Ricordo del Presepe

Ricordo del Presepe – di Anna Meli

            13 Dicembre, Santa Lucia “Il giorno più corto che ci sia”  diceva la mia mamma, anche se non corrisponde certamente alla realtà. Sono le 16,30 e il sole sta tramontando all’orizzonte fra pennellate rosa intenso e strisce violacee di nuvole vaganti. L’aria si è fatta fredda e pungente ed è piacevole starsene al calduccio di casa.

Sono sola e, per avere compagnia e distrarmi un po’, prendo la scatola delle foto e le guardo: alcune distrattamente, altre con interesse maggiore. Così rivedo le nonne mai conosciute con i loro abiti e acconciature inizi ‘900 e dei nonni in pose solenni e studiate. Mi colpisce in particolare nonno Virgilio in divisa militare, dritto e impettito; è l’unico nonno che ho avuto la fortuna di conoscere e che ricordo con tenerezza.

            Vedo ancora altre foto e i ricordi scorrono; fiumi di immagini vive dentro di me finché non mi capita fra le mani una foto della V elementare: 18 ragazzi ( 9 femmine e 9 maschi) seduti a due a due nei banchi di allora, composti e sorridenti con alle spalle la maestra che li osserva con dolcezza e ricordo….

            Alla scuola elementare di Croce esistevano nell’anno 58 solo 4 aule a disposizione delle prime 4 classi, la V doveva spostarsi alla Fonte in una ambiente costituito da 3 stanze, la prima delle quali era la nostra aula. Andavamo da soli e a piedi, divertendoci per la strada (passavano pochissime macchine) e ci sentivamo già grandi. Allora, fin dai primi giorni di Novembre ci si preparava per il Natale e quell’anno, non potendo condividere il presepe con le altre classi, in quanto distanti, la maestra Marta, ci propose di costruire il nostro presepe col legno compensato.          Iniziammo così ad andare dai falegnami del vicinato (ce n’erano 2) a cercare ritagli di legno da portare a scuola; poi col traforo lavorandoci un po’ alla volta vennero fuori i personaggi da dipingere con gli acquerelli. In quei momenti il silenzio era assoluto e ognuno si impegnava a dare il meglio di sé. A casa portavamo pezzetti di compensato con i quali costruire casette e ponticelli e ricordo che Carlo fece un castello bellissimo.

            Prima delle vacanze di Natale tutto era pronto. In fondo all’aula dove c’era più spazio fu allestito il presepe, il nostro presepe. Orgogliosi del lavoro fatto, in semicerchio e per mano insieme alla nostra maestra, cantammo le canzoni di Natale e recitammo alternandoci le strofe della Notte Santa di cui ricordo “e il campanile scocca lentamente le sei…sette ecc….”

            Dopo ordinatamente per mano due a due raggiungemmo la scuola di Croce per festeggiare insieme alle altre classi invitandole a vedere il nostro presepe.

Guardo fuori della finestra e mi accorgo che si è fatto buio. Nella piazza davanti alla mia casa l’abete di Natale è acceso e brilla di mille luci intermittenti. Mi alzo lentamente un po’ indolenzita per riporre la scatola dei ricordi. E’ stato bello ritrovarsi.

Finisce il 2020

Fine di un anno storico – di Cecilia Trinci

Sta finendo.

Abbiamo atteso da molto questa fine perché è stato un anno particolarmente lungo, con il suo dolore. Abbiamo contato i giorni. I giorni di prigione, di paura, di ansia, di attesa, di terrore…..poi piano piano ci siamo arrivati.

Non è detto che cambi molto dal 2021, ma ci speriamo.

Come ogni anno in questa fine di dicembre la speranza prende il sopravvento e guardando il cielo di queste notti buie, cerchiamo una stella nuova, che possa guidarci fuori dal guado. La troveremo? Proviamoci!

Buon anno a tutti!

Buon anno Matite!

Albero di Natale

Spelacchio – di Gabriella Crisafulli

Era nascosto in alto lungo il viale del Passato, angolo piazza del Dimenticatoio.

Si era rifugiato tra polvere, fantasmi e sogni perduti.

Era da tanto che si trovava là e non c’era nessuno che lo andasse a cercare.

C’era voluto del tempo per riesumarlo e dargli nuova vita: scale gigantesche, trasporti speciali e mille scatoloni alla rinfusa.

Appena tirato fuori non ce la faceva a reggersi in piedi e qualcuno proponeva interventi radicali.

Ma poi, alla meno peggio, era riuscito a stare in equilibrio ed a protendere le braccia verso i suoi spettatori.

Sembrava messo male davvero: pencolava da tutte le parti e appariva proprio sgraziato.

Ma mentre veniva aperta scatola dopo scatola c’era una piccola Trilli che creava uno scenario magico di palle, nastri e strisce che con i loro colori, lustrini, ori e argenti avevano ricreato uno spettacolo incantato.

E così Spelacchio era tornato nella sua casa a far vibrare l’aria di festa che sembrava perduta per sempre ritornando ad occupare il suo posto da albero di Natale.   

