Pomodoro e cioccolata

ROSSO POMODORO – di Simone Bellini

Domani sveglia alle quattro per essere nel bosco quando albeggia.

Funghi che passione !

I preparativi iniziavano la sera prima. Quello della merenda era un rituale che mio suocero svolgeva con sacrale attenzione; le sottili fette di pane venivano bagnate con poca acqua per conservarne la morbidezza il giorno dopo, quindi una strusciata d’ aglio prima di quella del pomodoro che doveva inzuppare abbondantemente la mollica, sale, pepe, pomodoro a pezzettini, basilico, olio extravergine di oliva ed un’altra fetta sopra a sigillare quel prezioso aroma.

Io non sono un’amante del pomodoro, ma rimane indelebile il ricordo quei panini mangiati a metà mattina quando, dopo ore di ricerca, ci accampavamo stanchi all’ombra di stupendi altissimi faggi, in quel sottobosco pulito, arioso, con il profumo dei funghi che dava ancor più sapore a quella gustosa merenda ascoltando i mitici racconti dei nostri amici boscaioli che, conoscendo ogni palmo del bosco, ci narravano i suoi segreti; cervi invisibili nella loro immobilità mimetica, serpenti a guardia di funghi permalosi che, se scoperti e non colti, bloccavano a dispetto la loro crescita.

Tornavamo a casa con il nostro bottino di porcini, contenti ma sfiniti. Sulla tavola ci aspettava come ricompensa una succulenta “ Parmigiana di melanzane “. Un piatto per me irresistibile, fatto con tutti i dogmi, dalla lunga preparazione per lo spurgo sotto sale e la seguente frittura di melanzane, la farcitura in teglia e poi in forno.

A causa di questa lunga preparazione le occasioni per farla sono diventate rare ed in più salutiste, perché friggerle appesantisce lo stomaco ed ingrassa, quindi questo passaggio ad oggi viene eliminato.

Infine la sera dopocena per addolcire i programmi televisivi mi concedo un cioccolatino, preferibilmente un “Bacio Perugina”o un “Lindor” o più semplicemente un quadratino fondente:- Svizzero?- Certamente si ! Il Novi lo lascio tutto a voi !!!

Pane e pomodoro

PANE OLIO E POMODORO – di Mimma Caravaggi

Foto di congerdesign da Pixabay

“Se mangi il tuo latte coi biscotti più tardi ti do la fettina di pane con la conserva” mi diceva la zia. Pane e conserva mi piaceva da morire. Il pane doveva essere molto fine e sopra una bella passata di conserva che una volta era simile ad una marmellata. Buonissima fatta nell’alta stagione dei pomodori maturi poi messi sul fuoco a farli cuocere pian pianino fino a farla condensare. Si adoperava nel brodo o nel minestrone e in alcuni piatti di carne per dare sapore, e che sapore. Un’abitudine quella del pane con la conserva che è andata avanti anni fino a quando lasciai il mio paesello di nascita, la nonna, la zia e anche mio padre e una delle mie sorelle. I miei si erano divisi e spartiti i figli come fossero oggetti, a quei tempi era una cosa molto rara e ho sofferto molto soprattutto per la separazione da mia sorella. Nonostante tutto però sono stati dei bravi genitori a loro modo. La mia passione è comunque continuata senza più conserva ma con pomodoro strusciato sul pane. Questa abitudine l’ho portata con me e mi segue ancora poiché per colazione di solito mangio il pane con l’olio, meglio quando è EVO, che  struscio con un pomodoro maturo e un po’ di origano in inverno e di basilico in estate. Mentre scrivo l’acquolina mi fa ingoiare a vuoto lo mangerei anche ora, subito prima di finire di scrivere. Pane olio e pomodoro sono stati la mia consolazione anche esagerata, vista la mia stazza, ma appena avevo un problema, e ne ho avuti tanti, mi rifugiavo in cucina per preparare il mio buon boccone per tornare ad essere “felice”. Davanti ad un piatto pronto per accogliere la colazione pregusto ansiosamente il momento della degustazione a volte torno indietro nei ricordi da bambina quando si usciva per andare nei campi a cogliere la frutta di stagione o a fare una passeggiata nel boschetto a cercare funghi o erbe selvatiche da cuocere e tutte le volte c’era la pausa per mangiare una merenda e la mia era sempre pane con olio e pomodoro che mi preparavano in anticipo e che mi portavo dietro in un piccolo contenitore e quando lo aprivo il profumo inondava  il  naso poi il piacere arrivava agli occhi e infine lo portavo alla bocca che in attesa si riempiva d’acquolina. Che bei ricordi e che belle merende e quanto pane olio e pomodoro.

