Una pagina dal passato

L’11 maggio 2017 avevo pubblicato questa pagina. Qualcuno la ricorda?

Le mani della madre

Stefania Bonanni

Furono recise di colpo quelle radici. Quei rami rampicanti che dalle mani di mia madre, invisibili, salivano e stringevano, tenendo insieme quello che forse insieme non ci sarebbe stato. Erano rami di una pianta semplice. Poteva essere edera. Non era stata piantata ad abbellire un giardino. C’era e basta. E, forse di notte, cresceva non coltivata. E i rami si allungavano, si infilavano nelle fessure, salivano su per i muri di mattoni, ricoprivano il tronco di alberi altrimenti secchi, che si coprivano di foglie di altri.

L’edera è capace di miracoli. E’ tenace, sembra morire, perde le foglie, poi si scopre vivace, di nuovo ricca di vigore. E ha anche insospettabili radici, che non si sa mai fino sotto a cosa arrivino, dove hanno origine o forse fine. Si rischia sempre, cercando di togliere l’edera, di demolire qualche muretto o di fare una buca nell’asfalto. Nascono così, in silenzio, invisibili e sconosciute.  Come ragnatele, come succedeva a Spider Man, dalle mani di mia madre uscivano fili invisibili che intrappolavano, senza scampo.

Non è vero che si sono recisi. Sono rispuntati a grappoli fitti, sono usciti dalle braccia, dalla gambe, dalla schiena, dalla pancia, dalla penna, dalla testa. Sono ricoperta d’edera, di micelio, di insetti che lasciano polline, di bocci di fiori che forse sbocceranno. I semi sono stati gettati dalle mani di mia madre.

Valentina Tognelli

Sono quelle che adesso ti coccolano dalla mia pancia, che ti cullano e ti accarezzano, quelle mani da cui spero ti arrivi amore e pace, che accolgono e amano.

Sento le mani calde e pulite della mia nonna, mentre mi accarezzano il viso e con lo sguardo mi parlava, mi diceva che andava bene così, che questa è la vita. Quelle mani che furono il suo saluto, il suo addio per me e queste mani che ti danno il benvenuto oggi. Benvenuta, amore mio.

Rossella Gallori

Non sapeva granché di quella religione, lei, e   confondeva benedizioni, credenze, un prima e un dopo del quale le importava poco….Ne aveva due di religioni, in realtà: una di sangue e una imposta e mal proposta, con un risultato sbilenco, a volte quasi blasfemo.

Lo diceva spesso a sua figlia: “fammi chiudere il cerchio, fammi finire dove ho iniziato” E fu proprio così, alla fine  la portò lì, sua figlia, alla Casa di Riposo della Sinagoga e furono dodici mesi interminabili, pesanti, fatti di sabati immobili e di domeniche senza messa.

Tutto poi accadde all’improvviso, previsto e tagliente un giovedì di ottobre, piovoso allagante, la videro fuggire via dal negozio,  correre con il grembiule verde, senza ombrello, il volto bagnato dalla pioggia. ….Quando il rabbino le disse che sì, stava meglio, ma che non avrebbe potuto  ancora vederla, quella figlia  capì subito, per quello strano intuito che si chiama amore….

“Avete trovato il suo lenzuolo?” chiese soltanto

“Sì certamente” fu risposto.

Era già stata “incartata”, quando la vide profumata e chiusa, posta su un fianco, nuda dentro.

Le balenò un’idea, sua madre voleva morire con la fede al dito, contravvenendo alle regole.

Chiese di rimanere un attimo sola con lei. Aprì il tragico vestito. Trovò le mani di sua madre, bianche, morbide,  giovani, ci nascose gli anelli e le baciò. Chiuse il drappo e la salutò. E fu per sempre.

Roberto Zatini

Aveva le mani ruvide mia mamma. Farsi lavare il collo e le orecchie da lei era un’impresa che ti iniziava alla vita: quando l’avevi superata eri pronto per andare oltre ogni ostacolo.

Dovevi resistere al bruciore del sapone negli occhi e quello negli orecchi dopo che erano stati frugati in ogni recesso accessibile dal suo indice impietoso, con il quale, pensavo, avrebbe potuto arrivare al cervello, nel tentativo estremo di farci radicare certe sue regole inamovibili.