Magia di Natale

La magia del Natale – di Stefania Bonanni

La magia di Natale è la riga che traccia, in quell’anno. Si pensa al Natale da molto prima.  A volte si programmano cose da fare prima, per levarsi il pensiero, essere sereni per Natale. E si pensa alla casa, che ci sia un posto per il presepio, per l’albero, che si possa stare comodi e rallegrarsi, quando sarà Natale. E nei ricordi, sfilano Natali dei quali non si rammenta certo il cibo, ma di sicuro viene in mente com’era l’albero, e chi c’era a tavola. E c’è stato il primo Natale senza un nonno conosciuto per poco tempo. Un nonno nato alla fine del 1800, : due secoli fa! Un nonno mandato a far la guerra a 15 anni, ricordo solo una filastrocca che diceva mentre ci faceva frugare nelle tasche del suo pastrano: “Natale Natalino. Mi contento di pochino: mille lire e un panfortino” e c’era il dolcetto, un pezzettino di panforte incartato di bianco e argento, che si poteva mangiare tutto, ognuno il suo. E poi c’è stato il primo Natale senza la nonna, e poi quel Natale che a tavola erano spariti tutti i nonni, che erano babbi e mamme,  come per magia: l’anno prima erano quattro, malaticci ma presenti, il Natale dopo i più  vecchi a tavola io e Paolino. Poi c’è stato il più bel Natale della mia vita. Quella notte della vigilia che aspettai mezzanotte con un ranocchio tra le braccia da un’oretta, nella maternità di Ponte a Niccheri ancora non inaugurata, con noi primi clienti. E capire il dono, la vita, il Natale, dall’incontro con quegli occhi neri come la notte e brillanti come l’amore, che ormai conosco bene, si sono riprodotti e riprodotti, per fortuna. Poi abbiamo messo altre piccole sedie da bambini, intorno alla tavola di Natale. Ed al centro, in un vaso a protezione, ma visibile perfettamente, la ballerina di tulle e bisquit che mi raccontarono di aver comprato per il mio primo Natale. Ha perso un po’ d’argento, non mi sembrava avesse i capelli dipinti di bianco, ha il tulle un po’ sgualcito, ma la riporro’ con cura, e farò tutto quello che posso perché sia sulla nostra tavola ancora e ancora, perlomeno finché anche la Bea ricorderà cosa rappresenta: un regalo per me , cercato, pensato, dalla mia mamma.

Profumo di Natale

Profumo di albero di Natale – di Lorenzo Salsi

L’Odore dell’albero di Natale
Non si sente quasi più come se anche loro avessero deciso di essere una presenza anonima che serve unicamente da sostegno per palline, fiocchetti, paccheti e lucine; mi riferisco all’odore sprigionato dall’albero di Natale. E’ un odore magnifico! Ricordo di essere rimasto a lungo in salotto a casa mia ad annusare quel profumo soave che rami e foglie emanavano fortemente a causa, credo, del riscaldamento casalingo. Quando l’albero era addobbato o “fatto” come si diceva a casa mia, passavo a posta dal salotto per bearmi del profumo dell’albero.
In tutta onestà non mi è mai interessato addobbare l’albero, forse facevo come le volpe e l’uva, infatti ero il “passatore” ufficiale di casa, poiché le mani che organizzavano l’apparecchiatura della pianta erano quelle di mia sorella ed io ero il ponte umano dalla tavola, dove venivano disposti gli ammennicoli tutti scartati in precedenza dalla loro carta velina di protezione, alle mani sorellesche le quali, con fare disinvolto, attaccavano i ninnoli su su per i rami fino alla cima, e guai a chiunque si fosse permesso di dare indicazioni circa posizioni o tipi di addobbo da inserire.
La sorella aveva già tutto in mente.
Alcuni giorni prima del Santo Natale si cominciava con la scelta dell’albero”Né troppo grande, né troppo piccolo, ramoso!” diceva mio padre “ e con il pane così dopo la festa si pianta al Bandino”.
Il Bandino era ed è una zona molto vicina a dove abitavo, però in piena campagna, dove stava un cugino della mamma, lo Zio Ugo, che faceva il contadino e che aveva un campo sterminato per me allora, dove ogni anno o quasi veniva piantato l’albero di casa Salsi passate le feste. Lo Zio Ugo ogni anno coltivava il vecchio albero così bene che non si poteva riusarlo tanto era diventato grande ed esagerato per le misure di casa mia, ed ora che ci penso che quel punto dove si mettevano gli alberi potrebbe essere diventato una foresta di conifere.
Dopo la scelta c’era da portarlo a casa, tutto legato ed imbustato con un vecchio lenzuolo bianco che aveva allora solo il compito di avvolgere l’albero; dal fioraio Giovanni a casa mia c’erano sì e no 20 metri, ma incombeva l’attraversamento del Viale Giannotti, quasi un guado. A me toccava la punta, leggera, al babbo il vaso o il pane e si partiva e con questa mummia arrivavamo a casa, dove la sorella aveva provveduto a trovare uno sgabello dove poter piazzare l’albero e tenerlo
rialzato da terra così da poter mettere i regali sotto.
Un volta piazzato c’era da girarlo e rigirarlo fino a che non si trovava la parte migliore da esporre, a questo punto iniziava l’addobbo ed io vivevo nel terrore!
Dunque avevamo delle palline in vetro soffiato che erano delle opere d’arte; leggerissime, con colori sgargianti, mi ricordo bene solo di alcune, sono anni che non le vedo, la sorella avrà messo tutto in una cassetta di sicurezza pensando a quanto ci teneva. C’era un nido in vetro a cui ogni anno si cambiava il muschio per poterci sistemare gli uccellini anche loro di vetro, una palla concava fatta a spicchi di color giallo che mi ricordava un limone tagliato, degli uccellini, anche loro di vetro soffiato, che al posto delle zampe avevano delle molle inserite in delle pinze per poterli attaccare ai rami e fare in modo che dondolassero come se stessero beccando per terra, uno era un pavone di una decina di cm, un altro, mi pare, un uccello del paradiso, poi c’erano altre palle classiche ma rigorosamente in vetro e infine c’era lui, il puntale, naturalmente in vetro soffiato, punta sottilissima che rastremava verso il basso dove si incontrava con una palla concava in senso orizzontale, interno a spicchi gialli-rossi, sotto di essa una strozzatura vuota dava forma ad un tubetto di 5 / 6 cm, cosi da permettere l’alloggio al ramo principale dell’albero.
C’è solo da immaginarsela la paura che potevo avere nel toccare tutte queste cose, già due settimane prima che cominciasse questo Amba Aradam venivo fatto bersaglio di un lavaggio psicologico, più un corso di formazione “ Su come si devono prendere le palline di Natale e si devo porgere con delicatezza e grazia alla vostra sorella” , cosicchè dopo questo washing mind il mio stato d’animo era quello di un indagato per assassinio o crimini contro l’umanità, in realtà innocente ma con tutti gli indizi contro.
I miei movimenti erano lentissimi e studiatissimi per evitare scossoni, quasi si trattasse di nitroglicerina, accompagnati da larghi sorrisi di compiacimento per imbonire la “belva-sorella” sempre pronta a scattare. Quando, orbene, l’ordigno che trasportavo usciva dalle mie mani lo stomaco si allargava e il respiro si faceva regolare. Ogni volta che finivo il lavoro mi ripromettevo che l’anno dopo non avrei più fatto il Passatore, ma non accadeva mai. Ero sotto esame anche quando l’albero era da spogliare, non ce ne era per nessuno quando la sorella decideva decideva !
Un volta, finito l’addobbo all’albero , una pallina cadde a terra e naturalmente si fracassò, gelo in casa perchè il rumore fu udito da tutti, dispiacere per la palletta, ma io non c’entravo niente non la avevo agganciata, non ero neppure passato vicino, avevo testimoni a mio carico ed un alibi di ferro, non c’erano animali in casa che potevano aver toccato la pallina … dunque la Sorella aveva messo male la palla che poi era caduta … Vendetta dolce vendetta, chi di palle ferisce di palle perisce……però tutto intorno aleggiava prepotente e gagliardo il profumo di abete.