Il cibo che consola – dal nostro blog precedente

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O consolo – di Rossella Gallori – lamatitaperscrivereilcielo (wordpress.com)

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Mi scaldo un segreto – di Rossella Gallori – lamatitaperscrivereilcielo (wordpress.com)

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Pane abbrustolito – di Rossella Gallori – lamatitaperscrivereilcielo (wordpress.com)

Marmellata

LA MARMELLATA NASCOSTA – di Anna Meli

foto di Mirella Calvelli

            Ho appreso l’arte di far marmellate da mia madre che ne faceva di ogni varietà: di ciliege in primavera inoltrata, di albicocche e di pesche a seguire e infine di susine, more e fichi.

            Ogni mattina a colazione gustavamo queste delizie su fette di pane abbrustolite già spalmate di burro e tuffate in ciotole di caffellatte. Succedeva che in alcuni anni la produzione di frutta, rigorosamente fornita dai campi dei contadini vicini, fosse minore per cui, la mamma, dopo averci dolcemente invitato a stenderne sul pane una quantità minore, non  due dita, ne nascondesse o meglio, ne mettesse via alcuni barattoli perché diceva ”Con questa dobbiamo attivare all’estate”.

            Avvenne che curiosa e golosa com’ero (mi sono mantenuta) scoprissi quel posto che lei credeva sicuro e cioè in alto sopra la credenza. Solo saltando la vidi; così montai su una sedia e mi allungai col rischio di cadere….ma a cadere fu un barattolo di marmellata di more di un bel viola scuro che si schiantò sul pavimento spandendosi in mille schizzi e pezzetti di vetro. Ne seguì una solenne brontolata e una punizione: per un mese solo pane e burro che fra l’altro non gradivo molto.

            E’ passato molto, molto tempo e la mia mamma mi manca molto, così continuo a fare le sue marmellate e ne nascondo un po’ prima che spariscano, giusto per arrivare all’estate. Forse si tratta solo di infantile nostalgia e dolcezza di altri tempi. Intanto apro lo sportello della vetrinetta e verifico: ”si c’è ancora”.

Cavolo nero

Fettunta col cavolo nero – di Nadia Peruzzi

Foto di zhugher da Pixabay

Fettunta col cavolo nero!
L’inverno non mi impensierisce. Amo il freddo sicuramente più del caldo. L’aria frizzantina che accarezza e talora schiaffeggia con i suoi artigli gelati la trovo corroborante.
Vitale molto più della calura estiva, anche se si accompagna a giornate più corte e luce trionfante solo nelle ore centrali della giornata.
I piatti dell’inverno poi. Vogliamo mettere?
Altro che insalatine, mozzarelline, piatti freddi e poco calorici a contrastare la calura anche a tavola.
E’ il gran ritorno dei sughi, che sobbollono piano piano, dei legumi tirati su con pazienza e dei sapori decisi e forti.
Fra questi, la fettunta col cavolo nero è senza eguali! E da sola, senza il contorno dei fagioli a mitigare l’insieme. Il sapore deve essere deciso, senza compromessi!
Non c’è piramide dolce che possa scalzarla dal posto e dal premio che si merita.
Nobel? Oscar? Pulitzer? Prendetene pure uno a caso e traducetelo in valutazione di merito di questo piatto veramente sensazionale. Se si parlasse di montagne, saremmo in cima all’Everest, senza alcun dubbio!
Lo amo da sempre. Da quando era la nonna a farlo. Poi di passaggio in passaggio è arrivato fino a me e anche a mia figlia che lo fa in famiglia anche più volte nella stagione invernale.
Con le sue foglie grandi e rugose, un po’ bitorzolute, unite in grandi mazzi verde bosco profondo, campeggia su tutti gli ortaggi disposti nelle sue vicinanze.
Si fa notare, gonfia il petto e dice: prendimi, son tutto tuo e riservo meraviglie.
A casa, con pazienza accarezzi quelle foglie con le piccole bolle in rilievo, lo sfili e lo lavi abbondantemente.  La cottura deve essere quella giusta giusta.  Così come giusto deve essere il pane.
Mica se ne può prendere uno a caso.  Quando mai!
Anche in questo c’è sapienza e gusto del buon cibo che si tramandano.
E l’olio? Vorremmo mica trascurarlo. Rigidamente extravergine e tanto meglio se “novo”.
Il profumo mentre cuoce è forte, di quelli che non passano inosservati. Non fastidioso però. E’ un profumo che ti fa già pregustare il dopo.
Il rito dell’aglio strofinato sulle fette del pane abbrustolito un altro passaggio decisivo.
E’ il tocco finale, e per me deve essere pure un tocco generoso.
Poi, via.  Fetta leggermente bagnata nell’acqua di cottura, gran cupola di cavolo nero adagiata sopra,  olio non certo a risparmio, sale e pepe.
Nulla di meglio davvero.
Lo si mangia con gli occhi, ed è un vero giulebbe appena arriva al palato. Le papille gustative fanno la ola da subito, appena vedono la forchetta!
L’aglio arriva con decisione, l’olio lo segue a ruota tanto più se pizzichino.
Il cavolo fa tutto il resto prendendoti per mano e portandoti vicino vicino ad una forma di estasi del palato! Col vino buono che tenga di banda,  ci entriamo diritti, nell’estasi.
Certo ci vorrebbero anche persone a cui si vuol bene a condividere tavolo e pietanza.  Col covid a incombere invece te la giochi in solitudine. Soccorre la capacità di transfert, il sogno che fa volare lontano.
Chiudendo gli occhi, mentre l’aglio fa il birbante tornando su più del dovuto le pareti dell’appartamento sfumano e senti arrivare l’abbraccio accogliente delle case contadine di una volta. Quelle in cui la grande cucina era davvero il centro di tutto.
Senti il calore del camino scoppiettante di legna e di faville che giocano in allegria. Ti sembra di vedere la bella e accogliente tavola vero centro del centro di tutto, le facce arrossate di grandi e piccini, i loro occhi pungenti e vivaci.
Mondo semplice, fatto di persone semplici con alto tasso di civiltà a scorrer nelle vene.  E tu li in mezzo, ti senti coccolato e senti di star bene! 

