Il “tipo al bar” – di Stefania Bonanni

Foto di Arek Socha da Pixabay
Ci sono fatti che non sono storie, Ci sono bivi che non si vedevano, dal piano stradale. Ci sono decisioni che non si sono prese, solo per non essersi accorti che non decidere nulla, era imboccare una strada. Ci sono pensieri diversi, nel ricordo. Sembrano teneri, c’è benevolenza e tenerezza, nel ripensamento, anche se in un attimo tornano a galla prepotenti i sentimenti di allora. Ed insieme, la possibilità che si rifarebbero le stesse cose, che non serve a cambiare, il passare degli anni. Che non serve allontanarsi, per vedere meglio. E’ cambiato il giudizio, più amorevole verso i comportamenti tenuti, più tollerante verso le debolezze, verso le vanità, verso le occasioni perse per mancanza di parole, verso la consapevolezza di non conoscere la tenuta e la portata di giovani cuori e giovani nervi. Allora sembrava una strada costruire una fortificazione, nascondersi dietro, sepolti ma immuni da pericoli sconosciuti, che potevano arrivare dappertutto. Poi, è stato il lavoro della vita, sgretolare la muraglia. Torna a galla un episodio piccolo piccolo, per la tenerezza per la me di allora, che forse per la prima volta provo a raccontare.
Àvevo terminato le superiori in un fuoco d’artificio di voti strabilianti, cone quando per San Giovanni gli ultimi tre scoppi fanno più rumore dei precedenti, per far capire che finisce lo spettacolo, e forse per farsi ricordare. Sapevo poco di tutto, ed anche di me. Sapevo che le cose che mi sarebbe piaciuto studiare non erano quelle, sapevo che studiare mi era facile, capivo che avrei potuto continuare, con soddisfazione e buoni risultati, forse. Non fui incoraggiata. Ero una donna, avevo gia’ un diploma, non era poco. Sul piatto della bilancia peso’ l’atmosfera generale che indicava nell’indipendenza economica la strada per le donne, e l’ostinazione con la quale mi rifiutavo di chiedere soldi in casa, da sempre. Non sono cambiata: parlare di soldi mi è sempre sembrato di pessimo gusto, cosa volgare: se soldi ci sono, non serve parlarne, se non ci sono, parlarne aumenta il problema. Allora cercai un lavoro, e , incredibile da pensare adesso, lo trovai subito.
Fui assunta come ragioniera nell’ufficio contabilita’ di quello che all’epoca era uno degli alberghi di lusso più alla moda della città. I miei amici rivoluzionari lo videro come l’ingresso nel “sistema”. A me, per molto tempo, sembro’ di essere stata sparata da un cannone, su un pianeta sconosciuto. Il lavoro per il quale ero stata assunta mi si rivelo’ completamente alieno. Eppure ero la più brava, come era possibile non sapessi nulla. Altrettanto stupefacente fu capire che se lo aspettavano: era normale che i nuovi assunti partissero dal riordino dell’archivio e dopo un percorso fatto di tantissimi scalini, piano piano arrivassero alla contabilità. In un ufficio dove era stato il percorso di tutti, essere l’ultimo arrivato voleva dire avere molti superiori, si innescavano meccanismi mai considerati. Non fu facile e non c’erano scuole che insegnavano a stare al posto che spettava, e che non si sapeva quale fosse.
L’ufficio era in un cortile interno, ma per andare in direzione, per entrare ed uscire, si atttraversavano saloni splendenti di lampadari di cristallo che riflettevano le mille gocce di luce su centinaia di specchi. La mattina quando arrivavo spesso erano in corso le pulizie che avrebbero eliminato i resti dei ricevimenti, dei balli, che erano proseguiti fino alle prime ore del giorno. Mi fu chiaro da subito che non era un unico mondo, quello degli esseri umani. C’era chi lavorava, e chi godeva il frutto del lavoro degli altri, a pagamento. C’erano ragazze come me che ballavano la notte, a volte con uomini potenti, e vecchi. C’erano donne con vestiti da sera luccicanti, irriconoscibili quando cambiavano abiti. C’erano cibi e vini che ne’ io, ne’ i miei colleghi avremmo forse mai comprato. Un mondo che mi sembro’ finto e pericoloso. Mi sembrava di essere Cappuccetto Rosso, nel bosco. Avevo paura di non saper riconoscere il lupo. Per tutto questo, ed anche per timidezza, feci mio un comportamento distaccato e non incline a dare confidenza. Camminavo diritta come un fuso, non mi fermavo a parlare.
Un giorno, mi sentii chiamare, era un ragazzo seduto su una delle poltrone della hall. Un cliente, ovviamente, “Signorina, scusi, possiamo scambiare due parole? potremmo avere la stessa eta’, ad occhio e croce”. Ricordo benissimo che risposi di getto, come per reagire ad un morso, inopportuna e stizzita: “Guardi che io qui lavoro, non intrattengo nessuno”, girai sui tacchi e me ne andai e mi sentii i suoi occhi addosso, per tutto il corridoio.
Il giorno dopo, il ragazzo del bar, mi chiamo’ in ufficio. Disse : “Guarda che qui c’è quel tipo di ieri, che dice non se ne andrà finché non ti vede passare”. E non passai, né quel giorno, né gli altri due o tre che seguirono nei quali si ripeté la stessa telefonata dal bar. A fine settimana pensavo se ne fosse andato, i clienti rimanevano pochi giorni, di solito. Il venerdì me lo trovai davanti, nel corridoio. Mi disse “Faccio un concerto stasera, ho una paura tremenda, non sono ancora sicuro che ce la faro’. Ho biglietti, vieni a sentirmi. Canto cose che ho scritto io, poi mi dirai..” “Non mi fanno uscire, la sera. Verrò la prossima volta, quando sarai famoso. Auguri, comunque”
Il lunedì mi chiamo’ il barman. Disse :”Il tipo dell’altro giorno ti ha lasciato un biglietto. E’ partito ieri.”
“E senza dir parole nei miei sogni ti portero’…” Francesco.