Il presepe di Como

La capannuccia sperduta – di Gabriella Crisafulli

foto di Gabriella Crisafulli

Non ricordava nulla di quella partenza.

Com’erano arrivate alla stazione? In carrozza o in automobile?

Chi le aveva accompagnate: zii, amici, nonni?

E il viaggio, com’era stato il viaggio? Ventiquattro ore in treno, da Palermo a Como, forse se le sarebbe dovute ricordare, anche se aveva solo quattro anni.

Come si erano sentite lei, sua madre e la sorellina, mentre andavano verso il nuovo mondo?

Per quanto si sforzasse non emergeva nulla dalla sua memoria se non l’odore di fuliggine che ristagnava nel vagone e il tatto del tessuto dei sedili in velluto a coste …

Non rammentava niente nemmeno dell’arrivo.

Eppure passare dal sole caldo del Golfo degli aranci alla neve che cadeva a fiocchi era una gran differenza.

Ricordava solo la stanza di una caserma che sarebbe stata cucina, pranzo e salotto della sua famiglia … e quel tavolino davanti ad un armadio di fureria su cui era poggiata una capannuccia.

Lì c’erano Maria, Giuseppe, il bambino, il bue, l’asinello e, all’ingresso, a destra una palma, a sinistra un cactus. In fondo, accanto alla greppia, un carillon che emanava un suono dolcissimo.

Questo era quello che il suo papà di 32 anni aveva preparato per accoglierle al loro arrivo nella nuova vita, lontani da sguardi indiscreti e giudizi su sua sorella.

Questo era quello che del presepe le era rimasto dentro e così, anni dopo, all’arrivo a Napoli, poco dopo la nascita della prima figlia, lei e il marito avevano acquistato le statuine monocromatiche in terracotta.

E Maria, Giuseppe, il bambino, il bue e l’asinello erano il presepe di una nuova famiglia.

Solo dopo qualche anno sarebbero arrivati i Re Magi, coloratissimi, in porcellana.

Poi il mondo si era fermato e c’erano stati gli anni del silenzio, del vuoto e del freddo.

Ma erano venute a trovarla le nipotine e avevano fatto di nuovo il presepe.

Dalla gelida assenza era ritornato nella sua casa però con qualche personaggio in più: due palme, un muro, una pecora, un cammello, un angiolino e quattro nonni.

L’angiolino era stato messo accucciato sopra il bambinello a coprirlo e proteggerlo e i quattro nonni a cavalcioni degli animali radunati attorno alla sacra famiglia.

Il gruppo si era così allargato, c’erano altri affetti, altri pensieri cresciuti a molti anni di distanza da quella capannuccia sperduta davanti ad un armadio di fureria.

Buon Natale con Francesca

Il senso di tutto – di Francesca Lemmi

Se ti chiedono qual è il senso di tutto

tu rispondi che nel mare del fluire

si naviga anche col mezzo distrutto

si naviga anche se non sai  dormire.

Se ti chiedono qual è il senso di tutto

di’ loro che al di là del bello e del brutto

il senso è una canzone stonata

una rivista iniziata

una strada asfaltata

una bella serata.

Il senso sono occhi sorpresi

panni stesi

giudizi sospesi

villaggi e paesi.

Il senso sono passi incerti

cieli coperti

consigli esperti

errori e deserti.

Il senso sono pagine bianche

gambe stanche

vecchie sedute su panche

tu che smetti di dire solo e dici anche.

Il senso sono tutte le cose e niente

è uno che si sente scemo e poi intelligente

è il rumore del phon che fa saltare la corrente

è la gioia di poter esser spesso un po’ incoerente.

E non ho capito che sto scrivendo

eh ma è normale.

E non ho capito che sto facendo

eh ma è un anno speciale.

È cibo rumore caos telefonate

è studio distrazione inverno estate.

Se ti chiedono il senso di tutto,

tu sommergili di parole,

che non capiscono e non pensano al brutto

che nel frattempo si abbronzano al sole.

E poi finisci dicendo onesta

che il senso è una risata che sa di festa

che si mischia al suono di una tempesta.

Ricordo di Natale

Natale senza lustrini – di Patrizia Fusi

foto di Sandra Conticini

Non ricordo grandi Natali scintillanti nella mia infanzia.

Gli alberi creati  secondo  quale alberello si riusciva a prendere nel bosco.

Veniva addobbato con figurine di cioccolato a forma di babbo natale, stelle, casine, con i boeri che spiccavano con il rosso scintillante, alcune palline di vetro, dei nastri argentati, tanti piccoli batufoli di cotone bianco per fare la neve. Si posizionava sul grande focolare, sempre spento, perché avevamo la stufa economica con cui si cucinava e si riscaldava la stanza.

Ricordo di aver ricevuto un presepe fatto di figurine piatte di cartone, molto brutto e triste, mi sentivo arrabbiata con quel regalo e con chi me lo aveva portato, sentivo queste persone lontane da me e dalla mia realtà, mi facevano sentire povera e diversa e che dovevo accontentarmi di quel brutto presepe.

Ricordo di un pranzo di Natale: mio babbo aveva fatto cucinare i cavolini di Bruxelles decantandoli come un cibo buonissimo.

Quando eravamo a tavola e si iniziò a mangiare i cavolini mio babbo mi chiese tutto soddisfatto se mi piacevano, gli risposi che non mi piacevano, sapevano di minestra di pane. Allora, e anche ora per me, il pranzo della festa è l’arrosto. A quei tempi in casa mia si mangiavano tante verdure e sempre al pomodoro, perché occorreva poco olio per cucinarle (liquido prezioso), erano buone e profumate ma erano il quotidiano, non il cibo della festa.  