Schiacciata

La schiacciata con l’uva – di Stefania Bonanni

Foto di Heidelbergerin da Pixabay

Ho cominciato a cucinare per Paolo, e con lui ho cominciato a mangiare. Ho cucinato per i miei bambini, e sono stata felice, non contenta, proprio felice, quando hanno mangiato volentieri.  Ricordo quando li imboccavo,  e Paolo rideva perché nell’avvicinare il cucchiaio alla loro bocca, aprivo io la mia. Quando hanno cominciato a chiedere che rifacessi cose che a loro erano piaciute, quando mettere in tavola la minestra di pane, il lesso rifatto con le  cipolle, la schiacciata con l’uva, e’ stata una festa. Allora ho capito la magia del cibo. Che ricordi nei sensi se ne hai goduto in quello che si e’ trasformato in un momento di festa, che e’ una macchina del tempo, quando il soffritto sul fuoco riempie la casa di quelle domeniche mattina nelle quali era l’ora in cui stava per suonare il campanello il signore che portava l’Unità , ed entrava sempre con il fare di uno che ti porta la Verità,  la Salvezza, la Possibilità di Capire. E la mia nonna che metteva sulla tavola il suo “Famiglia Cristiana”, come a pareggiare, non si sa mai ci potessero essere cose un po’ spinte, o eretiche.., Mi piaceva tanto il teatrino, la nonna mi faceva proprio ridere. E correva in cucina, perché sempre c’era il sugo che si attaccava. “Allora l’è inutile sia andata alla prima messa, se poi questi scomunicati passano a far perdere tempo all’ora di desinare”. Perché il pranzo della domenica non era cosa da ridere. C’era la pasta a sugo, l’arrosto morto (questa cosa mi ha turbato per un po’, terrorizzata dalla possibilita’ che un giorno facessero quello “vivo)”, a volte c’era anche il dolce, ma solo se era la domenica giusta. La domenica delle palme c’erano le frittelle, come per San Giuseppe,  per carnevale la schiacciata alla Fiorentina,  a settembre la schiacciata con l’uva. Poi c’erano compleanni nei quali il festeggiato poteva chiedere il suo dolce preferito, per esempio l’Otto dicembre, per il mio babbo, la nonna faceva sempre i cenci. Pero’ guai  a pensare di fare le frittelle in altro momento… impossibile, diceva la nonna sarebbe andato a male l’impasto,  sarebbero venute così cattive da dover essere buttate. E per me sono rimaste scadenze, tradizioni,  scandiscono il tempo e le stagioni, aiutano a essere di nuovo li’, a raccontare a chi non c’è,  a parlare di chi ci ha voluto bene, festeggiandoci con un dolce. Il momento che mi piace mantenere e’ il pranzo della domenica. Capita di rado che di sia tutti insieme, ma io penso al “desinare” anche se siamo io e Paolo soli, e l’ho fatto sempre, e sono stata presa in giro. Ridevano molto quando mi affannavo a cucinare, e poi c’era chi arrivava piu’ tardi, chi andava via prima, chi non c’era….ed io comunque all’ ora di pranzo di domenica mettevo in tavola le lasagne e l’arrosto, e spero che l’abbiano imparato, che e’ importante festeggiare il cibo, la famiglia,  il tempo che passa e si ferma, nei gesti antichi. Credo di non aver davvero mai goduto di un cibo per se’ stesso, ma del momento di cui e’ stato pretesto. La cosa che più mi riporta la mia mamma è la schiacciata con l’uva, che mi è sempre piaciuta tanto, fatta come la faceva lei. Da bambina inappetente e che, oltre a non mangiare nulla, non mangiava dolci, la scoperta che quella schiacciata la mangiavo, fece si che diventasse una presenza assidua sulla nostra tavola. Non dimentichero’ mai, anche perché  lo riproduco sempre, quello che e’ il profumo del ramerino che soffrigge nell’olio con lo zucchero e gli anici, che ora si chiamano anici, ma un tempo si chiamavamo anaci.. Poi si impasta, poi ci si mette l’uva nera e si continua ad impastare,  ed i chicchi si schiacciano, esplodono, lacrimano gocce rosso scuro che colorano la pasta stesa cone una tela bianca , e si continua a riempire di chicchi, non devono restare macchie bianche….E poi con i palmi delle  mani si schiaccia, si spiaccica, si uniforma e compatta, non so se alla ricetta sia utile, di certo è un gran divertimento. Con Leo si sono trascorse ore piene di risate. Lui dice che l’uva si trasforma, diventa uvetta quando è  cotta,  e che quando aprirà  un ristorante, metterà la schiacciata nel menù. Quel profumo resinoso, insieme dolce e persistente, oleoso ma fresco, rimane sulla pelle. Dando un morso alla schiacciata, prima respiro fino a riempire la mente, riconosco e resuscito abbracci morbidi e stretti, amore soffritto, promesse di attimi eterni. Poi, il morso dolce aumenta la salivazione, è l’acquolina in bocca, nasce la lotta tra il desiderio di masticare piano e rendere giustizia ad ogni boccone, e la voglia di mangiare tutto e subito, fosse possibile in un boccone solo, nel tentativo di essere riempita in tutti gli angoli,  in tutte le curve, in tutti i nodi nei quali si corre il rischio che non arrivi. Pane e vino, alla fine è  quel pane e quel vino lì,  per me. Che ti rimane accanto e nutre, e non solo il corpo.

