Alberi: cipresso

La cipressa col fiocco – di Tina Conti

L’edificio era bello, grande, progettato da un giovane e illuminato architetto

Nel realizzarlo con lavori in economia  erano stati semplificati alcuni dettagli, ma risultava gradevole e con scelte  pensate e adeguate. Per me era un vero eden, un grande giardino, alberi da frutto e un contesto alla mia misura. Tutti contribuivano alla buona funzionalità, costruendo arredi, sistemando le  piante, collaborando  per il benessere delle  persone  che vivevano in quei locali. Io  che non avrei mai trovato una situazione uguale, dicevo che mai me ne sarei andata.

E invece dopo ventidue anni, ho accettato il richiamo di una nuova situazione.

Non ero più tornata nella mia scuola del cuore. Poi, il numero cinque dei miei nipoti non ha trovato posto  nei locali accanto  al nido che aveva frequentato ed è stato accolto  proprio lì.

Ero emozionata quando sono entrata per riprenderlo:  uno dei primi giorni guardavo  in giro per ritrovare quei richiami che mi avrebbero riacceso ricordi, emozioni, pensieri.

Due colleghe mi sono venute  con affetto vicino, mascherate anche loro, ma con dei fiori di papavero sulla visiera, per sembrare  più leggere.

Del mio gruppo storico  non c’è più nessuno, ma quello che ho potuto osservare all’esterno mi ha riportato a bei giorni, intensi e pieni di cose fatte, pensate, sognate.

Abbiamo fatto una scuola viva e appassionata, sempre curiosa e disposta a ricercare, conoscere, imparare.

E cosa c’entra con la cipressa? E pensare che non la vedevo nel giardino anche se con gli occhi l’avevo cercata. Per forza!, ora era enorme.

Era arrivata  dal bosco  di Villamagna  una mattina vicino a Natale, regalo di una mamma che diradando una parte del suo terreno ,l’aveva invasata  per essere addobbata per le feste e poi piantata, nel giardino nella  parte più spoglia, vicino all’edificio.

Quanta gioia ha dato quel regalo, è cresciuta in fretta, forte e vigorosa, con rami robusti che toccavano terra, folti che dentro ci si nascondeva e mimetizzava perfettamente.

Ma , non tutti erano disposti a correre rischi, perché permettere ai bambini di salire su quell’albero?

I bambini correvano veloci per prendere le postazioni migliori, rimanevano rintanati tutto il tempo che potevano. Inventavano migliaia di giochi, progettavano avventure per i giorni a venire, raccontavano, cantavano, pensavano.

Era un posto magico, fantastico, unico, che però  poteva essere capito se si erano provate e cercate quelle emozioni.

Per farla breve, si decise di mettere un limite all’altezza che i bambini avrebbero potuto raggiungere  ponendo un segnale vistoso e chiaro: un fiocco rosso sul ramo, stop ,cosi tutti gli adulti si sarebbero tranquillizzati.

Non ricordo che ci sia stato un bambino che si sia fatto del male giocando su quell’albero. Ora, i rami bassi sono stati tagliati, l’albero è imponente ma, io quasi non mi ero accorta che c’era sempre. All’altezza dei bambini c’è un forte tronco che invita a guardare all’insù 

Non è più  l’amico dei giochi, è un vecchio signore, severo e profumato che ospita colonie di passerotti e pettirossi che si rincorrono  allegri.

Una pagina dal passato

L’11 maggio 2017 avevo pubblicato questa pagina. Qualcuno la ricorda?

Le mani della madre

Stefania Bonanni

Furono recise di colpo quelle radici. Quei rami rampicanti che dalle mani di mia madre, invisibili, salivano e stringevano, tenendo insieme quello che forse insieme non ci sarebbe stato. Erano rami di una pianta semplice. Poteva essere edera. Non era stata piantata ad abbellire un giardino. C’era e basta. E, forse di notte, cresceva non coltivata. E i rami si allungavano, si infilavano nelle fessure, salivano su per i muri di mattoni, ricoprivano il tronco di alberi altrimenti secchi, che si coprivano di foglie di altri.

L’edera è capace di miracoli. E’ tenace, sembra morire, perde le foglie, poi si scopre vivace, di nuovo ricca di vigore. E ha anche insospettabili radici, che non si sa mai fino sotto a cosa arrivino, dove hanno origine o forse fine. Si rischia sempre, cercando di togliere l’edera, di demolire qualche muretto o di fare una buca nell’asfalto. Nascono così, in silenzio, invisibili e sconosciute.  Come ragnatele, come succedeva a Spider Man, dalle mani di mia madre uscivano fili invisibili che intrappolavano, senza scampo.

Non è vero che si sono recisi. Sono rispuntati a grappoli fitti, sono usciti dalle braccia, dalla gambe, dalla schiena, dalla pancia, dalla penna, dalla testa. Sono ricoperta d’edera, di micelio, di insetti che lasciano polline, di bocci di fiori che forse sbocceranno. I semi sono stati gettati dalle mani di mia madre.

Valentina Tognelli

Sono quelle che adesso ti coccolano dalla mia pancia, che ti cullano e ti accarezzano, quelle mani da cui spero ti arrivi amore e pace, che accolgono e amano.

Sento le mani calde e pulite della mia nonna, mentre mi accarezzano il viso e con lo sguardo mi parlava, mi diceva che andava bene così, che questa è la vita. Quelle mani che furono il suo saluto, il suo addio per me e queste mani che ti danno il benvenuto oggi. Benvenuta, amore mio.

Rossella Gallori

Non sapeva granché di quella religione, lei, e   confondeva benedizioni, credenze, un prima e un dopo del quale le importava poco….Ne aveva due di religioni, in realtà: una di sangue e una imposta e mal proposta, con un risultato sbilenco, a volte quasi blasfemo.

Lo diceva spesso a sua figlia: “fammi chiudere il cerchio, fammi finire dove ho iniziato” E fu proprio così, alla fine  la portò lì, sua figlia, alla Casa di Riposo della Sinagoga e furono dodici mesi interminabili, pesanti, fatti di sabati immobili e di domeniche senza messa.

Tutto poi accadde all’improvviso, previsto e tagliente un giovedì di ottobre, piovoso allagante, la videro fuggire via dal negozio,  correre con il grembiule verde, senza ombrello, il volto bagnato dalla pioggia. ….Quando il rabbino le disse che sì, stava meglio, ma che non avrebbe potuto  ancora vederla, quella figlia  capì subito, per quello strano intuito che si chiama amore….

“Avete trovato il suo lenzuolo?” chiese soltanto

“Sì certamente” fu risposto.

Era già stata “incartata”, quando la vide profumata e chiusa, posta su un fianco, nuda dentro.

Le balenò un’idea, sua madre voleva morire con la fede al dito, contravvenendo alle regole.

Chiese di rimanere un attimo sola con lei. Aprì il tragico vestito. Trovò le mani di sua madre, bianche, morbide,  giovani, ci nascose gli anelli e le baciò. Chiuse il drappo e la salutò. E fu per sempre.

Roberto Zatini

Aveva le mani ruvide mia mamma. Farsi lavare il collo e le orecchie da lei era un’impresa che ti iniziava alla vita: quando l’avevi superata eri pronto per andare oltre ogni ostacolo.

Dovevi resistere al bruciore del sapone negli occhi e quello negli orecchi dopo che erano stati frugati in ogni recesso accessibile dal suo indice impietoso, con il quale, pensavo, avrebbe potuto arrivare al cervello, nel tentativo estremo di farci radicare certe sue regole inamovibili.

Aveva le mani operose la mia mamma, che non si fermavano mai, specialmente quando riusciva ad afferrarmi: “Io ti ho fatto, io ti sfò” questo era l’inizio dell’intervento di rieducazione: poi la sinistra bloccava il collo, la destra strofinava quello che rimaneva scoperto.

Una volta che avevo cavalcato a pelo un verro leccese del nonno, mi aveva fatto un trattamento speciale, con ammollo nel ranno caldo di cenere e successiva strigliatura con un bruschino di saggina.

Le mani della mia mamma non le posso dimenticare.

Aldo Bombaci

Mani morbide, sicure, rassicuranti, accoglienti, queste sono le mani delle madri. Le mani di mia madre avevano quelle caratteristiche pur essendo piccole, era sua esile figura a proporle. Furono mani maestre nel guidarmi, nei primi passi, e nello scrivere numeri, parole, il primo pensierino della letterina per il babbo da mettere sotto il piatto come sorpresa.

Mani educatrici, mani che ti imboccano, mani che ti danno la vita, mani senza più vita, gelide, appoggiate sul grembo una sopra l’altra. Mani nella memoria.

Carla Faggi

Sapeva fare tutto mia madre. Aveva mani magiche e una volontà di ferro. Non esisteva una cosa che non sapesse fare  perché comunque avrebbe provato a farlo e ci sarebbe riuscita.