I dolci erano pochi: panforte, ricciarelli, cavallucci.

Ricordo una Epifania più dura del solito economicamente per i miei genitori.

La mamma si ingegnò molto quell’anno per farci trovare i regali della befana, ci preparò delle calze con un po’ di carbone vero, una cipolla, aglio, mandarini, cavallucci e dei cioccolatini a forma di monete, sigarette di cioccolata, un sacchettino di mentine di zucchero di vari colori, a me  preparò un bambolotto di biscuit che era suo, che teneva nel mezzo del letto matrimoniale.

Aveva cucito bei nuovi vestitini e un piccolo corredo di lenzuolini e copertine, tutto molto carino, me lo fece trovare la mattina dell’Epifania e io lo presi contenta, ma sapevo che era il bambolotto della mamma, volevo che nessuno sapesse che era un bambolotto vecchio, doveva essere un segreto solo mio.

Quando uscii la mattina, davanti a casa  con il bambolotto in braccio e una vicina di casa carinamente mi chiese cosa mi avesse portato la Befana mi sembrò che avesse scoperto il mio segreto, risposi male e scappai via senza fargli vedere il bambolotto.

La mamma affrontava sempre le difficoltà con forza e dignità.

Oggetti di Natale: il metro

Il metro di legno della Passamaneria Toscana – di Rossella Gallori

foto di Rossella Gallori: forbici, lunette (aghi speciali) e metro

Cadevi dall’ alto del banco, secco e legnoso sui miei piedi giovani, forse anche troppo, lasciando piccoli segni arcobaleno, a volte ci ridevo a volte mi incazzavo a bestia, altre ti scansavo veloce, con un rapido scatto indietro…e poco importava se c’era la mano scherzosa di un maschio guascone all’ altezza del culo….tanto mi sarei vendicata, prima o poi…o verbalmente o fisicamente…. il nostro tra colleghi è stato sempre  un rapporto alla pari: tu mi sfiori? Io ti pizzico…

E tu eri lì, compagno color miele di castagno, rifinito in oro, ogni tanto le tue punte dondolavano, una corsa in magazzino due martellate e via, tra tessuti pesanti, frange altissime per sipari importanti, linoleum freddi come rigide colonne di plastica…sostituivi le braccia, quando non c’era il tempo di prender lo “scaleino” in un negozio tanto grande, per me che venivo da un anno di sottabiti e bottoni, con un principale che mi chiamava signorina, in un 1965 dove la cinghia dei libri era finita nella pattumiera insieme ai progetti improbabili di poesie, viaggi e studio… Tu lì non c’eri “ METRO DI LEGNO”. Il Galvagni ne aveva uno di cencio, per misurare colli maschili, vendere camice Aramis era roba da maschi.

Mi sei ripiombato, in capo, questa volta, aprendo un armadio incasinato, in un dicembre 2020 dove il presente sa poco di futuro, ho provato lo stesso calore, rivisto, in un flash,  gli stessi colori di quel magico negozio, che mi ha accolta in minigonna,  capelli lunghissimi e  tacchi  vertiginosi e mi ha salutata, con comode décolleté  con zeppa tre e qualche ciocca grigio perla…

Ma ti ho portato con me, con tre o quattro aghi dal nome di “lunette”…e tu fedele amico, con il timbro di un anno scolorito dal tempo che non si legge più, ed i ricordi nascosti in cento centimetri, si, quel ridere che non ritrovo nei miei settanta anni…e mi rivedo majorette  per pochi minuti, dietro uno scaffale, con il povero Mario, collega da sempre e vittima predestinata…  quando maliziosa gli dicevo: “ora, dico io, non ti potevi scansare,  il tuo zigomo si sarebbe salvato…no?

Ti riguardo, METRO MIO sorrido da sola e ti parlo, perché quarantun anni, non sono un giorno, un mese, sono una vita…e lì comincia un rosario  ricco di chicchi, dolci, piccanti, amari….

E quando dicevo: “scusi vado a prendere un metro, se il cliente era bonazzo (magari architetto) per nascondermi, un attimo e sganciare il secondo bottone della “vestaglietta” chi mostra vende, non si sa mai…pensavo.

E quando ne presi tre, li legai insieme e creai  un albero di Natale incollando sul tuo esile corpo magici pon pon rosso ciliegia, li fui redarguita: te lo farei pulir con la lingua questi metri, disse il collega più anziano, il metro va rispettato, bischera!!!!

E quando vanitosa e un po’ sfrontata mi ci misuravo le gambe, le mie gambe che mi avevan dato un lavoro, prima del mio poco inglese, del mio “un po’ di francese” e del mio italiano parlato discretamente, merito di una famiglia benestante, in tempi non miei, tra colleghi che dicevano:  s’eramo  e andonno…Parevo  laureata ad Harvard  a volte, con la terza commerciale fatta controvoglia.

Ma tu eri lì “ METRO MIO”  anche quando ti sbattevo, sul banco dopo un insulto velato, ma non troppo, del cliente nobile solo di cognome…

Tu eri con me quando ti presi per la testa e tagliai la pancia a due o tre balle di kapok, brandendoti come una spada, un po’ Athos e molto Rossella, verde di rabbia con gli occhi pieni di lacrime, in un magazzino freddo in via della Stufa al numero 7…ero scappata dalla porta sul retro, un primo di ottobre….l’ avevo vista entrare quella compagnuccia di scuola, con il kilt  blu ed il golfino paricollo, mi ero uno po’   nascosta, ma non troppo, i suoi genitori con il loden, biondi alti…vivi.

Esordisti così, lo ricordo bene: ahhhhh sei tu, non ti riconoscevoooo, con la divisa….lavori!!! Io faccio il liceoooooo.

Ti salutai composta, sotto gli occhi intelligenti del mio principale, che capiva senza sapere. Ma quanti “ o” aveva quel liceo? E a quanti sogni avevo rinunciato, io,  biascicai un:  No ho smesso di studiare, non mi piaceva più.

