da sveglia, quando cerco di ricordarla. Ho lasciato i mobili, quasi tutti. Ho lasciato anni faticosi, importanti. Ci ho lasciato l’asilo e le prime tre classi elementari di mia figlia e molti dei suoi giocattoli belli. Ci ho lasciato un divorzio.
La precedente, la prima da “grande”, era una casa moderna, piccola e simpatica, con stanze striminzite e nuove, di fronte ad un passaggio a livello sulla Pisa-Firenze che batteva 28 sbatacchiate di campanello quando abbassava le sbarre e che ci faceva addormentare a orario fisso, nell’intervallo tra le 22,10 e le 23,07. Ci ho lasciato la libertà, la piacevolezza della pianura, con certe passeggiate in bicicletta da sola in cui ho scoperto il rumore dei ruscelli e il profumo della prima erba. Ci ho lasciato la meraviglia del rimanere incinta, le parole incrociate con il mio exmarito nell’intervallo del pranzo, una gatta siamese che non ci ha voluto. Ci ho lasciato anche una orribile testimonianza, un piccolo corpo sconosciuto distrutto dal treno mentre attraversava in bicicletta, il brivido mai dimenticato delle urla di chi lo ha riconosciuto.
Ce ne sono state tante altre, in campagna, in città, in paesi di provincia dove la comunità è più presente e curiosa. Le marmellate, le conserve, la raccolta delle castagne in campagna, i tramonti e i silenzi e certe rincorse di monti al mattino, in lontananza. La fretta, gli impegni, gli incontri, le scale e gli ascensori, i vicini buoni e cattivi…ogni casa un periodo, un carattere, un modo di vivere globale e sempre un gatto con noi, giovane o vecchio, maschio o femmina, trovato o ereditato.
Ma l’unica che mi dà vibrazioni ancora vive quando la rivedo da fuori, è la casa di Via Aretina, dove ho soggiornato più che abitato, ma è che è stata la casa della rinascita, dell’unico giardino goduto, un tavolo e due sedie al tramonto riparati dal glicine, in una città inavvertita, al di là dei muri. La casa in cui tornare a sognare. L’unica che ho maneggiato, percepito e perfino modificato….una casa in cui si sarebbe potuto giocare. Dove poi ha abitato mia figlia, crescendo con una piccola gatta raccolta da un cassonetto.
Oggi ci sono fiori stranieri alla finestra.

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TRE CASE – di Anna Meli
foto di Anna Meli

Sono passata da quella casa in cui sono nata poco tempo fa. Le persiane verdi della finestra di camera erano chiuse. Mi sono rivista fra le braccia di mia madre mentre mi accudiva e coccolava.
Le persiane accostate come in preghiera facevano entrare una luce chiara e troppo forte per i miei occhi di pulcino nato da pochi mesi: quella sensazione è rimasta dentro me, forse era il momento in cui incominciavo a mettere radici là.
Ho vissuto fino a circa sette anni in quella casa, poi essendo troppo piccola per cinque persone, ci siamo trasferiti in una un po’ più grande. Ho lasciato nella prima casa l’immagine degli anni più belli e spensierati insieme a cose che, per ovvi motivi, non potevamo portare nella nuova.
Ricordo in particolare una stufa rossa, alta (la chiamavamo la stufa con le gambe lunghe), là sotto nelle fredde sere d’inverno, quando ardeva di un fuoco scoppiettante, vi si rifugiava ronfando il gatto Nanni.
La vecchia casa si trovava al piano terreno a poca distanza dalla prima situata al secondo piano e questo mi creava un certo disagio. Uscire non era per niente comodo: dovevo scendere le scale, attraversare la strada per potermi ritrovare con i miei amici a giocare e soprattutto dovevo chiedere il permesso alla mamma.
Ho impiegato del tempo per abituarmi alla nuova casa e l’ho apprezzata in particolare per la vista di quel panorama sulla città di Firenze nelle sere in cui al tramonto il sole tingeva il cielo di rosso. A volte certe immagini ci consolano di altre perdute.
La terza casa che poi è quella in cui abito la fece costruire mio padre negli anni sessanta. E’ quella nella quale ho passato la maggior parte della mia vita. Cinque stanze grandi, un piccolo giardino, una veranda e…lo scorrere degli eventi. Dopo circa un anno, mio padre abbastanza giovane, è venuto improvvisamente a mancare lasciandoci sbigottiti in un dolore che sembrava non finire mai; ma la vita continua ed ha il sopravvento su tutto.
Questa casa mi ha visto giovane donna sposata, ha visto crescere i miei figli in una famiglia serena e poi sola nuovamente sconfitta da un destino avverso. Unica gioia: i miei nipoti che spessissimo sono con me e mi contagiano con i loro sorrisi, la loro voglia di vivere, i loro scherzi. Mi adorano e ciò mi fa bene. Amo quest’ultima casa più delle altre perché la considero lo scrigno che contiene le mie gioie, le mie lotte, le mie lacrime, i miei dubbi e me le fa sentire parte di me.
La casa dell’oggi – di Carla Faggi