Cuciva abiti per sé, per me e mi ha insegnato a farlo. Lavorava a uncinetto. Ha fatto dei capolavori che ancora ho: tende, coperte, tovaglie. Nella mia camera tengo appesi due quadri fatti da lei a tombolo.  Sono bellissimi.

Sapeva fare tutto, ma faceva anche tutto.

Imbiancava le pareti. Tutte bianche. Ovviamente poi diventavano coloratissime perché ci appendevamo tutte le sue opere.

C’era da cambiare una serratura ad una porta? Ci provava e quasi sempre ci riusciva.

Diceva sempre: Se lo fanno gli altri posso farlo pure io, o almeno ci posso provare!”

La ringrazio di essere stata mia madre.

Elisabetta Brunelleschi

Uscita dalla vaschetta dove volentieri  sguazzava durante il bagnetto tu la prendevi e l’avvolgevi nel grande telo bianco. Poi di corsa, stringendola forte per non farle prendere freddo, la portavi in camera, la mettevi sul letto e iniziavi ad asciugarla e vestirla. Tutte le mani erano lì in quell’avvolgere un corpo tenero dentro un telo caldo e morbido. Durava tutto pochi attimi, ma erano infiniti. Poi tornavano gli abiti a coprire le fresche membra di una bambina piccola. E le mani andavano…..

A giugno era già molto caldo. L’unica stanza fresca era la camera da letto dei genitori. Un’ampia stanza in penombra con un grande specchio rettangolare appeso alla parete. Lì c’erano le vestizioni, le prove degli abiti nuovi, i riposi e i sonnellini. Quel giorno, sudata per i giochi nel cortile, ti chiamarono per provare il vestito nuovo. Ma eri già insofferente all’idea. Quindi, quando dovesti stare ferma così sudata e appiccicosa, con quel cencio che ancora non capivi cosa fosse, iniziasti a muoverti. Ed ecco che due mani dure e possenti ti misero ferma. Ti tenevano le braccia, ti obbligavano le spalle. Perché si doveva prendere le misure esatte, gli orli dovevano essere precisi. Ma quel vestito pungeva e le mani te lo tenevano stretto e vicino. Mentre il sudore colava due mani ruvide e troppo grandi e cattive ti stringevano e ti sentivi come in una morsa.

Germana Fantini

Negli ultimi tempi le mani di mia madre erano diventate scarne e pallide come il suo volto. Mani ferme, silenziose, mani che hanno lavorato tanto e che hanno amato tanto Ricordo molto bene le mani di mia madre, il colore, la morbidezza…..per anni le ho accarezzate e incremate sperando che il mio amore per lei, attraverso le mani, potesse comunicarle che non era sola, in quella sua malattia che fa esplodere la solitudine.

Simone Bellini

Trovami quando mi perdo, stringimi per darmi forza, accarezzami per tranquillizzarmi, schiaffeggiami se mi nego, afferrami se cado, se tremo riscaldami con le tue mani e se si stancheranno le stringerò per darti forza, le accarezzerò per ringraziarti, le afferrerò per non perderti, le scalderò nel freddo dei tuoi ultimi giorni.

 Mimma Caravaggi

Le ricordo piccole, un po’ tozze, rugose, con le unghie non curate, ma che sapevano fare di tutto, soprattutto scrivere, ma anche accarezzare dolcemente dopo una piccola ferita o un “cascatone”. Le usava per dipingere, suonare vari strumenti, dal banjo al piano alla fisarmonica e l’armonica. Penso che le mani di mamma possano fare miracoli durante tutta la strada che si fa insieme. Lunga, se sei fortunata! E’ un appoggio sincero, confortante e le mani possono trasmettere amore o anche rabbia. Possono essere belle, brutte, grandi, piccole, callose, lisce …ma per tutti sono un rifugio costante nell’arco di una vita.

M.Grazia Innocenti

Mani piccole e laboriose, mani che sapevano ricamare  piccoli camicini di seta per i neonati. Non ho ricordi particolari delle sue mani sul mio corpo se non le carezze che mi dava prima di andare  a letto dandomi la buonanotte.

Mi ricordo invece le mani di mio padre che, la domenica mattina, mentre mamma preparava il sugo e il pranzo, mi faceva il bagno.  Mi metteva in una tinozza ricolma d’acqua calda e io, in piedi venivo lavata con delicatezza da capo a piedi. Aveva mani lunghe e sottili che trasmettevano amore e cura. Poi, delicatamente, mi stropicciava con un asciugamano di spugna, morbido che sembrava di velluto. Quello era stato lavato e stirato dalle mani di mia mamma.

Miriam Pavi

Non erano belle le mani della madre. Per quanto fosse giovane aveva già un po’ di artrosi e le dita avevano dei piccoli nodi alle articolazioni. Anche la forma non era un granché: mani piccole, un po’ tozze, con la pelle già macchiata. Ricordo bene con gli occhi, ma ricordo meglio col cuore e con la pancia. Le mani consapevoli della loro non perfezione, usavano cautela nella carezza, oppure, altre volte, diventavano grandissime, se dovevano proteggere o trattenere. C’era poi il momento in cui diventavano stranamente agili, quando si trattava di creare un golf o un vestitino. Pochi soldi, tanto impegno e tanto amore.

Sandra Conticini

Quante cose hanno  fatto le tue mani Proprio in questo periodo me ne sto rendendo conto. Vado lì, a casa tua e trovo tutti i tuoi sottabiti di seta fatti da te, punto dopo punto. I cappelli, le vestaglie che sembrano cappotti, le camicie da notte che sembrano vestiti delle feste. Tutto fatto da te con ago e filo. Oggi ci si sogniamo queste cose, nonostante macchine da cucire ultra moderne. Mi ricordo le tue mani quando mi accarezzavano e avrei saputo riconoscerle tra mille, anche al buio, perché sentivo il calore dell’amore. Erano mani semplici, se sapevano di lavoro, spesso anche sciupate, con l’unghia del dito pollice della mano destra sempre un po’ rotta. Queste mani hanno lavorato per tanto tempo e quando non ce l’hanno fatta più è stata la fine. Ma non mi piace pensare alle tue mani degli ultimi mesi, non le riconoscevo e vederle chiuse e rattrappite mi dava un dolore così forte che non riuscivo neppure a parlarne.

Nadia Peruzzi

Mani rugose, mani fragili, mani tremolanti che si portano dietro tutta una vita.

Mani che hanno accarezzato e accudito, accompagnato, protetto. Mani che, talvolta, hanno tirato qualche scappellotto. Mani un tempo sicure e forti, generose e volitive, come il carattere che ti ha contraddistinto. Mani che a volte hanno espresso distanze e espresso severità accompagnando lo sguardo e l’espressione.

Adesso a stringerle, trasmettono il tempo che se ne sta andando, più di quello che anticipa e racconta di promesse e orizzonti futuri. Mani vissute e profumate di presente che sa di vita che scorre e che non cede  il passo, anche se la stanchezza sempre più spesso prende il sopravvento.

Tina Conti

Mani indaffarate, capaci, sempre attive.

Di misura media, belle, ma con i segni dei “mestieri”, unghie corte, screpolate in inverno, colorate dal contatto con i frutti e gli ortaggi in estate. Mani che ti sorreggevano, aiutavano, ma non abituate alle smancerie e alle carezze. Solo con i nipoti le vedevo piene di dolcezza. Negli ultimi giorni della sua breve ma feroce malattia,  ho visto mio fratello Walter, che le ha dedicato tanto del suo tempo e amore, mentre le accarezzava le mani  dicendo che erano state tanto importanti e attive e ora erano diventate belle, abbronzate e lisce.  Le carezzava piano, guardandola negli occhi e consolandola.

Vedere un uomo così capace di esprimere vicinanza e amore alla propria madre mi colpì allora e mi fa capire oggi quanto forte è il senso di appartenenza alla famiglia, un sentimento che rimane profondamente vivo tra noi fratelli.

La via d’uscita

Labirinto – di Vanna Bigazzi

Ogni Labirinto ha la via d’uscita ma non sempre si riesce a trovarla.

Nel Labirinto i sentieri si biforcano continuamente dando la possibilità di infinite scelte. Ogni scelta, a sua volta, implica ulteriori ramificazioni. Ogni Labirinto reale richiama necessariamente un Labirinto simbolico di innumerevoli possibilità, di situazioni composte. Tuttavia il Labirinto, nella sua ripetitività, non appare come realtà dinamica ma come realtà congelata, quindi possibilità di scelta all’interno di una fissità: prerogative della dinamica del pensiero nei limiti di una personalità isolata (“Cent’anni di solitudine”). Questo è un dramma dell’uomo moderno. Nel Labirinto possono verificarsi intrecci pirotecnici di storie delimitate da uno spazio circoscritto dove il perseguimento di un progetto trova blocchi ed ostacoli e resta intrappolato in un circuito inesorabile, tutto ciò potrebbe rappresentare la simbologia dell’uomo di oggi che rimane prigioniero della sua medesima dinamicità. La letteratura postmoderna che fa suoi i concetti di circolarità attorno ad un medesimo nucleo pur con la commistione di stili e linguaggi, percorre una traccia orizzontale ed in questa si esaurisce, ignorando la verticalità del pensiero e descrivendo l’uomo di oggi limitato nelle sue infinite possibilità.