E corsi via, le chiavi del “ fondo” in tasca, le espadrillas più veloci di me…..e quel nodo nello stomaco, che a quindici anni ti prende e spesso per ritrovare  poi ad ogni ostacolo,  ma avevo te, sulla spalla, METRO MIO  e scacciavo fantasmi…tra le piume di ripieno per cuscini che mi si appiccicavano alle lacrime…spadaccina per pochi minuti il tempo di urlare a nessuno la risposta che avrei voluto dare: Io lavoro, scema, perché …perché…perché…aiuto la famiglia …hai capito stronza?

Poi tornai in negozio, mi ricomposi, mi rifeci il rigo nero sulle palpebre gonfie…..certa della mezz’ora che avrei fatto in più,  gratis, per ripesare le balle…poco mi importava, io avevo te amico mio.

Ti ho nascosto nel mio sgabugiolo con la scritta: Rossella Gallori …..e dopo 41 anni ti ho portato a casa, ti ho rubato, si, insieme a tre lunette ed alle forbici foderate per non far venir le galle…

Ladra per amore, forse si, non me ne vergogno, certi reati cadono in prescrizione ed io, METRO MIO, ho ancora tanto bisogno di te, anche se nessuno mi domanda più…..più…più…che cosa?

Gli oggetti di Natale: il bambolotto

PUPETTO il  bambolotto – di Sandra Conticini

Foto di Alexas_Fotos da Pixabay

Sandra ha portato, per la nostra riunione, il bambolotto di quando era piccola e con cui ha giocato anche sua figlia. Ora sta in casa, carico di emozioni passate, come ricordo di molti anni felici, di due generazioni di giochi, come simbolo di una maternità mai messa da parte.

Scherzando Sandra fa parlare il suo bambolotto preferito:

Eh si me lo ricordo quando la mia mamma mi portò via da quella bella festa piena di bambini con la mia carrozzina celeste. Avevo molta paura perchè non sapevo cosa mi sarebbe successo, invece capitai proprio in una bella casa, mi curavano e tutti mi adoravano. Per qualche anno mi  trattarono bene, anzi direi che mi davano anche troppo latte, era un continuo andare fuori in carrozzina, mangiare, dormire e poi si ricominciava. Ero il suo bambino plasticoso preferito. Quell’altra bambina con i capelli viola   doveva essere un po’ birbetta perchè veniva brontolata e sbatacchiata a destra e sinistra. C’era anche  un altro bambino un po’ più grande di me, senza capelli, che si vedeva in giro raramente.  Io avevo il mio bel vestitino celeste con la cuffietta e i pantaloncini di lana bianca per l’inverno, ma avevano capito che in estate mi faceva caldo e così mi fecero un vestitino estivo. La mia mamma si divertiva con me e mi faceva tante coccole. Poi gli anni  passarono e fui messo in una scatola al buio e nessuno mi  ricordava più. Finchè   arrivò un’altra bambina. Speravo  di poter trovare un’altra mammina, invece lei sembrava una principessa,  mi buttava per una discesa con un passeggino e ogni volta il mio cuoricino batteva all’impazzata finchè un giorno persi  due dita. La principessa giocava con un bambolotto che, se gli toglievi il ciuccio piangeva e io non riuscivo a dormire, ma ormai a me non pensava più nessuno. Avevo troppi nemici, oltre a CiccioBello c’erano anche Barbie e  Ken,  belli, con tanti vestiti, lei bionda e magrissima e lui alto moro e muscoloso.

Cosi fui rimesso in una scatola al buio per diverso tempo. Un giorno però la mia cara mammina  mi  ritrovò e mi mise su una mensola insieme ad altri pupazzi ed ogni tanto mi spolvera e lava i miei vestiti.

Quando la mamma  mi prende mi emoziono e vorrei tornare indietro nel tempo ma, mi accorgo che anche lei è contenta perchè mi stringe forte e, anche se sono polveroso, mi sbaciucchia come quando era piccola. Sono contento perchè, anche se a volte mi sento abbandonato, ho anch’io una vera mamma!

Sono contento e penso che è proprio la mia vera mamma!!!   

Un po’ di sorrisi dal passato in attesa dei nuovi

LE BOLLE DI SAPONE – dicembre 2015

Emanuela: Come tutte le cose che possono volare anche la bolla di sapone mi affascina perché può arrivare dove io non riesco. Il suo volo può essere breve ma comunque spensierato come lo sguardo di un bambino che la insegue.

Carla:  quindici giorni che non ci vedevamo, quante cose da dirci, ci sono anche le bolle, ma quante cose da dirci, che piacere rivederci, e ci sono anche le bolle di sapone, quanti colori, una è blu e l’altra verde, che belli i capelli di Germana! Un’altra è rossa, gialla, quanto bene voglio a Tina! Una è piccola, l’altra più grande…Tiziana è proprio una donna interessante. C’è la bolla di sapone che dura tanto e l’altra invece svanisce subito, sono proprio contenta che Emanuela sia venuta nel nostro gruppo, così la posso vedere spesso. Un’altra bolla di sapone ha tanti colori, quanta tenerezza Maria Grazia! Tante tante bolle di sapone…….

Tiziana: Leggerezza, bellezza effimera, mi riporta all’attimo. Non c’è da pensare a vedere una bolla che vola, c’è solo da gustare il momento perché è così immediata la sua fine. E tutto il corpo partecipa a gustare l’evento, gli occhi sgranati, la bocca sorridente. Quando vola una bolla è impossibile essere tristi…

M. Grazia: peccato che la bolla di sapone duri così poco. E’ un’immagine di colori che dona felicità e allegria. E’ divertente comunque poterle rompere. E’ triste comunque veder scomparire le immagini che riflettono nella loro trasparenza.

Germana:  mi riportano ai ricordi dell’infanzia. Viste con gli occhi di oggi le vedo leggere, luminose, libere, gioiose.

Tina: serve abilità. All’inizio è difficile per un bambino posare l’aria da immettere lentamente. Ai bambini piacciono…sono state le prime cose magiche della fanciullezza. Prima dell’acqua che si trasforma in ghiaccio. A volte vengono per caso a volte sono molto studiate. Ci si incanta sempre a seguirle in aria, vedere il cangiare dei colori, la trasparenza degli sfondi, la durata…si sta con il fiato sospeso, si aspetta che in un baleno spariscano….