Spaghetti

SPAGHETTI AL RAGÙ – di Anna Meli

Foto di Aline Ponce da Pixabay

            Stiamo passando nuovamente un brutto periodo a causa del Corana virus. In questa forzata solitudine è piacevole e utile fra l’altro cucinare cose buone e dolci come le marmellate che serviranno per le crostate; infatti, mentre preparo le cotogne di Daniele, penso alle  domeniche trascorse con i miei familiari in allegria seduti a tavola. In quelle occasioni a grande richiesta era d’obbligo il ragù.

            La mattina, abbastanza presto, subito dopo la colazione, mettevo al fuoco un capiente tegame di coccio con dentro un trito di cipolla sedano e carota affogati in olio buono a soffriggere. Girando il mestolo lentamente, ne odoravo l’aroma  un po’ acre e ne osservavo il colore che via via si imbiondiva fino a divenire color nocciola intenso; era quello il momento di aggiungere la carne macinata seguita da un bel bicchiere di vino rosso e, una volta ritirato, la passata di pomodoro. Il ragù bolliva lentamente per un paio d’ore con l’aggiunta di poca acqua e via via cambiava colore: non più rosso acceso, ma di una tonalità più matura tendente al marrone. Il più era fatto: un assaggino mi assicurava che era venuto buono e saporito.

            Di lì a poco seduti intorno alla tavola si gustavano con piacere gli spaghetti al ragù della nonna e Cosimo, il più piccino, chiedeva “ Ma ce ne sono ancora? Non me li finite tutti, io ho molta fame”.

            Sono piccole gioie che in questo periodo fa piacere rivivere. Il buon cibo non solo soddisfa il gusto, ma ci regala momenti di semplice felicità (anche se penso con tristezza che non tocca a tutti).

Speriamo che questo maledetto virus se ne vada presto e ci insegni almeno qualcosa.