Resistere

Il cactus immortale – di Anna Meli

“Nonna, nonna è sceso il vaso di una piantina grassa!…vieni vieni!”

“Ma come sceso?” 

“Vieni, vieni veloce!”

            Mi precipito per vedere cosa è successo e mi rendo conto che il vaso “ sceso” è caduto disotto al muretto spinto da un piedino irrequieto.

“Mai fermo eh!….che disastro!

            Mi chino per raccogliere il tutto, un po’ arrabbiata. Poi alzando gli occhi incontro i suoi, grandi scuri, lucidi, dispiaciuti e lì mi sciolgo.

      “ Pazienza dai, non piangere. La piantina non si è rovinata, vuol dire che mi aiuterai a rimetterla

         in un nuovo vasetto”

      “ Siiii! Così ci divertiamo, nonna guarda siamo fortunati, non punge nemmeno e sarà facile!”

            Così, ci procuriamo il necessario e procediamo al rinvasamento, ma nel fare questa operazione ci accorgiamo che alla base della pianta rotonda come un piccolo mondo, ce n’è un’altra piccola, piccola, piccola, che ciondola quasi staccata.

“Nonna come si fa, dobbiamo salvare anche il piccolino!”

“ Certo tesoro, se cerchi nello stanzino ci deve essere un vasino che sembra fatto apposta!”

“ Trovato!”

            Insieme abbiamo affondato le mani nel sacco del terriccio e abbiamo piantato i due cactus sporcandoci ed è stato bello vedere quelle manine grassocce spingere con impegno e assicurarsi che tutto fosse fatto come si doveva.

“Nonna, il cactus piccolo me lo dai a me vero?”

“Sì, sì  ma dovrai averne cura e crescerà con te.”

            E così è stato, anche se ci sono state varie interruzioni. Infatti, un merlo dispettoso andava a cercare lombrichi nel suo terriccio e, becca qua becca là, riusciva sempre a sbarbarlo. Era sempre lo stesso merlo che aveva una piuma bianca su di un’ala.

            Il piccolo povero cactus non ripiantato più volte non riusciva a decollare. Un giorno rientrando a casa, l’ho visto nella ghiaia del giardino con le esile radici allungate, sembrava una piccola medusa verde: a due passi di distanza la tartaruga osservava con aria sorniona pensando forse ad un bocconcino insolito. L’ho presa e rinfrescata, poi nel primo pomeriggio io e il mio nipotino l’abbiamo ripiantata per l’ennesima volta e lui a pensato bene di proteggerla mettendoci intorno dei legnetti a mo’ di steccato.

            Da quel momento le cose sono andate meglio. Il cactus è cresciuto, si è fatto rotondo e ciccioso, sembra un piccolo mondo diviso in paralleli su i quali spuntano meravigliosi fiori: stelle bianche che durano lo spazio di un giorno.

            Abbiamo da tempo tolto i legnetti. Il merlo dalla piuma bianca non l’abbiamo più visto. Ora il cactus cresce bene, senza paura  e insieme a lui anche il mio nipotino, vite di diversa natura bisognose di cure amorose per crescere e fortificarsi.

Frutta secca

Colori di Natale – di Cecilia Trinci

Per tutto il mese di  dicembre, negli ultimi anni e quasi per attirarci, la loro casa sembrava assomigliare alla casetta di Hansel e Gretel e si riempiva di soffi di vainiglia e zucchero a velo, con sottofondo di  mele, arance e canditi. La cucina  si apriva su cesti di limoni, ciambelloni che cuocevano in forno vaporizzando odor di burro fuso e cannella.  Su tavoli e tavolini del soggiorno sacchetti di biscottini profumati, mandarini di varie qualità, pandori e panettoni pronti ad essere tagliati e torroni morbidi e lunghi, ricoperti di cioccolato e cestini pieni di torroncini calabresi rivestiti di carta colorata argentata. Guardarli faceva Natale.

Ma la cosa che più di tutto in me accendeva la sensazione della festa era la frutta secca. Senza nocciole, mandorle, noci, prugne, albicocche e fichi secchi, ben vestite nei cestini con tanto di attrezzatura per schiacciare e romper gusci non poteva essere Natale.

Qualche addobbo c’era, ma credo di non ricordare quali fossero. Se c’erano lucine qua e là o se la luce soffusa era sempre la stessa, quella del suo grande acquario dove nuotavano pesciolini tropicali colorati che già da solo creava calore intorno.  Attirava lo sguardo con le piante che fluttuavano, con i riflessi sull’acqua che gorgogliava per pulirsi dalle impurità e che ricordava in lontananza il rumore del mare, come una conchiglia messa all’orecchio. Che delusione inaccettabile fu sapere, già da piccola, che quel rumore nella grande conchiglia non era l’oceano prigioniero.

Tutto quel ben di Dio saziava solo a vederlo e se con le parole si faceva notare l’esagerazione e l’abbondanza, dentro, in un punto nascosto  si provava il piacere della festa, la promessa che il giorno di Natale e i giorni seguenti avremmo avuto occasione e pretesto per ritrovarci, per mangiare, per giocare  a carte: un pokerino amichevole o un Mercante in fiera. Ridendo, ricordando e…. masticando il blu e l’arancio, il marrone e il giallo, il bianco e il cioccolato.

Forse il vero nostro “pranzo di Natale” era su quel tavolino verde da gioco, sbucciando mandarini, assaggiando un torroncino, masticando un candito, una prugna, sgusciando una noce, litigandosi bonariamente lo schiaccianoci che, chissà perché, è sempre unico e non ne esistono in serviti da sei, come le tazze, convinti che il suo ripetersi non sarebbe mai finito.

E se invece….

L’altro Natale….. – di Mimma Caravaggi

E’ un altro Natale questo, l’altra possibilità, quello che poteva essere oggi se i miei genitori non si fossero separati quando noi bambine eravamo piccole.

Un ambiente familiare con i due genitori e le tre sorelle – Tilla, Gianna e Mimma – i cui veri nomi sono Maria Antonietta, Giovanna, Emilia. Come per incanto vedo tutta la famiglia fare le cose più semplici e naturali e la guardo come fossi alla televisione come  l’ultima e agognata puntata di una telenovela di successo. Stiamo festeggiando il  Natale , ci siamo tutti, i due figli di Tilla e i loro due figli per cui nipoti e bisnipoti. Man mano che arrivano ci si abbraccia e ci si sorride con tanta gioia presentando tanti regali che mettiamo sotto l’albero in attesa di aprirli dopo il cenone. Chiacchieriamo e ci raccontiamo tutte le cose più importanti successe in due tre mesi di distanza dall’ultima volta che ci siamo riuniti poiché siamo un pò sparsi in più regioni. Babbo e mamma vivono a Roma, Tilla e la sua famiglia abitano a Pistoia, io a Firenze e Gianna, che lavora per l’UNICEF è appena rientrata dall’estero per le vacanze di Natale con Claude, non li vedevamo dal Natale scorso. Io mi sono data da fare per preparare il cenone e sono piuttosto stanca ma niente mi impedirà di godermi la festa e soprattutto i nipotini. Per loro ho preparato un albero di Natale sfavillante ma con le candele di cera come si usava una volta creando un’atmosfera deliziosa e sorprendendo i nipoti persino quelli grandi. Le palle sono di due soli colori rosse e oro con un po’ di ovatta bianca a sembrare fiocchetti di neve e ai piedi dell’albero un piccolo presepio su una base di vero muschio ma con pochi elementi per non ingombrare troppo, bisogna far posto ai regali. Faccio mettere tutti i pacchi da una parte senza invadere il presepio e l’angolo diventa una montagnola colorata di carte e fiocchi deliziosi il tutto seguito dai gioiosi strilli di Francesco e Caterina che non vedono l’ora di aprirli. Devono però aspettare il momento giusto e non è facile tenerli a bada. Dopo i convenevoli li metto a tavola è ora di iniziare con gli antipasti, non troppi perché bisogna mangiare anche il resto. C’è un misto di brodo squisito che servo con i tortellini e parmigiano,  una grossa teglia con un prosciutto intero fatto al forno a legna con tante patate intere a formare una crosticina dorata fuori ma morbdine dentro metto in tavola anche il lesso che mi è servito per il brodo ma che in pochi mangeranno anche se l’ho fatto accompagnare con una salsa verde sfiziosa. A seguire insalata di puntarelle con aglio e acciuga e infine dolci tipici come il panettone, il pandoro il torrone al cioccolato con nocciole e tanti mandarini e arance succose. ovviamente in tavola ci sono acqua e vino. Siamo tutti satolli e contenti di essere riuniti. E ora finalmente segue l’apertura dei regali con tanta felicità dei più piccoli ma che anche i grandi non disdegnano.  C’è un regalo più o meno soddisfacente per tutti ma la festa più bella è guardare i bambini che scartano i loro regali tra strilli di gioia carte nastri e dolciumi e tutta la casa è in festa. Questa è l’altra strada che avrei voluto vivere almeno una volta.