Aveva le mani operose la mia mamma, che non si fermavano mai, specialmente quando riusciva ad afferrarmi: “Io ti ho fatto, io ti sfò” questo era l’inizio dell’intervento di rieducazione: poi la sinistra bloccava il collo, la destra strofinava quello che rimaneva scoperto.

Una volta che avevo cavalcato a pelo un verro leccese del nonno, mi aveva fatto un trattamento speciale, con ammollo nel ranno caldo di cenere e successiva strigliatura con un bruschino di saggina.

Le mani della mia mamma non le posso dimenticare.

Aldo Bombaci

Mani morbide, sicure, rassicuranti, accoglienti, queste sono le mani delle madri. Le mani di mia madre avevano quelle caratteristiche pur essendo piccole, era sua esile figura a proporle. Furono mani maestre nel guidarmi, nei primi passi, e nello scrivere numeri, parole, il primo pensierino della letterina per il babbo da mettere sotto il piatto come sorpresa.

Mani educatrici, mani che ti imboccano, mani che ti danno la vita, mani senza più vita, gelide, appoggiate sul grembo una sopra l’altra. Mani nella memoria.

Carla Faggi

Sapeva fare tutto mia madre. Aveva mani magiche e una volontà di ferro. Non esisteva una cosa che non sapesse fare  perché comunque avrebbe provato a farlo e ci sarebbe riuscita.

Cuciva abiti per sé, per me e mi ha insegnato a farlo. Lavorava a uncinetto. Ha fatto dei capolavori che ancora ho: tende, coperte, tovaglie. Nella mia camera tengo appesi due quadri fatti da lei a tombolo.  Sono bellissimi.

Sapeva fare tutto, ma faceva anche tutto.

Imbiancava le pareti. Tutte bianche. Ovviamente poi diventavano coloratissime perché ci appendevamo tutte le sue opere.

C’era da cambiare una serratura ad una porta? Ci provava e quasi sempre ci riusciva.

Diceva sempre: Se lo fanno gli altri posso farlo pure io, o almeno ci posso provare!”

La ringrazio di essere stata mia madre.

Elisabetta Brunelleschi

Uscita dalla vaschetta dove volentieri  sguazzava durante il bagnetto tu la prendevi e l’avvolgevi nel grande telo bianco. Poi di corsa, stringendola forte per non farle prendere freddo, la portavi in camera, la mettevi sul letto e iniziavi ad asciugarla e vestirla. Tutte le mani erano lì in quell’avvolgere un corpo tenero dentro un telo caldo e morbido. Durava tutto pochi attimi, ma erano infiniti. Poi tornavano gli abiti a coprire le fresche membra di una bambina piccola. E le mani andavano…..

A giugno era già molto caldo. L’unica stanza fresca era la camera da letto dei genitori. Un’ampia stanza in penombra con un grande specchio rettangolare appeso alla parete. Lì c’erano le vestizioni, le prove degli abiti nuovi, i riposi e i sonnellini. Quel giorno, sudata per i giochi nel cortile, ti chiamarono per provare il vestito nuovo. Ma eri già insofferente all’idea. Quindi, quando dovesti stare ferma così sudata e appiccicosa, con quel cencio che ancora non capivi cosa fosse, iniziasti a muoverti. Ed ecco che due mani dure e possenti ti misero ferma. Ti tenevano le braccia, ti obbligavano le spalle. Perché si doveva prendere le misure esatte, gli orli dovevano essere precisi. Ma quel vestito pungeva e le mani te lo tenevano stretto e vicino. Mentre il sudore colava due mani ruvide e troppo grandi e cattive ti stringevano e ti sentivi come in una morsa.

Germana Fantini

Negli ultimi tempi le mani di mia madre erano diventate scarne e pallide come il suo volto. Mani ferme, silenziose, mani che hanno lavorato tanto e che hanno amato tanto Ricordo molto bene le mani di mia madre, il colore, la morbidezza…..per anni le ho accarezzate e incremate sperando che il mio amore per lei, attraverso le mani, potesse comunicarle che non era sola, in quella sua malattia che fa esplodere la solitudine.