Io non ho mai lasciato nessuna casa.
Ho portato via le mie cose dalla casa dei miei genitori per andare a vivere da sola, non lasciando ma iniziando un’avventura nuova. Non avevo rimpianti o nostalgia perché comunque ci andavo sempre e con più soddisfazione di prima, perché sceglievo di andarci e lo sceglievo spessissimo.
Volevo bene a quella casa, non l’ho lasciata mai, è sempre stata lì ad aspettarmi e ancora mi aspetta.
La mia casa da sola l’ho vissuta da single, poi con il mio primo marito, poi di nuovo da single. È stata la casa della trasgressione, della giovinezza, della libertà.
Poi decisi di ristrutturarla e mi sarei dovuta trasferire da qualche parte per un periodo. Fu allora che conobbi Marco e andai a vivere da lui.
Non decisi, non lasciai ma semplicemente andai, senza sapere per quanto.
Lui chiuse il cancello ed io sono ancora qui nella nostra casa da quasi trent’anni.
Questa è la casa dell’oggi, della famiglia mia, di io e lui.
Però nei sogni , quelli veri della notte, sono quasi sempre nella casa dei miei genitori, a volte nella mia casa da single. Magari con Marco o con persone dell’oggi ma quasi sempre nelle mie case di ieri.
I sogni non hanno tempo e permettono di vivere ieri con oggi, fanno vivere la Carla dell’oggi con le sue cose di ieri.
Mi chiedo spesso perché e chissà; a volte mi rispondo che non si smette mai di vivere nei posti dove siamo stati bene, che sia vita o sia sogno.
Le case del cuore – di Lucia Bettoni
foto di Lucia Bettoni

La casa dell’acqua
Sola in mezzo alla natura la mia casa si specchiava in un lago
La casa della sofferenza
della conoscenza, del gioco,
dell’amore mancato, della natura madre
La casa dove tutto è iniziato
La casa della mia anima
In quella casa ho lasciato una bambina
La casa del sole
Lì potevo saltare dalla finestra
e stendermi al sole sul tetto
La casa dove ho toccato il cielo
dove tutto era possibile
La casa della semplicità
Avevo lasciato tutto
Eravamo io e la vita e niente più
La casa dove ero leggera leggera
La bellezza di vivere con l’unica cosa importante: l’amore
Lì ho lasciato una ragazza
La casa della terra
Scelta, comprata, arredata, voluta
La casa dove costruire la vita
dove far crescere un figlio
dove aprire le finestre
e non vedere la fine dell’orizzonte
Un grandissimo giardino
dove le mie braccia
le mie gambe e i miei occhi
hanno trascorso ore verdi
ore fiorite, ore di speranza
Lì ho lasciato una donna
La casa di mio padre
Sono qui da due anni
Ogni giorno vi porto un pezzetto
della mia vita
Sto raccogliendo in questa casa
tutto ciò che è importante
Sto portando qui la bambina
la ragazza e la donna
perché tenendosi per mano
possano proseguire il cammino
Traslochi e rinascite – di Nadia Peruzzi