La prima rosa

La prima rosa non si scorda mai – di Luca Di Volo

Un ricordo lontanissimo nel tempo ma non nel profumo che ancora mi penetra e quasi m’inebria.

In quel momento né io né lei conoscevamo nulla di quel che accadeva

Immaginatevi un adolescente…dodici. . tredici anni. . ? Non lo so più. Comunque un adolescente in villeggiatura, a Viareggio e il Bagno in cui passava le vacanze si chiamava (per l’appunto. . ) Bagno Amore. . Sembra un gioco di parole ma è la verità. . chi non ci crede vada a Viareggio e lo troverà perché esiste ancora. .

Sotto l’ombrellone accanto al mio passava le vacanze una famiglia di Torino , portando con sé la figlia. . una ragazzina come me…stessa età. . o giù di lì…

Insolito per un introverso e timido come ero io all’epoca, fatto sta che, in qualche modo facemmo amicizia. E l’iniziativa partì da lei…Ricordo che la cosa mi riempì d’orgoglio. . anche se per me lei era nient’altro che un costumino rosso …e di lei non ricordo quasi nulla. . . solamente il dolce parlare e due occhioni neri . . Due occhioni profondi che ogni tanto sorprendevo a guardarmi pensierosi…Invece io, superficiale come tutti (o quasi) gli uomini continuavo a trastullarmi nei soliti giochi più o meno infantili.  E avrei dovuto capire da allora che le donne sarebbero state sempre molti passi avanti a noi.  Però. . ora che ci penso meglio. . mi vengono in mente un dolce sorriso, e un corpicino graziosissimo e armonioso . . capelli neri con una frangetta sbarazzina…E la tenera pronuncia torinese, così leziosa , ma che in lei era affascinante. . E poi era esuberante. . sempre allegra. . le campane suonavano sempre a festa. .

La faccio breve. .

Prendemmo l’abitudine di fare il bagno in mare sempre insieme…e lì, un po’ distante e libera dagli occhiuti genitori. . non si curava molto di nascondere che stare con me le procurava una gioia che io , naturalmente, non capivo per nulla. . ma che mi faceva stare meravigliosamente…solo questo oscuramente intuivo.

In questo paradiso stava sopraggiungendo  la fine delle vacanze. . quando il sole mostrava appena l’ombra dell’autunno imminente. . facemmo ancora una volta un tuffo insieme…

Però questa volta successe qualcosa. . successe che lei mi prese una mano tra le sue.

Si capovolse l’universo.

Quelle bambine che fino ad allora consideravo solo uomini mancati e troppo rompiscatole per farle partecipare ai nostri giochi…erano diventate una rosa …fiorita in un attimo . Delicato e struggente. . in quell’istante quella rosa era sbocciata e non sarebbe mai più appassita. . Ci tenemmo per mano tutto il pomeriggio …. e avrei giurato che lei era più felice di me. . ma mi ricordo solo dei suoi occhioni bagnati dal sole.

Seppi solo più tardi che quello era il famoso “amore” di cui parlavano i poeti e gli scrittori…. ma nell’energia che sprizzò da quell’attimo e che ancora mi perseguita…sono sicuro che lo riconoscemmo tutti e due. . con l’anima. .

Come sono sicuro che l’unione cementata in quel microscopico angolo di tempo, non si è mai interrotta . .

E ancora continua . . basta che ci pensi.

Il giorno dopo la mia dolce compagna partì per ritornare a casa…e forse proprio per questo aveva voluto che qualcosa di lei mi rimanesse…e così è stato. Ed ancora lo è.

Grintolin… il Finale

Conclusioni dell’Indagine – di Carla Faggi

Il commissario Grintolin, a testa bassa e con una pazienza che non era da lui, riunì tutti i suoi coccini e andò a fare i balocchi sul suo uscio. Livornese  di nascita e fiorentino di adozione ricordava sempre cosa gli diceva sua nonna quando si ritirava da solo a cercar di risolvere i suoi pasticci. Quindi con i suoi coccini, da solo nel suo ufficio e davanti al computer cercava di risolvere quel complicatissimo caso. La questione del ragno che la dottoressa psicologa Big Vann, aveva portato allo scoperto fu illuminante. Grintolin aveva capito tutto!

-Iiisspettore Scrupolosooo!urlò con determinazione- Voglio tutti convocati per questa sera alle 22 in punto presso il circolo “Il ragno d’oro”.

-Stasera? Alle 22? maa, maa, balbettò Scrupoloso, ma c’è la luna piena!

-Appunto! E quando dico tutti vuol dire tutti! Compreso la maga ed il Proff.

Ore 22, luna piena, presso il circolo Il Ragno d’Oro, c’erano tutti.

-Bene, bene, bene, signori, ormai tutto è chiaro, con l’aiuto della dottoressa abbiamo risolto il caso.

Lei, signor Furio detto il morboso sadico è il gestore del circolo Il Ragno d’Oro, moderno locale dove il suo amico Giovanni Il Depresso gestisce una start up Le Tre Palle e la Piramide, la quale offre ai fruitori la possibilità di vivere in mondi alternativi, altre vite, magia , tutto grazie ad un mondo virtuale a cui si partecipa attraverso il proprio avatar. Ma lei lo sa bene vero signor Danilo Il Narciso? il suo avatar è il Diavolo in persona, personaggio affascinante e al tempo stesso pericoloso. Tutti insieme avete fatto credere ad Ettore Il Sensibile che solo con la magia avrebbe potuto far innamorare Franca. E’ così che Ettore ha dovuto ricorrere alla Maga Tre Palle, la quale dopo lauto compenso gli dato la pozione magica e gli ha suggerito cosa avrebbe dovuto fare. Quindi Ettore ha invitato Franca nel suo appartamento, gli ha fatto bere la pozione magica, ma la Franca era allergica all’estratto di ragno che era presente nella bevanda ed è morta per  schock anafilattico.  Impaurito ha chiamato l’ avatar della Insofferente, la famosa Piramide Bianca e insieme avete scaraventato la povera Franca giù dal dirupo.

Credevate di averla fatta franca, avevate sottovalutato le celluline grigie del grande investigatore Grintolin e l’ intuito della superba dottoressa Vann.

Pooortateli via , sbatteteli in prigione!

-Ma chi devo arrestare, mi scusi? Balbettò l’ispettore Scrupoloso Antonio.

-Tutti! Escluso naturalmente noi, la Dottoressa ed il Proff. Gli altri sono tutti colpevoli, Ettore di assassinio, la Insofferente di occultamento di cadavere, la maga di istigazione a delinquere, il Diavolo di appropriamento illegale d’identità, e tutti gli altri di complicità. Poooortali via!

-Bene, bene, bene, allora siamo rimasti noi quattro, il caso è risolto, la Dottoressa Vann è stata preziosa, senza di lei non avremmo neppure iniziato le indagini. Il Professor Luc De Vol ci ha introdotti in un mondo che non conoscevamo ed ha ampliato le indagini permettendoci di scoprire altri colpevoli, bene, bene, bene, direi di festeggiare e di brindare..al prossimo caso! Sono invitati tutti gli esperti di tutte le materie che avranno voglia di proporre una nuova indagine.

Buon compleanno!

Buon compleanno, babbo – di Stefania Bonanni

Oggi il mio babbo ha novant’anni. Non avrebbe, o avrebbe avuto….. ha novant’anni, perché amare è avere qualcuno in un pezzo del tuo cuore, e da li’ né si esce, ne’ ci si cancella. Ha novant’anni, perché una parte di questi anni li ha attraversati con le sue gambe, tutti gli altri, con le mie. Perche’ c’è stato un tempo nel quale ho fatto capriole e ballato, appesa al suo petto. E gli ho sentito il battito, e l’ho mischiato al mio.

Gioia e il Gatto

LABIRINTO – di Sandra Conticini

Gioia pensava di essere finalmente arrivata al paese di Bellaluna. La sua amica Agnese passava  le vacanze lì e le aveva raccontato che c’erano tanti parchi giochi, lo zoo, il teatrino, le giostre, insomma quasi come il paese dei balocchi di Pinocchio.

Per lei, che  aveva sempre vissuto con una vecchia cattiva e brutta che la picchiava e, quando la faceva mangiare,  le dava solo ossi e zampe di pollo, decise di scappare e si mise in cammino per andare in questo paese favoloso. Quando arrivò non trovò niente di quello che le aveva raccontato la sua amica anzi, oltre a non esserci  giostre e  parchi non c’era nessun abitante, era tutto un via vai di scarafaggi, topi, piattole, pipistrelli, che uscivano dai buchi dei muri di quelle case vecchie, malandate e  diroccate.