Simone Bellini

Trovami quando mi perdo, stringimi per darmi forza, accarezzami per tranquillizzarmi, schiaffeggiami se mi nego, afferrami se cado, se tremo riscaldami con le tue mani e se si stancheranno le stringerò per darti forza, le accarezzerò per ringraziarti, le afferrerò per non perderti, le scalderò nel freddo dei tuoi ultimi giorni.

 Mimma Caravaggi

Le ricordo piccole, un po’ tozze, rugose, con le unghie non curate, ma che sapevano fare di tutto, soprattutto scrivere, ma anche accarezzare dolcemente dopo una piccola ferita o un “cascatone”. Le usava per dipingere, suonare vari strumenti, dal banjo al piano alla fisarmonica e l’armonica. Penso che le mani di mamma possano fare miracoli durante tutta la strada che si fa insieme. Lunga, se sei fortunata! E’ un appoggio sincero, confortante e le mani possono trasmettere amore o anche rabbia. Possono essere belle, brutte, grandi, piccole, callose, lisce …ma per tutti sono un rifugio costante nell’arco di una vita.

M.Grazia Innocenti

Mani piccole e laboriose, mani che sapevano ricamare  piccoli camicini di seta per i neonati. Non ho ricordi particolari delle sue mani sul mio corpo se non le carezze che mi dava prima di andare  a letto dandomi la buonanotte.

Mi ricordo invece le mani di mio padre che, la domenica mattina, mentre mamma preparava il sugo e il pranzo, mi faceva il bagno.  Mi metteva in una tinozza ricolma d’acqua calda e io, in piedi venivo lavata con delicatezza da capo a piedi. Aveva mani lunghe e sottili che trasmettevano amore e cura. Poi, delicatamente, mi stropicciava con un asciugamano di spugna, morbido che sembrava di velluto. Quello era stato lavato e stirato dalle mani di mia mamma.

Miriam Pavi

Non erano belle le mani della madre. Per quanto fosse giovane aveva già un po’ di artrosi e le dita avevano dei piccoli nodi alle articolazioni. Anche la forma non era un granché: mani piccole, un po’ tozze, con la pelle già macchiata. Ricordo bene con gli occhi, ma ricordo meglio col cuore e con la pancia. Le mani consapevoli della loro non perfezione, usavano cautela nella carezza, oppure, altre volte, diventavano grandissime, se dovevano proteggere o trattenere. C’era poi il momento in cui diventavano stranamente agili, quando si trattava di creare un golf o un vestitino. Pochi soldi, tanto impegno e tanto amore.

Sandra Conticini

Quante cose hanno  fatto le tue mani Proprio in questo periodo me ne sto rendendo conto. Vado lì, a casa tua e trovo tutti i tuoi sottabiti di seta fatti da te, punto dopo punto. I cappelli, le vestaglie che sembrano cappotti, le camicie da notte che sembrano vestiti delle feste. Tutto fatto da te con ago e filo. Oggi ci si sogniamo queste cose, nonostante macchine da cucire ultra moderne. Mi ricordo le tue mani quando mi accarezzavano e avrei saputo riconoscerle tra mille, anche al buio, perché sentivo il calore dell’amore. Erano mani semplici, se sapevano di lavoro, spesso anche sciupate, con l’unghia del dito pollice della mano destra sempre un po’ rotta. Queste mani hanno lavorato per tanto tempo e quando non ce l’hanno fatta più è stata la fine. Ma non mi piace pensare alle tue mani degli ultimi mesi, non le riconoscevo e vederle chiuse e rattrappite mi dava un dolore così forte che non riuscivo neppure a parlarne.

Nadia Peruzzi

Mani rugose, mani fragili, mani tremolanti che si portano dietro tutta una vita.

Mani che hanno accarezzato e accudito, accompagnato, protetto. Mani che, talvolta, hanno tirato qualche scappellotto. Mani un tempo sicure e forti, generose e volitive, come il carattere che ti ha contraddistinto. Mani che a volte hanno espresso distanze e espresso severità accompagnando lo sguardo e l’espressione.

