Profumo di Natale

Profumo di albero di Natale – di Lorenzo Salsi

L’Odore dell’albero di Natale
Non si sente quasi più come se anche loro avessero deciso di essere una presenza anonima che serve unicamente da sostegno per palline, fiocchetti, paccheti e lucine; mi riferisco all’odore sprigionato dall’albero di Natale. E’ un odore magnifico! Ricordo di essere rimasto a lungo in salotto a casa mia ad annusare quel profumo soave che rami e foglie emanavano fortemente a causa, credo, del riscaldamento casalingo. Quando l’albero era addobbato o “fatto” come si diceva a casa mia, passavo a posta dal salotto per bearmi del profumo dell’albero.
In tutta onestà non mi è mai interessato addobbare l’albero, forse facevo come le volpe e l’uva, infatti ero il “passatore” ufficiale di casa, poiché le mani che organizzavano l’apparecchiatura della pianta erano quelle di mia sorella ed io ero il ponte umano dalla tavola, dove venivano disposti gli ammennicoli tutti scartati in precedenza dalla loro carta velina di protezione, alle mani sorellesche le quali, con fare disinvolto, attaccavano i ninnoli su su per i rami fino alla cima, e guai a chiunque si fosse permesso di dare indicazioni circa posizioni o tipi di addobbo da inserire.
La sorella aveva già tutto in mente.
Alcuni giorni prima del Santo Natale si cominciava con la scelta dell’albero”Né troppo grande, né troppo piccolo, ramoso!” diceva mio padre “ e con il pane così dopo la festa si pianta al Bandino”.
Il Bandino era ed è una zona molto vicina a dove abitavo, però in piena campagna, dove stava un cugino della mamma, lo Zio Ugo, che faceva il contadino e che aveva un campo sterminato per me allora, dove ogni anno o quasi veniva piantato l’albero di casa Salsi passate le feste. Lo Zio Ugo ogni anno coltivava il vecchio albero così bene che non si poteva riusarlo tanto era diventato grande ed esagerato per le misure di casa mia, ed ora che ci penso che quel punto dove si mettevano gli alberi potrebbe essere diventato una foresta di conifere.
Dopo la scelta c’era da portarlo a casa, tutto legato ed imbustato con un vecchio lenzuolo bianco che aveva allora solo il compito di avvolgere l’albero; dal fioraio Giovanni a casa mia c’erano sì e no 20 metri, ma incombeva l’attraversamento del Viale Giannotti, quasi un guado. A me toccava la punta, leggera, al babbo il vaso o il pane e si partiva e con questa mummia arrivavamo a casa, dove la sorella aveva provveduto a trovare uno sgabello dove poter piazzare l’albero e tenerlo
rialzato da terra così da poter mettere i regali sotto.
Un volta piazzato c’era da girarlo e rigirarlo fino a che non si trovava la parte migliore da esporre, a questo punto iniziava l’addobbo ed io vivevo nel terrore!
Dunque avevamo delle palline in vetro soffiato che erano delle opere d’arte; leggerissime, con colori sgargianti, mi ricordo bene solo di alcune, sono anni che non le vedo, la sorella avrà messo tutto in una cassetta di sicurezza pensando a quanto ci teneva. C’era un nido in vetro a cui ogni anno si cambiava il muschio per poterci sistemare gli uccellini anche loro di vetro, una palla concava fatta a spicchi di color giallo che mi ricordava un limone tagliato, degli uccellini, anche loro di vetro soffiato, che al posto delle zampe avevano delle molle inserite in delle pinze per poterli attaccare ai rami e fare in modo che dondolassero come se stessero beccando per terra, uno era un pavone di una decina di cm, un altro, mi pare, un uccello del paradiso, poi c’erano altre palle classiche ma rigorosamente in vetro e infine c’era lui, il puntale, naturalmente in vetro soffiato, punta sottilissima che rastremava verso il basso dove si incontrava con una palla concava in senso orizzontale, interno a spicchi gialli-rossi, sotto di essa una strozzatura vuota dava forma ad un tubetto di 5 / 6 cm, cosi da permettere l’alloggio al ramo principale dell’albero.
C’è solo da immaginarsela la paura che potevo avere nel toccare tutte queste cose, già due settimane prima che cominciasse questo Amba Aradam venivo fatto bersaglio di un lavaggio psicologico, più un corso di formazione “ Su come si devono prendere le palline di Natale e si devo porgere con delicatezza e grazia alla vostra sorella” , cosicchè dopo questo washing mind il mio stato d’animo era quello di un indagato per assassinio o crimini contro l’umanità, in realtà innocente ma con tutti gli indizi contro.
I miei movimenti erano lentissimi e studiatissimi per evitare scossoni, quasi si trattasse di nitroglicerina, accompagnati da larghi sorrisi di compiacimento per imbonire la “belva-sorella” sempre pronta a scattare. Quando, orbene, l’ordigno che trasportavo usciva dalle mie mani lo stomaco si allargava e il respiro si faceva regolare. Ogni volta che finivo il lavoro mi ripromettevo che l’anno dopo non avrei più fatto il Passatore, ma non accadeva mai. Ero sotto esame anche quando l’albero era da spogliare, non ce ne era per nessuno quando la sorella decideva decideva !
Un volta, finito l’addobbo all’albero , una pallina cadde a terra e naturalmente si fracassò, gelo in casa perchè il rumore fu udito da tutti, dispiacere per la palletta, ma io non c’entravo niente non la avevo agganciata, non ero neppure passato vicino, avevo testimoni a mio carico ed un alibi di ferro, non c’erano animali in casa che potevano aver toccato la pallina … dunque la Sorella aveva messo male la palla che poi era caduta … Vendetta dolce vendetta, chi di palle ferisce di palle perisce……però tutto intorno aleggiava prepotente e gagliardo il profumo di abete.