Le prese la disperazione si mise a sedere su un gradino ed iniziò a piangere e singhiozzare e a chiedersi come mai nella vita non riuscisse mai a fare una scelta giusta ma, all’improvviso sentì come un fruscio e, vide l’unico essere  che camminava in quel paese: un gatto, con il quale strinse amicizia e le disse che il suo nome era Fuffino.

Le disse che  Bellaluna non era lontano da li, ma  aveva sbagliato  strada e, se voleva, l’avrebbe accompagnata.

Fuffino si mise sulle spalle di Gioia e mentre camminavano la bambina era pensierosa. Per la testa gli frullavano tanti pensieri e nessuno era positivo. Io con questo nome dovrei essere  contenta e spensierata, sicuramente era di buon augurio, invece sono sempre triste, perchè i miei genitori se sono andati lasciandomi a quella stregaccia.

La mia vita è un cammino tortuoso, prima di prendere qualsiasi decisione ci penso e ci ripenso perchè la felicità dipende dalla scelta che faccio e di conseguenza la vita prende forma di   giorno in giorno. Spesso ho pensato di essere entrata in un labirinto ed ho avuto l’angoscia di aver perso l’orientamento, ma con l’impegno ed il coraggio sono riuscita a venirne fuori, ma quanta fatica ho durato!

Finalmente il suo amico gattino le disse che stavano arrivando a Bellaluna e  l’avrebbe portata dalla sua padrona che sicuramente l’avrebbe accolta, le avrebbe dato da mangiare, l’avrebbe lavata, vestita e se voleva poteva rimanere  per sempre con loro.

La piccola Gioia sorridendo pensò fra sé e sé: – Questa volta ce la faccio ad uscire dal labirinto della mia vita.

Sta per finire…

2020 – di Rossella Gallori

Vado a letto con pesanti calze di lana

Mi abbraccia un maglione senza forma apparente.

Sciolgo il grasso sulla griglia rovente,

ci intingo il pane.

Come un vecchio orso egoista nascondo il miele,

ai miei compagni di tana.

Tra le mani una bussola incerta,

indica uscite, strette e taglienti.

Aspetto  che  passi  un inverno cattivo,

tra fughe e ritorni, confini violati,

sirene e pianti.

Esco dall’ incubo, piove ancora,

mi bagno di gelida neve,

ho freddo e non è mai domani nel mio labirinto

di giorni di guerra.

Grintolin e la maga….

Grintolin e l’esoterismo (segue) – di Vanna Bigazzi

La Psicologa, che di Esoterismo non voleva sentir parlare in quanto persona pragmatica, sempre aderente alla realtà, non capiva perché i due poliziotti avessero insistito per convocare quello strano Professore fatto giungere da cosi lontano… tra l’altro, metà scienziato poiché medico e metà esoterico, cosa che a suo avviso, non avrebbe fatto altro che ingarbugliare la situazione. Gli orientamenti erano contraddittori per cui lei, inizialmente, si astenne dal parlare e lasciò che Grintolin e lo Scrupoloso iniziassero la conversazione. Alle prime domande dei due poliziotti, il Professore non risultava molto partecipe. Si assentava con lo sguardo come se volesse captare una realtà indefinita, ancora troppo misteriosa. Chiese, comunque, che potesse intervenire alla riunione anche la Maga. Subito, venne mandata a chiamare e lei si presentò, senza indugio, con le tre palle. Il clima che si creò era veramente surreale; pareva che le forze contrarie interagissero sinistramente e non si riusciva a seguire una pista che potesse avere una logica. “Basta con queste assurdità” urlò la Psicologa che aveva esaurito tutte le sue notevoli riserve di pazienza “qui non si toglie un ragno dal buco”! “Ragno, ragno”? Esordì la Maga “il ragno è simbolo del male, richiama forze oscure, fa parte di riti demoniaci. La sua ragnatela rappresenta l’intrecciarsi delle varie vie del destino, non a caso questa parola è entrata nella nostra conversazione, è un indizio”! “Le faccio presente” interruppe il Professore “che il ragno è anche simbolo di buon auspicio, di fortuna e abbondanza e la ragnatela può rappresentare anche l’ordine cosmico che ha un centro nel quale si trova l’animale. Chi è guidato dal totem del ragno è indotto a comprendere che gli eventi della vita, obbediscono alla casualità e sono indipendenti dalla nostra volontà”. Grintolin non capiva più nulla “Cosa c’entra il ragno, adesso, spiegatelo, cosa c’entra il ragno”. Ammutoliti e disorientati tutti tacevano. Lo Scrupoloso Antonio osò interferire dicendo che la Dott. Psicologa Vann Big, aveva soltanto usato un’espressione idiomatica per sostenere che la conversazione risultava inutile e non produceva alcun risultato. La Maga si alzò di scatto inviperita “Allora cosa mi avete chiamato a fare, imbecilli, sottovalutate i miei poteri e non avete rispetto per l’inconoscibile, torniamo a casa nostra e lasciatemi in pace”! Con un gesto di rabbia irrefrenabile scaraventò le palle di legno sul viso dei conferenzieri: una di queste colpì il naso imbarazzante di Grintolin, un’altra si conficcò nell’occhio del Professore e la terza venne scansata, per miracolo, dalla Psicologa che, con un gesto inconsulto urtò lo Scrupoloso Antonio, con i suoi prominenti seni.   

