Destino o scelta?

E il tempo scorreva – di Carmela De Pilla

Nemmeno lei sapeva come e perché fosse stata catapultata in quel collegio di Firenze in un giorno di ottobre del 1966.

Aveva tredici anni e dall’oggi al domani si ritrovò tra persone che parlavano una lingua che non capiva, forse è italiano, si diceva, ma lei abituata a parlare solo in un dialetto quasi incomprensibile ne ignorava il significato

Percepì subito l’ostilità che si spandeva nell’aria e capì che in quel tempo e in quel luogo nessuno le avrebbe mai parlato di amore, così giorno dopo giorno si chiuse sempre di più in se stessa senza permettere a nessuno di scoprirne i pensieri e i sentimenti, sola, nel suo silenzio, un silenzio assordante che la portava molto lontano.

Le vedeva le sue compagne che l’additavano parlottando e ridacchiando fra sé, avrebbe voluto strattonarle, urlare, ma si sentiva troppo fragile, impaurita e scoprì che l’unico modo per difendersi era rinchiudersi nel proprio silenzio così decise di non parlare più.

Urlò quel 4 Novembre.

 Non capiva cosa stesse succedendo, vedeva solo veli neri che svolazzavano nevroticamente tra le stanze e nel cortile, bambini che piangevano, uomini che correvano

-L’acqua…l’acqua…sta arrivando l’acqua…

– Presto, prendete le spranghe di ferro, i travicelli, i tavoli…le assi …

Tutti si davano un gran da fare per rinforzare il grande portone ad arco che si apriva su via Borgopinti e lei guardava impalata in un angolo, tramortita, terrorizzata  da un nemico che non conosceva.

-L’Arno!!…l’Arno ha invaso tutte le strade e le viuzze del centro e sta arrivando qui, gridava un signore dalla strada.

E lei guardava impalata in un angolo, stordita da quella babilonia …

L’Arno? Non sapeva nemmeno cosa o chi fosse, lo scoprì soltanto qualche ora dopo quando affacciandosi alla finestra del primo piano vide un fiume d’acqua fangosa che ormai si era impossessata della strada, allora capì e si sentì ancora di più spaesata e sola.

Da diversi giorni pioveva ininterrottamente, nella giornata del 3 le piogge aumentarono d’intensità, ma nessuno se ne preoccupò abbastanza, nemmeno i fiorentini che fermandosi lungo gli argini si dicevano “è un classico che d’autunno piova così tanto” invece il livello dell’Arno incominciò a crescere rapidamente e nelle prime ore del 4 accadde l’irreparabile.

Macchine, sedie, tavoli, alberi che galleggiavano e nafta, tanta nafta che scorreva su quel fiume e portava con sé il  terrore che potesse prendere fuoco.

Si sentiva smarrita, spaventata e soprattutto abbandonata.

Qualche giorno dopo l’acqua rientrò nel suo letto lasciando per le strade fango e tanta desolazione, poi le dettero un paio di chantilly bianchi e si ritrovò con alcune compagne e suore a ripulire dal fango ciò che era recuperabile.

Il tempo scorreva…

e lei si lasciava vivere senza opporre resistenza, intanto andava alla ricerca di se stessa, voleva conoscersi, capire, darsi delle risposte e incominciò con fatica ad uscire pian piano fuori dal guscio per rinascere una seconda volta, curiosa di scoprire le bellezze della vita.

 Il tempo scorreva…

 e la mandarono in un altro collegio dove studiò per diventare maestra, suo padre ci teneva molto che prendesse quel diploma.

 -Se studi non sarai ignorante come me e, per una donna fare la maestra è un bel lavoro!

Il tempo scorreva…

e imparò a conoscersi, a sorridere, a farsi degli amici, incominciò a sentirsi più serena, più sicura e qualche volta conobbe anche la felicità.

Il tempo scorreva…

e si diplomò, decise così di iscriversi all’università, ma dirlo ai suoi genitori era difficile, i patti erano che dopo il diploma sarebbe ritornata al paese, ma come poteva dopo tanta fatica lasciare ancora una volta tutto per ritrovarsi in un ambiente che ormai non conosceva più?