Il presepe di Como

La capannuccia sperduta – di Gabriella Crisafulli

foto di Gabriella Crisafulli

Non ricordava nulla di quella partenza.

Com’erano arrivate alla stazione? In carrozza o in automobile?

Chi le aveva accompagnate: zii, amici, nonni?

E il viaggio, com’era stato il viaggio? Ventiquattro ore in treno, da Palermo a Como, forse se le sarebbe dovute ricordare, anche se aveva solo quattro anni.

Come si erano sentite lei, sua madre e la sorellina, mentre andavano verso il nuovo mondo?

Per quanto si sforzasse non emergeva nulla dalla sua memoria se non l’odore di fuliggine che ristagnava nel vagone e il tatto del tessuto dei sedili in velluto a coste …

Non rammentava niente nemmeno dell’arrivo.

Eppure passare dal sole caldo del Golfo degli aranci alla neve che cadeva a fiocchi era una gran differenza.

Ricordava solo la stanza di una caserma che sarebbe stata cucina, pranzo e salotto della sua famiglia … e quel tavolino davanti ad un armadio di fureria su cui era poggiata una capannuccia.

Lì c’erano Maria, Giuseppe, il bambino, il bue, l’asinello e, all’ingresso, a destra una palma, a sinistra un cactus. In fondo, accanto alla greppia, un carillon che emanava un suono dolcissimo.

Questo era quello che il suo papà di 32 anni aveva preparato per accoglierle al loro arrivo nella nuova vita, lontani da sguardi indiscreti e giudizi su sua sorella.

Questo era quello che del presepe le era rimasto dentro e così, anni dopo, all’arrivo a Napoli, poco dopo la nascita della prima figlia, lei e il marito avevano acquistato le statuine monocromatiche in terracotta.

E Maria, Giuseppe, il bambino, il bue e l’asinello erano il presepe di una nuova famiglia.

Solo dopo qualche anno sarebbero arrivati i Re Magi, coloratissimi, in porcellana.

Poi il mondo si era fermato e c’erano stati gli anni del silenzio, del vuoto e del freddo.

Ma erano venute a trovarla le nipotine e avevano fatto di nuovo il presepe.

Dalla gelida assenza era ritornato nella sua casa però con qualche personaggio in più: due palme, un muro, una pecora, un cammello, un angiolino e quattro nonni.

L’angiolino era stato messo accucciato sopra il bambinello a coprirlo e proteggerlo e i quattro nonni a cavalcioni degli animali radunati attorno alla sacra famiglia.

Il gruppo si era così allargato, c’erano altri affetti, altri pensieri cresciuti a molti anni di distanza da quella capannuccia sperduta davanti ad un armadio di fureria.