Avanti Carla…

Hansel e Gretel

I legni torti – di Nadia Peruzzi

La casetta al limitare del bosco sapeva di buono. Il profumo del marzapane mischiato a quello della cioccolata e dello sciroppo di fragole ,si sentiva già da dentro il bosco.
Chiunque ci passasse accanto non riusciva a trattenersi e piluccava qui e là le cose che gli piacevano di piu’.
La vecchietta che la abitava,non ci faceva caso .Era contenta anzi che grandi e piccini godessero di tutte quelle leccornie. Tanto più che ogni pezzo che veniva portato via e mangiato, nella notte seguente, si ricostituiva tale e quale a come era prima.
Tutto, attorno a quella casa, profumava di magia .Anche il modo in cui era spuntata dal nulla in una sola notte.
Il taglialegna del paese vicino se l’era trovata davanti mentre se ne andava al lavoro. Era sicurissimo. La sera prima non c’era nulla e ora invece eccola qui questa casetta dai mille colori, dal tetto di soffice pan di Spagna e dalle finestre e dal portone di cioccolato, con caramelle colorate a segnare il vialetto di ingresso e fiori a tutte le finestre di confetti bianchi e rossi .
La vecchietta che lo aveva salutato era come la sua casa. Dolce, amorevole e gentile. Aveva lo sguardo buono di chi vive in mezzo a prelibatezze e sa trarne beneficio.
Da quel momento il via vai dal paese non si era mai fermato. Grandi e piccini facevano a gara a chi arrivava per primo a casa della vecchia signora dai capelli bianchi e dagli occhi azzurri come solo un cielo d’estate sa essere.
Per passare davanti a quella casa c’era addirittura chi allungava la strada per andare al lavoro o a scuola. C’era anche chi ci passava per puro diletto. Senza averne necessità e tutto per poter staccare il suo pezzetto di felicità quotidiana. Spesso succhiare una mentina o una caramella alla fragola apriva le porte del paradiso ,e li di paradiso ce n’era in grande quantità.
Quella casa era diventata in poco tempo un punto di riferimento per tutto il villaggio. Distribuire piacevolezze e benessere per tutti non è cosa da poco, pensò un giorno il Sindaco ! Fu così che si decise in Consiglio comunale di attribuire alla casetta dei dolciumi il valore di “bene comune”. La targa che fu conferita, fu posta in bella vista vicino al vialetto di accesso alla casa in modo che chiunque passasse da lì comprendesse il gran valore che la casetta e la vecchia signora dai capelli candidi avevano assunto per quella piccola comunità.
Tutto cominciò appena dopo la decisione assunta dal Consiglio Comunale.
Prima furono semplici dispetti. Poi scherzi pesanti. In seguito veri e propri atti di vandalismo. Sassi contro le finestre. Un piccolo incendio che fece fondere tutto il portone di cioccolato. Un gatto morto sul sentiero di accesso alla casa e altro ancora che ad un certo punto la signora decise di denunciare ai gendarmi.
Questi cominciarono a darsi il cambio per controllare quello che avveniva nei pressi di quella casina deliziosa. Volevano scovare i colpevoli ma in prima battuta non riuscirono a scoprire nessuno .I malestri continuarono e si fecero sempre più pesanti .La vecchina cominciò a sentirsi impaurita e si decise a comprare un cane di grande stazza perché facesse la guardia .
Per un po’ la presenza del cane sembrò aver determinato un cambiamento. La vita era ricominciata a scorrere senza problemi .I bambini si fermavano gioiosi e a prendersi il loro pezzetto di cioccolato, mentre mamme e nonne sempre più spesso accettavano l’invito di quella simpatica vecchietta per il tè delle 5.
Accadde tutto in una notte di tempesta.
Si sentì un colpo secco come un tuono. Invece era la porta sul retro che era stata spaccata lasciando entrare una folata di vento gelido e due energumeni incappucciati. La vecchietta se li trovò davanti mentre rientrava in salotto dopo aver chiuso una delle finestre che sbatteva nella stanza accanto. Si mise a tremare mentre la strattonavano e spintonavano verso la sedia a cui la legarono stretta stretta con delle fascette che facevano un male terribile. Sembravano due ossessi mentre si aggiravano per la casa.
Il più alto ogni tanto la colpiva urlandole contro: ”Dimmi vecchiaccia dove tieni il tuo tesoro? Perché un tesoro devi averlo tu se hai una casa così confortevole e bella! Dimmelo, forza! Ci siamo solo noi. Nessuno può salvarti,  il cane lo abbiamo addormentato e noi abbiamo tutto il tempo che ci vuole per farti parlare!”
“Non c’è nulla in casa di valore materiale. Nè oro, né monete, né gioielli. L’unico tesoro è questa stessa casa. E’ fatta di dolcezze proprio per diffondere dolcezza. Ed è dotata della magica capacità di ricostruirsi e di rinnovarsi ogni volta in modo che tutti ne possano godere”, disse la vecchina con un filo di voce,venato di terrore.
Non la fecero finire. Una serie di schiaffoni la colpirono fino a farla sanguinare. Il più piccolo dei due ,intanto continuava a mettere a soqquadro tutto. Era una vera furia.
Cercarono in tutti i modi di farla parlare. Anche con quella forma di tortura che avevano visto in uno dei giochi elettronici che erano soliti fare, il waterbording.
Lacera in viso, scarmigliata, con gli abiti strappati la vecchina non proferiva più parola. Sembrava morta.
Fu solo per caso se non accadde l’irreparabile .
Proprio in quella notte di tempesta, la regina Grimilde stava facendo rientro al suo castello. Lungo la strada il suo convoglio era stato attaccato dalla perfida banda dei 7 Nani che imperversava in quelle zone.
Il corteo reale aveva retto bene all’assalto e aveva respinto quei briganti, ma giunto in prossimità della casetta dalle mille dolcezze aveva avuto bisogno di effettuare una sosta per verificare di non aver subito alcun danno.
Fu così che ci si accorse che qualcosa non andava in casa di quella vecchietta. Troppi rumori, troppi colpi, troppe urla che bucavano il silenzio della notte.
La regina ordinò ai soldati di andare a vedere cosa stesse succedendo. Quando videro la vecchietta accasciata su una sedia e quei guerrieri Ninja che si muovevano come due furie, chiesero di poter fare irruzione. 
Grimilde ordinò l’assalto.Tutto si risolse in poco tempo. I soldati uscirono portandosi dietro i due incappucciati, mentre due dame di compagnia si prendevano cura della vecchietta.
Quando i cappucci furono tolti furono grida di stupore, misto a dolore e meraviglia.
Erano poco più che bambini. Erano Hansel e Gretel, i figli del taglialegna.
Riuscirono pian piano a farli confessare. Ma per saperne di più dovettero chiamare il padre.
Erano cresciuti, disse, con una madre malvagia che aveva angariato anche lui facendogli passare una vita di inferno. I due piccoli insieme al latte materno avevano succhiato cattiveria, invidia ,egoismo e tutto quanto di pernicioso potesse entrare nell’animo umano.
Tutto questo era rimasto anche dopo che la moglie era morta e anzi si era riacceso e accentuato ,ancor più ,dopo che lui aveva deciso di risposarsi con quella santa donna di Raperonzolo.
Quando erano iniziati i primi atti di sadismo sugli animali di casa, lui e la moglie avevano deciso di mandarli in una Clinica per vedere se fosse possibile rieducarli e curarli in modo da liberarli dai fantasmi che la madre biologica aveva incistato nei loro cuori e nelle loro menti.
La vecchina stesa sulla lettiga dell’ambulanza che la portava in ospedale colse una gran parte di questo colloquio. Buona com’era con un filo di voce si rivolse alla regina con una preghiera.” Facciamo insieme un ultimo tentativo. Appena torno dall’ospedale con l’aiuto dello psicologo di corte ,il Dr.Busillis, vorrei occuparmi di questi due bambini. Nel frattempo li terrete a corte mettendoli a fare lavori socialmente utili “.
“Hanno tutta la vita davanti”, disse ancora, ”un tentativo va fatto. E’ doveroso”.
Il falegname aveva le lacrime agli occhi. I due malvagi un ghigno che per un attimo fu illuminato da qualcosa di diverso dalla cattiveria più nera.
La Regina una espressione allo stesso tempo stupefatta e preoccupata visto che stava a lei decidere il resto di questa storia.
Decise dopo un attimo di esitazione, che si, forse valeva la pena di provarci. Mai darsi per vinti senza nemmeno osare anche ciò che a prima vista può sembrare impossibile.
Alzo’ la sua mano regale, carezzò il volto tumefatto della nonnina e le disse:
“ Si proviamoci insieme a raddrizzare questi due legni torti.”!

Stefania

Il “tipo al bar” – di Stefania Bonanni

Foto di Arek Socha da Pixabay

Ci sono fatti che non sono storie, Ci sono bivi che non si vedevano, dal piano stradale. Ci sono decisioni che non si sono prese, solo per non essersi accorti che non decidere nulla, era imboccare una strada. Ci sono pensieri diversi, nel ricordo. Sembrano teneri, c’è  benevolenza e tenerezza, nel ripensamento, anche se in un attimo tornano a galla prepotenti i sentimenti di allora. Ed insieme, la possibilità che si rifarebbero le stesse cose, che non serve a cambiare, il passare degli anni. Che non serve allontanarsi, per vedere meglio. E’ cambiato il giudizio, più amorevole verso i comportamenti tenuti, più tollerante verso le debolezze,  verso le vanità,  verso le occasioni perse per mancanza di parole, verso la consapevolezza di non conoscere la tenuta e la portata di giovani cuori e giovani nervi.  Allora sembrava una strada costruire una fortificazione, nascondersi dietro, sepolti ma immuni da pericoli sconosciuti, che potevano arrivare dappertutto. Poi, è stato il lavoro della vita, sgretolare la muraglia. Torna a galla un episodio piccolo piccolo, per la tenerezza per la me di allora, che forse per la prima volta provo a raccontare.

Àvevo terminato le  superiori in un fuoco d’artificio di voti strabilianti,  cone quando per San Giovanni gli ultimi tre scoppi fanno più rumore dei precedenti, per far capire che finisce lo spettacolo, e forse per farsi ricordare.  Sapevo poco di tutto, ed anche di me. Sapevo che le cose che mi sarebbe piaciuto studiare non erano quelle, sapevo che studiare mi era facile, capivo che avrei potuto continuare, con soddisfazione e buoni risultati, forse. Non fui incoraggiata. Ero una donna, avevo gia’ un diploma, non era poco. Sul piatto della bilancia peso’ l’atmosfera generale che indicava nell’indipendenza economica la strada per le donne, e l’ostinazione con la quale mi rifiutavo di chiedere soldi in casa, da sempre. Non sono cambiata: parlare di soldi mi è sempre sembrato di pessimo gusto, cosa volgare: se soldi ci sono, non serve parlarne,  se non ci sono, parlarne aumenta il problema. Allora cercai un lavoro, e , incredibile da pensare adesso, lo trovai subito.

Fui assunta come ragioniera  nell’ufficio contabilita’ di quello che all’epoca era uno degli alberghi di lusso più alla moda della città. I miei amici rivoluzionari lo videro come l’ingresso nel “sistema”. A me, per molto tempo, sembro’ di essere stata sparata da un cannone, su un pianeta sconosciuto. Il lavoro per il quale ero stata assunta mi si rivelo’ completamente alieno. Eppure ero la più brava, come era possibile non sapessi nulla. Altrettanto  stupefacente fu capire che se lo aspettavano: era normale che i nuovi assunti partissero dal riordino dell’archivio e dopo un percorso fatto di tantissimi scalini, piano piano arrivassero alla contabilità.  In un ufficio dove era stato il percorso di tutti, essere l’ultimo arrivato voleva dire avere molti superiori, si innescavano meccanismi mai considerati. Non fu facile e non c’erano scuole che insegnavano a stare al posto che spettava, e che non si sapeva quale fosse.