Adesso a stringerle, trasmettono il tempo che se ne sta andando, più di quello che anticipa e racconta di promesse e orizzonti futuri. Mani vissute e profumate di presente che sa di vita che scorre e che non cede  il passo, anche se la stanchezza sempre più spesso prende il sopravvento.

Tina Conti

Mani indaffarate, capaci, sempre attive.

Di misura media, belle, ma con i segni dei “mestieri”, unghie corte, screpolate in inverno, colorate dal contatto con i frutti e gli ortaggi in estate. Mani che ti sorreggevano, aiutavano, ma non abituate alle smancerie e alle carezze. Solo con i nipoti le vedevo piene di dolcezza. Negli ultimi giorni della sua breve ma feroce malattia,  ho visto mio fratello Walter, che le ha dedicato tanto del suo tempo e amore, mentre le accarezzava le mani  dicendo che erano state tanto importanti e attive e ora erano diventate belle, abbronzate e lisce.  Le carezzava piano, guardandola negli occhi e consolandola.

Vedere un uomo così capace di esprimere vicinanza e amore alla propria madre mi colpì allora e mi fa capire oggi quanto forte è il senso di appartenenza alla famiglia, un sentimento che rimane profondamente vivo tra noi fratelli.

La via d’uscita

Labirinto – di Vanna Bigazzi

Ogni Labirinto ha la via d’uscita ma non sempre si riesce a trovarla.

Nel Labirinto i sentieri si biforcano continuamente dando la possibilità di infinite scelte. Ogni scelta, a sua volta, implica ulteriori ramificazioni. Ogni Labirinto reale richiama necessariamente un Labirinto simbolico di innumerevoli possibilità, di situazioni composte. Tuttavia il Labirinto, nella sua ripetitività, non appare come realtà dinamica ma come realtà congelata, quindi possibilità di scelta all’interno di una fissità: prerogative della dinamica del pensiero nei limiti di una personalità isolata (“Cent’anni di solitudine”). Questo è un dramma dell’uomo moderno. Nel Labirinto possono verificarsi intrecci pirotecnici di storie delimitate da uno spazio circoscritto dove il perseguimento di un progetto trova blocchi ed ostacoli e resta intrappolato in un circuito inesorabile, tutto ciò potrebbe rappresentare la simbologia dell’uomo di oggi che rimane prigioniero della sua medesima dinamicità. La letteratura postmoderna che fa suoi i concetti di circolarità attorno ad un medesimo nucleo pur con la commistione di stili e linguaggi, percorre una traccia orizzontale ed in questa si esaurisce, ignorando la verticalità del pensiero e descrivendo l’uomo di oggi limitato nelle sue infinite possibilità.

Resistere

Il cactus immortale – di Anna Meli

“Nonna, nonna è sceso il vaso di una piantina grassa!…vieni vieni!”

“Ma come sceso?” 

“Vieni, vieni veloce!”

            Mi precipito per vedere cosa è successo e mi rendo conto che il vaso “ sceso” è caduto disotto al muretto spinto da un piedino irrequieto.

“Mai fermo eh!….che disastro!

            Mi chino per raccogliere il tutto, un po’ arrabbiata. Poi alzando gli occhi incontro i suoi, grandi scuri, lucidi, dispiaciuti e lì mi sciolgo.

      “ Pazienza dai, non piangere. La piantina non si è rovinata, vuol dire che mi aiuterai a rimetterla

         in un nuovo vasetto”

      “ Siiii! Così ci divertiamo, nonna guarda siamo fortunati, non punge nemmeno e sarà facile!”

            Così, ci procuriamo il necessario e procediamo al rinvasamento, ma nel fare questa operazione ci accorgiamo che alla base della pianta rotonda come un piccolo mondo, ce n’è un’altra piccola, piccola, piccola, che ciondola quasi staccata.

“Nonna come si fa, dobbiamo salvare anche il piccolino!”

“ Certo tesoro, se cerchi nello stanzino ci deve essere un vasino che sembra fatto apposta!”

“ Trovato!”

            Insieme abbiamo affondato le mani nel sacco del terriccio e abbiamo piantato i due cactus sporcandoci ed è stato bello vedere quelle manine grassocce spingere con impegno e assicurarsi che tutto fosse fatto come si doveva.