Elisa: Bolle di cristallo da appendere all’albero di Natale d’aria. Delicate, con l’arcobaleno nel cuore e la delicatezza della pelle di un bimbo appena nato.

Le appendo col pensiero, una mi sfugge ma non cade al suolo, rompendosi in mille pezzi. Vola via verso il cielo, si riunisce alle nuvole e guarda dall’alto il mio albero immaginario. Poi esplode in mille schizzi di stelle e colora il cielo.

Laura: Come una bolla di sapone il mio sogno si è dissolto alla luce del sole. E’ esplosa in un attimo come il mio sogno di bambina.

Mimma: Un soffio leggero ti innalza leggiadra. Gli sguardi si soffermano sui tuoi colori stupendi, iridescenti alla luce artificiale della nostra allegra “soffitta nel cielo”.

Mirca: Colori dell’iride…leggerezza sbarazzina…sogni realizzati….

Monica: Respira piano, soffio lieve, lieve, la bolla si forma, diventa sempre più grande, trasparente ma colorata, verde, azzurro, rosa, giallo….sembra un miracolo che esce da una piccola cannuccia

Pat: Bolle di sapone. Trasparenza, tanti colori e poi splash

Si ricomincia: soffio, soffio non respiro, soffio, soffio  e poi splash!

Patrizia: Tanti bambini che giocano con le bolle di sapone …nel vederle fare e farle mi sono sentita leggera….

Roberto: Se mi avessero detto che stasera mi sarei trovato con una decina di persone adulte, responsabili, a giocare a chi faceva le bolle di sapone più belle, li avrei guardati con l’occhio commiserevole dei giorni disperati, quelli senza rimedio.

Stefania: Il mondo colorato da un velo luminoso, più bello, più lucido, sotto un velo che riflette i colori e li abbellisce. Una bolla piccola, fragile, che vola via con un soffio, non importa neanche sia vento. Se fosse necessaria o utile non sarebbe neanche bella,  si dovrebbe pensare ad essere bolle, per colorare un attimo. C’è qualcosa di più importante dell’abbellire un attimo?

Rossella: Se mi aspetti, se resisti, se non muori, vengo con te in un mondo senza tende. Di cristallo, senza falsità, finalmente trasparente come la tua voce…come i tuoi pensieri…trasparente come l’acqua  del mio fiume senza ponti….

Sandra: Le bolle sono favolose. Mi fanno ricordare naturalmente quando ero piccola…quante ne ho fatte con il sapone di marsiglia e la canna di bambù! Hanno proprio un fascino perché riescono a tirare fuori dei colori favolosi  che fanno sognare

Simone: Bla bla bla lo sai che Rosa ha schiacciato un ragno? No! Davvero? Bla bla bla lo sai che…uno scorpione? Davvero? Lo sai che bla bla bla un gatto? Lo sai che bla bla bla….bum gonfia gonfia prima o poi esplode!

La notte di Natale si avvicina….

Ogni anno, in questo periodo, torno a leggervi dagli anni passati.

Ecco qualche altra proposta:

La nonna e la nonnonna – di Rossella Gallori

18 dicembre 2015

Normalmente, cioè nei casi più fortunati, si nasce con un budget ben definito: babbo, mamma, nonni, nonne e,  nei casi più fortunati, forse una sorella o un fratello.

Quindi io appena fui in grado di capire feci l’appello: babbo: siiiii, mamma: si, fratelli: due…. e nonni? Solo una nonna, era chiaro che già in partenza mi mancava qualcosa.

Come fosse la mia nonna paterna è cosa risaputa: “l’Assuntina è tremenda”, lo dicevano tutti, e anche  se, con il senno di poi, potrei   arrivare a capire il perché, scusatemi, ma ancora oggi non riesco a perdonarla.

Quindi lei non era come io volevo? Bene, sarei andata in giro a cercare altre nonne, non mi arrendevo facilmente allora.

Non ne volevo una speciale, nemmeno tanto appiccicosa,  non importava che avesse il grembiule di mussola bianco con il sangallo giro giro e nemmeno uno a quadretti bianchi e rossi con lo sbieco, no non era necessario, mi poteva andar bene anche una con la gabbanella o una vestaglia di terital sopra il vestito buono. Pensa e ripensa fu così che apparve “la sora Eva”.

C’era sempre stata davanti a casa mia in via Cesare Guasti, ma all’inizio ero troppo piccola per le mie fughe verso “la fioraia”.

Corti riccioli biondo-argento, occhi azzurri chiarissimi, carnagione rosea, pelle d’angelo,  una voce tranquilla, rassicurante, aveva un difetto di pronuncia del quale non mi accorsi mai, quasi mai.

“La sora Eva che c’ha  la lisca”,  gracidava la ragazzetta del piano di sopra ; io non capivo, eppure quel  “Rosciella” doveva darmi qualche indizio.

Scendevo di casa alle otto per andare a scuola ed il solo vedere il bandone alzato mi sembrava di buon auspicio; se poi lei c’era, meglio ancora, mi mandava un bacio e diceva: a stasera, vieni presto……. Poi spiegava al cliente della prima ora : “Scusi sa, saluto la mi’ bambina”.  Ho capito un po’ tardi che forse mi chiamava “la su bambina” per evitare un po’ di “s”,  ma ho pensato da quasi subito che fosse solo affetto…. Già perché “la sora Eva” mi voleva bene.

Mangiavo in fretta, spesso la mamma non c’era nemmeno, cucinava mio fratello Gianni, la nonna pregava e forse campava di rosari. Il menu era ripetitivo, proponeva solo quello che piaceva a lui: riso, fagioli,  salsicce, riso e fagioli. Ma io buttavo tutto giù, avevo il mio appuntamento……ore 16, dovevo essere lì a bottega e sapevo cosa mi aspettava, una carezza e un gelatino da 30  d’estate ed un ditale di farina di castagne d’inverno, buono dolce e caldo cotto nella cenere del veggio…..poi si parlava tra noi “ da donne grandi”, non mi faceva mai sentire in più; ero il suo aiuto, il suo conforto, diceva lei, anche se un figlio ce lo aveva, forse 10-12 anni più di me ma non veniva mai a negozio; cagionevole di salute, secchione e molto signorino, preferiva la calma di casa sua  all’umido del negozio della mamma. Capitava ogni tanto, mi ignorava,  forse un po’ geloso di quell’estranea così amata, grassottella e rompiscatole. Una volta l’ho sentito dire: ma non ce l’ha una casa questa?……beh si io una casa ce l’avevo ma aveva un soprammobile ingombrante: la mia nonna.