L’ufficio era in un cortile interno, ma per andare in direzione, per entrare ed uscire, si atttraversavano saloni splendenti di lampadari di cristallo che riflettevano le mille gocce di luce su centinaia di specchi. La mattina quando arrivavo spesso erano in corso le pulizie che avrebbero eliminato i resti dei ricevimenti, dei balli, che erano proseguiti fino alle prime ore del giorno.  Mi fu chiaro da subito che non era un unico mondo, quello degli esseri umani. C’era chi lavorava, e chi godeva il frutto del lavoro degli altri, a pagamento.  C’erano ragazze come me che ballavano la notte, a volte con uomini potenti, e vecchi. C’erano donne con vestiti da sera luccicanti, irriconoscibili quando cambiavano abiti. C’erano cibi e vini che ne’ io, ne’ i miei colleghi avremmo forse mai comprato. Un mondo che mi sembro’ finto e pericoloso.  Mi sembrava di essere Cappuccetto Rosso, nel bosco.  Avevo paura di non saper riconoscere il lupo. Per tutto questo, ed anche per timidezza, feci mio un comportamento distaccato e non incline a dare confidenza. Camminavo diritta come un fuso, non mi fermavo  a parlare.

Un giorno, mi sentii chiamare, era un ragazzo seduto su una delle poltrone della hall. Un cliente,  ovviamente, “Signorina, scusi, possiamo scambiare due parole? potremmo avere la stessa eta’, ad occhio e croce”. Ricordo benissimo che risposi di getto, come per reagire ad un morso, inopportuna e stizzita: “Guardi che io qui lavoro, non intrattengo nessuno”, girai sui tacchi e me ne andai e mi sentii i suoi occhi addosso, per tutto il corridoio.

Il giorno dopo, il ragazzo del bar, mi chiamo’ in ufficio. Disse : “Guarda che qui c’è quel tipo di ieri,  che dice non se ne andrà  finché non ti vede passare”. E non passai, né quel giorno, né gli altri due o tre che seguirono nei quali si ripeté la stessa telefonata dal bar. A fine settimana pensavo se ne fosse andato, i clienti rimanevano pochi giorni,  di solito. Il venerdì me lo trovai davanti, nel corridoio. Mi disse “Faccio un concerto stasera, ho una paura tremenda, non sono ancora sicuro che ce la faro’. Ho biglietti,  vieni a sentirmi. Canto cose che ho scritto io, poi mi dirai..” “Non mi fanno uscire, la sera. Verrò la prossima volta,  quando sarai famoso.  Auguri, comunque”

Il lunedì mi chiamo’ il barman. Disse :”Il tipo dell’altro giorno ti ha lasciato un biglietto. E’ partito ieri.”

“E senza dir parole nei miei sogni ti portero’…” Francesco.

Grintolin a più mani

Grintolin: nuove strade per le indagini – di Luca Di Volo

Quella mattina Scrupoloso Antonio, bravo ispettore…aveva proprio la luna storta….Sì perché in giornata era previsto l’arrivo di quel professore con quello strano nome..

E poi , dai Carpazi..via…da quelle parti lui conosceva solo Dracula…Si rifiutava di pensare che dopo tanti secoli il soffio della modernità fosse arrivato anche laggiù….Questo prof. poi se lo immaginava pallidissimo, labbra scarlatte…uno stiffelius nero rivestito di un mantello ancor più nero…

Ma si fermò in tempo..e se fosse stato davvero così…?! Forse sarebbe stato divertente…almeno quel rompipalle di Grintolin avrebbe avuto quel che gli spettava per le sue ultime fantasie esoteriche..Già..che proprio lui aveva destato…O non poteva non rispondere..? No, non poteva..Scrupoloso Antonio, bravo ispettore era fatto così…

Però era nato sbirro e come sbirro pensava…E pensava che quel vocione di Grintolin nella fretta di chiudere il caso, avesse preso una cantonata solenne.

Intanto non si era curato della personalità della signora che aveva riconosciuto in Ettore il suo coinquilino…Poi il lavoro della suddetta signora..che era nota in tutto il paese come “Madame Tre Palle”…e faceva la medium , la chiromante ..lettrice di futuro, passato e presente…Anche su una TV locale. Il soprannome era dovuto al fatto che per la divinazione utilizzava tre palline di legno che faceva girare in un specie di contenitore cosparso di buchine e buchette , a seconda di dove si fermavano le tre sfere dava il responso…ed aveva anche molti clienti, anche…

Altro fatto importante..la signora in questione non era affatto la solita vecchia megera: vedova, di mezza età, era davvero una bella donna, molto giovanile , ed intelligente anche, ..se no non avrebbe potuto fare quel mestiere..

Ultimo..era anche una confidente della Polizia…

Questo però Grintolin non lo sapeva…i confidenti erano gestiti dal bravo agente Scrupoloso Antonio e non era obbligato a parlarne se non riguardavano le indagini…Eh, però ora era il caso..e bisognava affrontare il Grintolin….e dirgli che quella sera era stata lei a denunciare quel povero Piero Cecchi che le aveva fatto quelle confessioni durante una seduta…”Ma non sarà che quel bischero del Cecchi le abbia raccontato quelle visioni tanto per fare il fenomeno e attirare l’interesse della bella maga?!..Possibile..però qualcosa deve aver visto..magari per far colpo l’aveva amplificato..ma durante l’interrogatorio si era mostrato troppo spaventato per essersi inventato tutto..” Poi, quello strano prof…..Che tanto strano non sembrava..intanto era medico..era stato anche un chirurgo piuttosto famoso…poi si era fatto sedurre dalla psichiatria…e infine si era messo ad indagare su avvenimenti che esulavano dalla scienza..ma sempre , come predicava a mezzo mondo..”perché la Scienza era ancora molto molto arretrata..”

E naturalmente quello spezzone dell’indagine Grintolin l’aveva affidata a lui..c’era da lavorare con Dracula…(ormai l’aveva soprannominato così..) e..dulcis in fundo , anche con la leggiadra dottoressa Vann Big…

Quest’ultimo pensiero gli aveva un po’ sollevato il morale, tanto che quando l’agente di guardia entrò per dirgli che…ehm…era arrivato quel famoso prof. Rumeno, era quasi di buon umore, tanto che si affrettò a seguire di buon grado l’agente fin sulla porta del commissariato…dove ebbe l’occasione di incontrare per la prima volta il famoso prof. Luc de Vol ..ordinario di scienze esoteriche all’Università della Transilvania…

Subito..a pelle…capì che gli sarebbe sempre stato sui…..insomma avete capito..e immediatamente dopo lo colpì il fatto che anche se gli era stato subito antipatico…cavolo..quell’uomo era affascinante…altro che Dracula..

Di media statura..una leggera barbetta da intellettuale..vestito sportivo..occhi nerissimi che sembravano bucare lo spazio…No..non era uno qualsiasi…Ma gli andò incontro sorridente per dargli il benvenuto..scoprendo che parlava un italiano perfetto…e figuriamoci…

Comunque…”Venga Professore ..il commissario Grintolin e la dottoressa Van Big la stanno aspettando…”

Ma subito gli apparve nel pensiero la bella psicologa ..ahi..una fitta di gastrite o il bravo ispettore Scrupoloso Antonio cominciava a patire i primi morsi della gelosia.?!

Comunque fece il suo dovere, introdusse l’ospite nell’ufficio di Grintolin e, dopo i convenevoli d’uso, la riunione ebbe inizio..

Ora…sotto a chi tocca..

Rossella

E se fosse andata diversamente? – di Rossella Gallori

foto di Rossella Gallori

A:

GIULIA, giovanissima ebrea si innamora di Giorgio, bellissimo, dolcissimo, cattolicissimo ombroso ed ammaliante, in solo 9 giorni lo sposa, un 1938 che vede una  giovane coppia entrare in un labirinto, senza abito bianco, senza sfarzo, in segreto, quasi. Specchi di guerra riflettono sui loro corpi innamorati, solo fucili puntati e svastiche dagli angoli taglienti. I figli maschi nascono, uno, due, tre, quattro, un po’ alla luce del sole, un po’ al buio totale.

La storia va avanti, tra morti di crepacuore, di gas, e di sopravvissuti, che non hanno più nessuna voglia di andare avanti, c’ è sempre un “ tu non puoi entrare” nella giovane coppia, eppure vanno avanti, nella speranza ossessiva di Giorgio, di avere una bimba che gli somigli , nella certezza di Giulia di non metter al mondo più figli con il bollino come banane. I figli maschi che ha le bastano, eppure LEI nasce a dispetto della madre, nasce con l’odio di una nonna, una delusione della madre, ed un amore smisurato del padre, che la lascia presto sola ad affrontare  salite così  ardue da non saper come fare. Inutile avere le scarpe giuste, all’ inizio piange, vuole studiare, ma non trova strade in quel groviglio,  ad ogni passo un tranello. Cresce diventa grande, quasi vecchia, non sceglie ma vive. Rimane nel labirinto, non ne esce, perché dovrebbe farlo? Ci sono cecchini in agguato? Si credo proprio di  sì!