Ho cambiato almeno 6 case nell’arco della mia vita. In nessuno dei traslochi a pensarci adesso, mai ho sentito prevalere il lato traumatico. Il lasciare il certo e il sicuro, il consolidato per l’incerto lo provo ad ogni viaggio che faccio, ma non l’ho provato nei cambi di abitazione. Ha prevalso sempre l’aspetto positivo che porta l’idea del cambiamento. Forse perché la maggior parte di questi traslochi sono avvenuti ad Antella e hanno segnato un miglioramento reale della condizione di vita rispetto alla casa che veniva lasciata.
Ogni casa un frammento di ricordo, più o meno consapevole.
La casa di Roma l’ho vissuta nei ricordi degli altri. Ero troppo piccola per poter ricordare qualcosa visto che ci ho abitato solo fino ai miei due anni e mezzo.
Nei racconti di nonna e dei miei genitori ho scoperto di esser riuscita a lanciare dal quinto piano uno spazzolone, mentre di ritorno da una gita fuori porta sembra abbia chiesto qualcosa da cucire mettendomi in mezzo al corridoio. Venendo a Firenze con mia nonna, ho lasciato i miei genitori li ancora per qualche tempo, visto che hanno continuato a lavorare a Roma. Mia mamma si fermava a Firenze quando era diretta vero nord per riunioni o campagne elettorali.
Se la direzione era il sud la situazione si faceva complicata .
Assenze che hanno pesato.
Delle case successive ho ricordi miei.
La prima dopo Roma, piccola. Era quella del letto condiviso con la nonna. Ricordo le sere che passavamo a sentire la radio insieme. I festival di Sanremo di allora seguiti tutti. E’ quella in cui ho fatto i conti con i primi eventi della storia contemporanea. La guerra di Algeria entrava direttamente in cucina col suo significato di rottura di equilibri e di liberazione dei popoli dal giogo coloniale.
Era anche la casa dove all’inizio l’acqua la prendevi con la mezzina alla fonte pubblica, il latte lo si prendeva scendendo le scale con un tegamino da chi lo vendeva e il bagno era sulle scale, era in comune e l’odore ne indicava la presenza anche a porta chiusa e a metri di distanza.
Poi è arrivata la casa con il grande giardino e il suo albicocco che fece i frutti una sola volta. Quella del riscaldamento con la stufa a carbone e con la prima TV. La casa delle letture paurose . E A Poe con i suoi Racconti straordinari e il Dracula di Bram Stoker li conobbi stando bene attenta a tenere le spalle contro il suo muro.
Poi quella che ha visto la conquista dei miei spazi. Quella con due bagni, una camera tutta mia, con una mia scrivania su cui studiare . La casa in cui la truppa di amici mi riportava a notte fonda. La notte di Profondo rosso chiesi che non si muovessero prima di avermi visto entrare in casa.
E ora la casa grande e luminosa nella quale mi trovo . Quella che ha ospitato fino a cinque persone e ora vede solo me ad occuparla.
E’ la casa in cui ho vissuto con mio marito e quella che ha visto Irene appena nata e l’ha vista crescere.
E’ la casa definitiva, quella di fine corsa. Quella in cui si sono cominciate a mettere insieme le assenze dolorose e destabilizzanti.
Meno male che quasi ogni giorno sono le risate dei bambini a riempire in qualche modo vuoti e assenze!.
Via Cesare Guasti 10 – di Rossella Gallori

Casa è stata solo quella, è rimasta quella, quella da dove non sono passata più, quella che devo ricordare in continuazione per non dimenticarla…
C’erano alberi…c’erano rumori forti…sirene, treni…ed una via di fuga: sempre.
C’era tutto: amore, vita, morte, pane, caffè, pianti e risate, un piano sotto, uno sopra…ululanti rosari, che sembravan bestemmie, una voce stupenda che apriva il cuore, cassapanche che non sigillate, porte aperte, porte da abbattere…ricordo i tappeti, ricordo una veranda liberty piena di nulla e di disordine, c’erano stanze per tutti, con tutto…c’era un pavimento bianco e nero e bambini mai nati o nati per poco, che mia madre diceva sarebbero stati i più belli, i più intelligenti, che correvano per i lunghi corridoi anche da morti, con vestitini fuori moda, anni quaranta, gli volevo “far gambetta” ma non ne avevo il coraggio.
Mi nascondevo tra il portaombrelli a tre teste, pieno di bastoni, con e senza pomello, stavo lì, infilata dietro una poltrona Savonarola, su cui non ci si poteva sedere, ho scoperto tardi, che non era preziosa, ma rotta…rotta come ne sono uscita io a undici anni, rotta dentro, senza poter portar dietro nulla, se non un San Giorgio pesante come Cristo con croce e chiodi…ed un seggiolone impagliato e tarlato.
Dal ‘51 al ‘62 è stata “casa” via Cesare Guasti numero 10, sei stanze su, quattro giù, a livello di quel giardino pieno di peonie…poi è stato: giù, sempre più giù…ma sono sempre stata li, sono ancora lì…non entro più in strani cantucci…ma riesco ad aprire le vecchie cassapanche ……