“Nonna, il cactus piccolo me lo dai a me vero?”

“Sì, sì  ma dovrai averne cura e crescerà con te.”

            E così è stato, anche se ci sono state varie interruzioni. Infatti, un merlo dispettoso andava a cercare lombrichi nel suo terriccio e, becca qua becca là, riusciva sempre a sbarbarlo. Era sempre lo stesso merlo che aveva una piuma bianca su di un’ala.

            Il piccolo povero cactus non ripiantato più volte non riusciva a decollare. Un giorno rientrando a casa, l’ho visto nella ghiaia del giardino con le esile radici allungate, sembrava una piccola medusa verde: a due passi di distanza la tartaruga osservava con aria sorniona pensando forse ad un bocconcino insolito. L’ho presa e rinfrescata, poi nel primo pomeriggio io e il mio nipotino l’abbiamo ripiantata per l’ennesima volta e lui a pensato bene di proteggerla mettendoci intorno dei legnetti a mo’ di steccato.

            Da quel momento le cose sono andate meglio. Il cactus è cresciuto, si è fatto rotondo e ciccioso, sembra un piccolo mondo diviso in paralleli su i quali spuntano meravigliosi fiori: stelle bianche che durano lo spazio di un giorno.

            Abbiamo da tempo tolto i legnetti. Il merlo dalla piuma bianca non l’abbiamo più visto. Ora il cactus cresce bene, senza paura  e insieme a lui anche il mio nipotino, vite di diversa natura bisognose di cure amorose per crescere e fortificarsi.

Frutta secca

Colori di Natale – di Cecilia Trinci

Per tutto il mese di  dicembre, negli ultimi anni e quasi per attirarci, la loro casa sembrava assomigliare alla casetta di Hansel e Gretel e si riempiva di soffi di vainiglia e zucchero a velo, con sottofondo di  mele, arance e canditi. La cucina  si apriva su cesti di limoni, ciambelloni che cuocevano in forno vaporizzando odor di burro fuso e cannella.  Su tavoli e tavolini del soggiorno sacchetti di biscottini profumati, mandarini di varie qualità, pandori e panettoni pronti ad essere tagliati e torroni morbidi e lunghi, ricoperti di cioccolato e cestini pieni di torroncini calabresi rivestiti di carta colorata argentata. Guardarli faceva Natale.

Ma la cosa che più di tutto in me accendeva la sensazione della festa era la frutta secca. Senza nocciole, mandorle, noci, prugne, albicocche e fichi secchi, ben vestite nei cestini con tanto di attrezzatura per schiacciare e romper gusci non poteva essere Natale.

Qualche addobbo c’era, ma credo di non ricordare quali fossero. Se c’erano lucine qua e là o se la luce soffusa era sempre la stessa, quella del suo grande acquario dove nuotavano pesciolini tropicali colorati che già da solo creava calore intorno.  Attirava lo sguardo con le piante che fluttuavano, con i riflessi sull’acqua che gorgogliava per pulirsi dalle impurità e che ricordava in lontananza il rumore del mare, come una conchiglia messa all’orecchio. Che delusione inaccettabile fu sapere, già da piccola, che quel rumore nella grande conchiglia non era l’oceano prigioniero.

Tutto quel ben di Dio saziava solo a vederlo e se con le parole si faceva notare l’esagerazione e l’abbondanza, dentro, in un punto nascosto  si provava il piacere della festa, la promessa che il giorno di Natale e i giorni seguenti avremmo avuto occasione e pretesto per ritrovarci, per mangiare, per giocare  a carte: un pokerino amichevole o un Mercante in fiera. Ridendo, ricordando e…. masticando il blu e l’arancio, il marrone e il giallo, il bianco e il cioccolato.

Forse il vero nostro “pranzo di Natale” era su quel tavolino verde da gioco, sbucciando mandarini, assaggiando un torroncino, masticando un candito, una prugna, sgusciando una noce, litigandosi bonariamente lo schiaccianoci che, chissà perché, è sempre unico e non ne esistono in serviti da sei, come le tazze, convinti che il suo ripetersi non sarebbe mai finito.