B

Si sposano Giulia e Giorgio, in un 38 di passione, un matrimonio stupendo, lei in bianco bellissima, lui in grigio, banale e dimesso.  Il viaggio di nozze è lungo e senza intoppi, si comincia un po’ a parlare di razze, ma i due ignorano, innamorati come sono,  le maldicenze sui tedeschi, c’ è chi dice che forse li deporteranno questi biondoni dagli stupendi occhi azzurri, ma in alberghi sul mare, dove alloggeranno con i loro stupendi cani, dolci e mansueti, comunque per identificarne la provenienza  i  teutonici  indosseranno sulle divise mughetti profumati,  ed i guinzagli saranno colorati e pieni di allegri sonagli.

La coppia è al sicuro, lei è ebrea, nessuno può farle del male, nascono figlie, una dopo l’altra, per non fare torti, danno a tutte lo stesso nome, Vita, originale e  lungimirante.

La più piccola è così  amata, così coccolata, così apprezzata, da non avere intoppi, spesso sogna grandi cartelli su porte aperte: PUOI ENTRARE SOLO TU.  Viali alberati, strade diritte, cartelli stradali benevoli e chiari le indicano la meta.

Studia, prende una laurea dopo l’ altra, legge, dipinge, viaggia, ed ora che non è più tanto giovane vive con  i genitori, che non hanno anni, un marito che  l’adora, figlie, nipoti, gatti, anche la sua nonna è ancora viva e sulla sedia a dondolo sotto il portico ricama il nome della nipotina su cuscini di lino setoso, in una casa immensa che guarda il mare, dalle finestre spalancate, la porta sempre aperta, un cartello all’ ingresso avverte gli ospiti: IN QUESTO GIARDINO NON CI SONO LABIRINTI, SIETE AL SICURO.

P S: non è andata così? Non importa, potevo scriver di Pinocchi con il naso a  patata, di Pollicino che non si perde, ho scelto la storia di casa mia, mi perdonate?  

Ulisse

Torno o non torno? – di Laura Galgani

Foto di Olle August da Pixabay

La grande nave in rada, vicina alla grande spiaggia, sembrava silenziosa, addormentata.

Le vele ripiegate non annunciavano alcuna imminente partenza. Tutti, l’eroe come i suoi compagni, erano immersi in un sogno dal quale non volevano ancora riemergere. L’isola, che sarà detta Gaeta da Enea, era coperta da una folta vegetazione. Hermès vi si rifugiava ogni volta che si ritirava – quasi fuggiva – dagli incontri con la Maga Circe. Lei riusciva a turbarlo nonostante lui fosse un dio.

Odisseo conosceva ormai bene quell’isola incantata: le alte scogliere, le spiagge dorate, il mare spesso in burrasca che non gli faceva certo paura. E poi c’era lei, la maga – dea dalle belle trecce, dalla pelle color di luna, dal profumo d’ambra e muschio, dallo sguardo magnetico e irresistibile.

Seduto su uno scoglio Odisseo guardava l’orizzonte e si chiedeva quanto fosse vicina – o se invece fosse lontana – la sua Itaca. Da qualche tempo ormai la distanza dalla sua terra non era più soltanto fisica, misurabile in giornate di viaggio. Qualcosa gliel’aveva allontanata dal cuore, dalla mente, dall’anima e lui ne soffriva profondamente. Al tempo stesso però, al di là della sofferenza dovuta al distacco, come se fosse ormai passato al di là delle colonne d’Ercole e avesse varcato un confine prima inimmaginabile, sentiva che in lui qualcosa di importante stava cambiando. Gli sembrava di affacciarsi ogni giorno di più su di un mondo nuovo, tutto da scoprire, stavolta senza doverlo andare a cercare chissà dove. Era dentro di lui, era lui. E sapeva benissimo che Circe era l’artefice di questo cambiamento. Ricordava bene il momento in cui, dopo aver incontrato Hermès, si era incamminato verso la sua porta, sconvolto nel cuore. Hermès l’aveva messo in guardia al suo arrivo sull’isola: Circe non era “solo” una maga, era una dea. “Circe farà di tutto per renderti vile ed impotente. Si servirà di te per esercitare il suo potere magico. Non devi cadere nella sua trappola.” E gli aveva dato delle erbe misteriose come antidoto alle pozioni magiche, una spada da sguainare per mostrare forza e contrastarne il potere e gli aveva detto di farle giurare che non avrebbe usato incantesimi con lui. Solo dopo avrebbe potuto giacere con lei. Da allora, da quando per la prima volta erano saliti di sopra, al suo letto fra le rocce, era passato del tempo. Quanto, Odisseo non sapeva dire. La sua lucida razionalità lo aveva sostenuto fino a poco tempo prima; fedele devoto di Athena, espressione del mondo razionale, aveva retto bene il confronto con Circe, proprio evitando di lasciarsi toccare interiormente dall’inquietante mondo di lei, al contrario irrazionale, indefinibile e sfuggente. Ma non poteva resistere all’infinito. Era un’impresa sovrumana anche per lui, avvezzo alle sfide più dure.

I compagni di Odisseo, intanto, resi da Circe ancor più belli e prodi dopo esser tornati umani anziché restar maiali, lo supplicavano di ripartire. Non vi era più alcuna ragione per temporeggiare, il mare e il vento erano propizi e dunque era giunto il momento di spiegar le vele alla volta di Itaca! Ma Odisseo non si decideva. Si sentiva spaccato a metà, come un grosso frutto succoso che si recida d’un sol colpo netto e con forza, gli pareva che le sue due parti, quella razionale che ben conosceva e quella del sogno che voleva esplorare, si fossero scisse l’una dall’altra piangendo lacrime succose ciascuna per proprio conto.

“Andremo nell’ade, da Tiresia, il cieco indovino! Sarà lui a decidere del nostro destino.” E così dicendo Odisseo si alzò di scatto e si mise in cammino con passo deciso. I suoi compagni lo seguivano, ancora fidandosi di lui. Durante la marcia gli risuonavano in testa le parole che Circe gli aveva sussurrato all’alba, dopo una notte in cui aveva conosciuto spazi di vita inesplorati dentro di sé: “Ascoltami, io ti darò qualcosa che ti farà dimenticare i tuoi sogni meschini, il tuo misero regno, tua moglie che invecchia. Rimani e questa notte l’Olimpo conoscerà un nuovo dio, Odisseo.”

Non fu facile scorgere Tiresia. La nebbia avvolgeva le rocce, l’umidità trasudava dalle pareti scoscese e sembrava che tutto piangesse di compassione per il triste destino dell’umanità. Dopo qualche istante l’ombra di un vecchio avvolto da un mantello si fece avanti e lo chiamò: “Odisseo! Vieni avanti! Sì, sei nel regno dei morti, ma ancora non ne fai parte. Hai molti giorni davanti a te, tempestosi e sereni, lieti e dolorosi. Ma lascia andare questi tuoi compagni. Il vostro destino non è più uno solo. Da tempo tu stesso hai già scelto qual è la terra che vogliono calpestare i tuoi passi. Non sono io che devo decidere, sei tu che hai già deciso. Posso solo dirti che il peso di questa decisione lo porterai per sempre; ma sai bene che ogni scelta porta con sé il rimpianto per ciò che si è dovuto lasciare indietro. Tua moglie non ti vorrebbe mai accanto a sé ma infelice. Tuo figlio non vorrebbe essere cresciuto e guidato da un padre che desidera essere altrove. Sarà una prova dura per loro, ma non gliela puoi evitare. Ce la faranno, in qualche modo. Prenderanno delle decisioni, giuste o sbagliate non importa. Ma tu lascia liberi questi amici di fare altrettanto!” E detto questo ritornò nell’ombra e scomparve. Tutti restarono in silenzio. Nessuno osava dire qualcosa. Giunti all’aperto, si lasciarono sferzare il volto e il corpo dal forte vento salmastro. Si vedeva il mare, in lontananza, e grosse nubi scure che si allontanavano senza più esser minacciose. Non ci fu bisogno di parole: Odisseo abbracciò i suoi compagni uno per uno, piangendo. Rimase lì, su quel promontorio brullo e roccioso, a guardarli sfilare e affrettarsi verso la nave, finché il primo vi salì e sciolse una vela. La nave era di nuovo viva, si stava preparando per il viaggio. Pareva salutarlo ondeggiando leggermente ora da un lato ora dall’altro. Odisseo le disse addio, e con lei disse addio a ciò che era stato e al suo passato. Chissà se l’umanità avrebbe compreso la sua scelta … chissà se qualcuno ne avrebbe mai parlato …   

Labirinto

Essenza – di Lucia Bettoni

Foto e quadro di  Lucia ( olio su tela 30×30 )

Bianco come la neve
il mio labirinto semplice.
Pulito, lavato …
è rimasta l’essenza.
Ad ogni risveglio
una sola domanda:
la bellezza o l’abisso?
Ancora e ancora scelgo
ogni goccia di vita e
non apro l’ombrello