Si rideva io e “la sora Eva” mentre si facevano i cuscini per i morti……” Rosciellina di che colore lo fo ?” . “Bianco o rosso”  rispondevo quasi sempre. ”Allegro, meglio allegro”.  Ho sospettato che “la soraEva“ si scrivesse tutto attaccato, era più solenne anche se improbabile!

A volte la nonna mi puniva non facendomi uscire ed impedendomi di fuggire: allora la guardavo dalla finestra la mia “non nonna” e dall’altra parte della strada vedevo le sue mani gesticolare in un veloce alfabeto muto: non piangere, a domani, sillabava.

Quante cose avrei da dire di lei ora che ho tolto il coperchio al barattolo chiamato infanzia! Come quando si chiuse all’improvviso per andare in centro. Si prese il “2”, me lo ricordo bene, e via da Zanobetti  a comprare un vestito per lei; aveva un marito geloso “la sora Eva”,  il “sor Sergio” che da bravo maschio padrone la preferiva struffellata e con la vestagliuccia. Ma come rimase a bocca aperta quando la vide con lo chemisier pervinca, le calze fini e le scarpe con il tacco….. come era bella….!  “Oh con chi l’hai comprato” tuonò appena la guardò meglio. “Sono andata con la mi’ bambina”………

PS: Vedi nonna (quella vera) so che sarebbe l’ora di perdonarti ma non lo faccio e non ti chiedo nemmeno scusa, non volevo  grembiulini, torte e baci, volevo solo una carezza e tre parole : “la mi’ bambina”……..

Il solito posto della tua vita che io non so – di Mimma Caravaggi

Un biglietto, solo un biglietto un unico insulso post-it con due parole “torno domenica sera” e questo è quanto! Dove te ne vai PG ? Tutte le volte che qualcosa non va nella maniera che desidera, si allontana, scappa invece di prendersi le sue responsabilità, accettare le avversità, far fronte alle difficoltà, scappa, fugge via per 2, 3 giorni  ma quando torna sembra un’altra persona. Tranquillo pronto ad ascoltare ciò che hai da dire, ascolta sorridente le mie filippiche, mi guarda e inizia a parlare come un fiume in piena . Lo ascolto, che altro fare?  E’ così che mi piace, quando si apre e tu riesci a capire cosa pensa. La tua rabbia si scioglie come burro e sei li incantata ad ascoltarlo. E’ bello vederlo così. E’ così che avrei voluto un figlio, mio figlio. Purtroppo mi è stato negato. PG invece è arrivato imprevisto, come un ciclone è entrato dalla porta e si è posizionato nella stanza degli ospiti. E’ il figlio adottivo di Alberto che la cara “mammina” ha buttato fuori di casa senza un indumento nulla se non quello che aveva addosso. Alberto ed io stavamo partendo per Giannutri per una breve vacanza e abbiamo dovuto portarlo con noi per non lasciarlo in strada. Povero PG, adottato, bistrattato, buttato fuori di casa e sempre senza una lira. Lo credo che  poi ha bisogno di un posto tutto suo dove andare a riflettere e coordinare tutti i suoi  pensieri e, a volte, fare il ribelle incosciente, come quando prese le chiavi della macchina di Alberto per farsi vedere a scuola con l’Alfa Integrale. Una bravata che riuscii a nascondere solo dopo una ramanzina coi fiocchi  e una grossa promessa. Ma quando si isola vorrei essere lì con lui coccolarlo fargli sentire che gli sono vicina come una mamma vera dovrebbe fare, ma lui vuole restare solo nel suo angolo preferito che non conosco e che a volte non accetto. Devo pensarci sopra molto per capire che è un suo diritto, è una sua scelta e va rispettata. E’ stato con noi per quasi due anni prima che sua madre lo riaccettasse a casa dove è tornato di corsa perché le mancavano sua madre e sua sorella. Io porto con me questo ricordo che mi ha dato tanta ansia ma anche gioia e divertimento perché PG è molto simpatico e noi due, a dispetto dei genitori, stavamo bene insieme e ridevamo spesso. Ricordo che mangiava solo un gran piatto di pastasciutta con un etto di parmigiano e nient’altro ma era un bel ragazzone alto e non certo deperito. Un bel giorno ha litigato di brutto con Alberto e sono quasi 10 anni che non lo rivedo e mi manca molto, come il suo sorriso, la sua allegria, le chiacchiere e anche quando se ne andava nel “solito posto della sua vita che io non so”. Ogni tanto ho sue notizie dalla sorella che ci frequenta normalmente tra un viaggio e un altro.

Incontro virtuale – 15 dicembre 2020

con Cecilia Trinci

Intense emozioni condivise ieri in entrambi i gruppi.