Si incontrò con suo padre alla stazione di Bologna per proseguire il viaggio verso la Puglia e si sentì ancora una volta persa, era sicura che lui non avrebbe capito, ma questa volta non voleva sconfitte.

-Papà pensavo di proseguire con l’università, mi piace studiare, potrei anche lavorare, la madre superiora mi ha proposto di insegnare in una prima, cosa ne pensi?

-I patti non erano questi, lo sai che mamma ti aspetta…

-Ma papà…

-Ho capito Carmela, vuoi rimanere a Firenze…

Quella ragazzina di tredici anni ero io, ho continuato a vivere a Firenze grazie ad un padre straordinario che aveva capito tutto prima ancora che io parlassi……

Alberi: cipresso

La cipressa col fiocco – di Tina Conti

L’edificio era bello, grande, progettato da un giovane e illuminato architetto

Nel realizzarlo con lavori in economia  erano stati semplificati alcuni dettagli, ma risultava gradevole e con scelte  pensate e adeguate. Per me era un vero eden, un grande giardino, alberi da frutto e un contesto alla mia misura. Tutti contribuivano alla buona funzionalità, costruendo arredi, sistemando le  piante, collaborando  per il benessere delle  persone  che vivevano in quei locali. Io  che non avrei mai trovato una situazione uguale, dicevo che mai me ne sarei andata.

E invece dopo ventidue anni, ho accettato il richiamo di una nuova situazione.

Non ero più tornata nella mia scuola del cuore. Poi, il numero cinque dei miei nipoti non ha trovato posto  nei locali accanto  al nido che aveva frequentato ed è stato accolto  proprio lì.

Ero emozionata quando sono entrata per riprenderlo:  uno dei primi giorni guardavo  in giro per ritrovare quei richiami che mi avrebbero riacceso ricordi, emozioni, pensieri.

Due colleghe mi sono venute  con affetto vicino, mascherate anche loro, ma con dei fiori di papavero sulla visiera, per sembrare  più leggere.

Del mio gruppo storico  non c’è più nessuno, ma quello che ho potuto osservare all’esterno mi ha riportato a bei giorni, intensi e pieni di cose fatte, pensate, sognate.

Abbiamo fatto una scuola viva e appassionata, sempre curiosa e disposta a ricercare, conoscere, imparare.

E cosa c’entra con la cipressa? E pensare che non la vedevo nel giardino anche se con gli occhi l’avevo cercata. Per forza!, ora era enorme.

Era arrivata  dal bosco  di Villamagna  una mattina vicino a Natale, regalo di una mamma che diradando una parte del suo terreno ,l’aveva invasata  per essere addobbata per le feste e poi piantata, nel giardino nella  parte più spoglia, vicino all’edificio.

Quanta gioia ha dato quel regalo, è cresciuta in fretta, forte e vigorosa, con rami robusti che toccavano terra, folti che dentro ci si nascondeva e mimetizzava perfettamente.

Ma , non tutti erano disposti a correre rischi, perché permettere ai bambini di salire su quell’albero?

I bambini correvano veloci per prendere le postazioni migliori, rimanevano rintanati tutto il tempo che potevano. Inventavano migliaia di giochi, progettavano avventure per i giorni a venire, raccontavano, cantavano, pensavano.

Era un posto magico, fantastico, unico, che però  poteva essere capito se si erano provate e cercate quelle emozioni.

Per farla breve, si decise di mettere un limite all’altezza che i bambini avrebbero potuto raggiungere  ponendo un segnale vistoso e chiaro: un fiocco rosso sul ramo, stop ,cosi tutti gli adulti si sarebbero tranquillizzati.

Non ricordo che ci sia stato un bambino che si sia fatto del male giocando su quell’albero. Ora, i rami bassi sono stati tagliati, l’albero è imponente ma, io quasi non mi ero accorta che c’era sempre. All’altezza dei bambini c’è un forte tronco che invita a guardare all’insù 

Non è più  l’amico dei giochi, è un vecchio signore, severo e profumato che ospita colonie di passerotti e pettirossi che si rincorrono  allegri.