Buon Natale con Francesca

Il senso di tutto – di Francesca Lemmi

Se ti chiedono qual è il senso di tutto

tu rispondi che nel mare del fluire

si naviga anche col mezzo distrutto

si naviga anche se non sai  dormire.

Se ti chiedono qual è il senso di tutto

di’ loro che al di là del bello e del brutto

il senso è una canzone stonata

una rivista iniziata

una strada asfaltata

una bella serata.

Il senso sono occhi sorpresi

panni stesi

giudizi sospesi

villaggi e paesi.

Il senso sono passi incerti

cieli coperti

consigli esperti

errori e deserti.

Il senso sono pagine bianche

gambe stanche

vecchie sedute su panche

tu che smetti di dire solo e dici anche.

Il senso sono tutte le cose e niente

è uno che si sente scemo e poi intelligente

è il rumore del phon che fa saltare la corrente

è la gioia di poter esser spesso un po’ incoerente.

E non ho capito che sto scrivendo

eh ma è normale.

E non ho capito che sto facendo

eh ma è un anno speciale.

È cibo rumore caos telefonate

è studio distrazione inverno estate.

Se ti chiedono il senso di tutto,

tu sommergili di parole,

che non capiscono e non pensano al brutto

che nel frattempo si abbronzano al sole.

E poi finisci dicendo onesta

che il senso è una risata che sa di festa

che si mischia al suono di una tempesta.

Ricordo di Natale

Natale senza lustrini – di Patrizia Fusi

foto di Sandra Conticini

Non ricordo grandi Natali scintillanti nella mia infanzia.

Gli alberi creati  secondo  quale alberello si riusciva a prendere nel bosco.

Veniva addobbato con figurine di cioccolato a forma di babbo natale, stelle, casine, con i boeri che spiccavano con il rosso scintillante, alcune palline di vetro, dei nastri argentati, tanti piccoli batufoli di cotone bianco per fare la neve. Si posizionava sul grande focolare, sempre spento, perché avevamo la stufa economica con cui si cucinava e si riscaldava la stanza.

Ricordo di aver ricevuto un presepe fatto di figurine piatte di cartone, molto brutto e triste, mi sentivo arrabbiata con quel regalo e con chi me lo aveva portato, sentivo queste persone lontane da me e dalla mia realtà, mi facevano sentire povera e diversa e che dovevo accontentarmi di quel brutto presepe.

Ricordo di un pranzo di Natale: mio babbo aveva fatto cucinare i cavolini di Bruxelles decantandoli come un cibo buonissimo.

Quando eravamo a tavola e si iniziò a mangiare i cavolini mio babbo mi chiese tutto soddisfatto se mi piacevano, gli risposi che non mi piacevano, sapevano di minestra di pane. Allora, e anche ora per me, il pranzo della festa è l’arrosto. A quei tempi in casa mia si mangiavano tante verdure e sempre al pomodoro, perché occorreva poco olio per cucinarle (liquido prezioso), erano buone e profumate ma erano il quotidiano, non il cibo della festa.  

I dolci erano pochi: panforte, ricciarelli, cavallucci.

Ricordo una Epifania più dura del solito economicamente per i miei genitori.

La mamma si ingegnò molto quell’anno per farci trovare i regali della befana, ci preparò delle calze con un po’ di carbone vero, una cipolla, aglio, mandarini, cavallucci e dei cioccolatini a forma di monete, sigarette di cioccolata, un sacchettino di mentine di zucchero di vari colori, a me  preparò un bambolotto di biscuit che era suo, che teneva nel mezzo del letto matrimoniale.

Aveva cucito bei nuovi vestitini e un piccolo corredo di lenzuolini e copertine, tutto molto carino, me lo fece trovare la mattina dell’Epifania e io lo presi contenta, ma sapevo che era il bambolotto della mamma, volevo che nessuno sapesse che era un bambolotto vecchio, doveva essere un segreto solo mio.

Quando uscii la mattina, davanti a casa  con il bambolotto in braccio e una vicina di casa carinamente mi chiese cosa mi avesse portato la Befana mi sembrò che avesse scoperto il mio segreto, risposi male e scappai via senza fargli vedere il bambolotto.

La mamma affrontava sempre le difficoltà con forza e dignità.