Abbiamo parlato di oggetti speciali, portati da ognuno, come il particolare metro di legno di Rossella, strumento di una vita di lavoro tra stoffe e personaggi, o la bambola preferita carica di sentimenti di una Sandra bambina o la strana caffettiera ad alcol del padre di Gabriella usata per i campi militari…abbiamo parlato di scritture come quelle di Nadia sulla difficoltà e le mille sfaccettature del clima natalizio e di Frida Kahlo amata con entusiasmo da Stefania e anche le parole amare lette da Rossella sul dolore che si prova quando si crede di non essere più amate e “Il complesso di Cenerentola”, storico testo sessantottino di Carla che riassume molte criticità femminili e un tenerissimo quaderno delle poesie di una Lucia sedicenne a lungo conservato e ritrovato ora, come lo scrigno della zia di Anna contenente lettere d’amore antiche scritte a mano….. E poi quadri come il Klimt (Speranza 2) di Laura con il suo messaggio di colori e soprattutto di RINASCITA, di foto di grandi sorrisi spensierati di Luca con un amico di 30 anni fa che non c’è più, di persone come l’illustratore Ugo Fontana di Simone, grande maestro di tecnica e di vita. … E poi parole come MISERIA di Patrizia, a cui lei pensa quando rivede i Natali lontani nel tempo, e TRISTEZZA di questo periodo solitario di MIMMA e CONGIUNZIONE di Vanna, grande parola evocatrice di collegamenti e “UNIONE”…. Immancabili i cibi del cuore come il “miele di fichi” di Carmela, proveniente dalla Puglia amata e dalle mani di tante donne laboriose…… Si sono evocati alcuni Natali speciali come quello del ’67 di Mirella, in cui la mamma era all’ospedale per un parto sfortunato, il ricordo di quel Natale da sola, con una certa zia, ma anche la gioia del ritrovare la mamma a feste finite, o quello di Tina quando per un’unica volta il babbo fece i tortellini con il matterello di famiglia sotto l’albero fatto di frasche attaccate su un manico di scopa, o il presepio multiplo e felicissimo, costruito confusamente a più mani nel giardino di Anna, da tutti i compagni di scuola del nipotino. E l’Albero di Natale eterno di Stefania che i nipotini agghindano la mattina e la sera disfanno, ogni giorno, in un interminabile festoso addobbo quotidiano. E infine la promessa di un disegno di Lucia che rappresenti gli alberi di Natale semplici di decenni fa, che erano cipressi o ginepri, trovati nel bosco e quasi mai abeti, carichi di stagnola o caramelle, al massimo candeline di cera, come il suo, tornato alla mente, addobbato con un lungo unico filo di caramelle legate insieme. ……..

Legate insieme……un po’ come tutti noi.

Buon Natale ragazze e ragazzi!

Destino o scelta?

E il tempo scorreva – di Carmela De Pilla

Nemmeno lei sapeva come e perché fosse stata catapultata in quel collegio di Firenze in un giorno di ottobre del 1966.

Aveva tredici anni e dall’oggi al domani si ritrovò tra persone che parlavano una lingua che non capiva, forse è italiano, si diceva, ma lei abituata a parlare solo in un dialetto quasi incomprensibile ne ignorava il significato

Percepì subito l’ostilità che si spandeva nell’aria e capì che in quel tempo e in quel luogo nessuno le avrebbe mai parlato di amore, così giorno dopo giorno si chiuse sempre di più in se stessa senza permettere a nessuno di scoprirne i pensieri e i sentimenti, sola, nel suo silenzio, un silenzio assordante che la portava molto lontano.

Le vedeva le sue compagne che l’additavano parlottando e ridacchiando fra sé, avrebbe voluto strattonarle, urlare, ma si sentiva troppo fragile, impaurita e scoprì che l’unico modo per difendersi era rinchiudersi nel proprio silenzio così decise di non parlare più.

Urlò quel 4 Novembre.

 Non capiva cosa stesse succedendo, vedeva solo veli neri che svolazzavano nevroticamente tra le stanze e nel cortile, bambini che piangevano, uomini che correvano

-L’acqua…l’acqua…sta arrivando l’acqua…

– Presto, prendete le spranghe di ferro, i travicelli, i tavoli…le assi …

Tutti si davano un gran da fare per rinforzare il grande portone ad arco che si apriva su via Borgopinti e lei guardava impalata in un angolo, tramortita, terrorizzata  da un nemico che non conosceva.

-L’Arno!!…l’Arno ha invaso tutte le strade e le viuzze del centro e sta arrivando qui, gridava un signore dalla strada.

E lei guardava impalata in un angolo, stordita da quella babilonia …

L’Arno? Non sapeva nemmeno cosa o chi fosse, lo scoprì soltanto qualche ora dopo quando affacciandosi alla finestra del primo piano vide un fiume d’acqua fangosa che ormai si era impossessata della strada, allora capì e si sentì ancora di più spaesata e sola.

Da diversi giorni pioveva ininterrottamente, nella giornata del 3 le piogge aumentarono d’intensità, ma nessuno se ne preoccupò abbastanza, nemmeno i fiorentini che fermandosi lungo gli argini si dicevano “è un classico che d’autunno piova così tanto” invece il livello dell’Arno incominciò a crescere rapidamente e nelle prime ore del 4 accadde l’irreparabile.

Macchine, sedie, tavoli, alberi che galleggiavano e nafta, tanta nafta che scorreva su quel fiume e portava con sé il  terrore che potesse prendere fuoco.

Si sentiva smarrita, spaventata e soprattutto abbandonata.

Qualche giorno dopo l’acqua rientrò nel suo letto lasciando per le strade fango e tanta desolazione, poi le dettero un paio di chantilly bianchi e si ritrovò con alcune compagne e suore a ripulire dal fango ciò che era recuperabile.

Il tempo scorreva…

e lei si lasciava vivere senza opporre resistenza, intanto andava alla ricerca di se stessa, voleva conoscersi, capire, darsi delle risposte e incominciò con fatica ad uscire pian piano fuori dal guscio per rinascere una seconda volta, curiosa di scoprire le bellezze della vita.

 Il tempo scorreva…

 e la mandarono in un altro collegio dove studiò per diventare maestra, suo padre ci teneva molto che prendesse quel diploma.

 -Se studi non sarai ignorante come me e, per una donna fare la maestra è un bel lavoro!

Il tempo scorreva…

e imparò a conoscersi, a sorridere, a farsi degli amici, incominciò a sentirsi più serena, più sicura e qualche volta conobbe anche la felicità.

Il tempo scorreva…

e si diplomò, decise così di iscriversi all’università, ma dirlo ai suoi genitori era difficile, i patti erano che dopo il diploma sarebbe ritornata al paese, ma come poteva dopo tanta fatica lasciare ancora una volta tutto per ritrovarsi in un ambiente che ormai non conosceva più?

Si incontrò con suo padre alla stazione di Bologna per proseguire il viaggio verso la Puglia e si sentì ancora una volta persa, era sicura che lui non avrebbe capito, ma questa volta non voleva sconfitte.

-Papà pensavo di proseguire con l’università, mi piace studiare, potrei anche lavorare, la madre superiora mi ha proposto di insegnare in una prima, cosa ne pensi?

-I patti non erano questi, lo sai che mamma ti aspetta…

-Ma papà…

-Ho capito Carmela, vuoi rimanere a Firenze…

Quella ragazzina di tredici anni ero io, ho continuato a vivere a Firenze grazie ad un padre straordinario che aveva capito tutto prima ancora che io parlassi……