Gli “gnudi”

Ravioli gnudi – di Luca Di Volo

Foto di Hans Braxmeier da Pixabay

Un turbine di odori, profumi, sapori mi aveva riempito a quella vista. Parevano irradiare dagli stessi muri  che in un tempo lontano li avevano assorbiti, restituendoli generosamente a chi avesse saputo coglierli.

La casa in cui per tanti anni avevo vissuto mi dava, a suo modo, un caldo benvenuto. Con stupore mi accorsi di quanto forte potesse essere la sfilza d’immagini provocate da un solo sguardo: una tirava l’altra e via. . e via…come le ciliege da un unico ramo.

Ma il primo a comparire fu, struggente e travolgente, il ricordo dei piatti che lì mia madre preparava.

E uno su tutti, quello che tramutava in gioia anche le giornate più tristi. Sto parlando dei “ravioli”, quelli che sono fatti solo dagli spinaci e dalla ricotta . . e da qualche altro ingrediente che non ricordo più…. so che il nome ufficiale è quello di “ignudi”…ma forse quello completo è “ravioli ignudi” . . cioè quelli privati della pasta che li ricopre. . Chissà, forse a quell’epoca non pareva bello parlare di “nudità”. . e così. . ”ravioli” e basta.

Ma, qualunque sia il nome, non ho mai dimenticato che una delle prime scoperte dei piaceri della vita era stata l’affondare sulla lingua e lo sciogliersi di quel sublime impasto.

Altri piaceri poi sarebbero venuti, forse più forti . . ma quel cibo aveva diritto alla primogenitura. Anche perché, con l’orribile vecchiaia, la folla delle cose da godere si dirada sempre più ma quelle legate al cibo sembrano molto più durature e ancora mi accompagnano.

E trascinate dal  magico filo dei ricordi, altre sensazioni mi riempiono. Il calore della cucina, il volto dei commensali, alcune facce rosse come il fuoco per il cibo e per il vino, il fumo che si solleva dai piatti. . e prima ancora le piccole mani della mamma che impastavano prima di gettare l’impasto nell’acqua a bollore…

E per quanto abbia girato per il mondo anche assaggiando e riassaggiando lo stesso piatto, quell’inesprimibile piacere goloso non si è fatto più sentire. Era fatale. . doveva essere così…ma saperlo non mi consola.

Se per caso, per un puro caso, lo ritrovassi…mi cadrebbe di dosso tutto il fardello degli anni…dei troppi anni di cui sono carico.

E come vorrei che ancora quelle piccole mani fatate me lo servissero…

Pane

Il Pane – di Patrizia Fusi

Mi accompagnava tutto il giorno, dal caffè della mattina fatto con il surrogato della vecchina, perché il latte non c’era quasi mai, a pranzo a cena e a merenda.

Ricordo con piacere la minestra di pane che faceva la mamma e un sapore che non sono più riuscita a riprovare.

Il profumo che la domenica mattina si sprigionava nel piccolo appartamento dal grosso tegame con dentro il sugo di carne assieme alle braciole, la golosa fetta di pane con il sugo bello rosso intenso che la mamma ci dava a metà mattina.

Tutte le varianti delle merende, olio, pomodoro, frutta di stagione, zucchero e vino, più raramente marmellata e cioccolata.

Mangiare col pane mi permetteva di far durare di più la pesca o qualsiasi altro frutto gustandomeli più a lungo.

Con le restrizioni attuali mi sono resa conto che mi manca accudire ai miei cari cucinando per loro e la mia “copertina di Linus” è ancora il pane, con il pomodoro o l’olio o altro …….come da piccina.

Cacciucco alla livornese

Rosso profumo di buono – di Gigliola Franceschini

Foto di akiragiulia da Pixabay

Non e’ un primo e neppure un secondo, e’ un piatto unico buono non solo come cibo ma anche come un colorato mezzo per stare in compagnia, vivere allegramente qualche momento di convivialita’; e’ il re della nostra cucina labronica: sua maesta’ il cacciucco. Ma non uno qualsiasi, quello che faceva mia nonna, insuperabile, un rito da rispettare. La mattina prestissimo arrivava Beppe in bicicletta con due grandi ceste, una davanti e una dietro, si appoggiava al muretto dell’orto e chiamava col suo vocione di baritono stonato. Mia nonna usciva per scegliere tutto quello che le serviva; il pesce doveva essere di varie qualita’, piu’ pregiato ed anche povero. Non doveva mancare niente, neppure i pesciolini spinosi, quelli che  valgono poco ma sono indispensabili per la buona riuscita del piatto. Poi incominciava il lungo cammino verso quella delizia. Nonna non voleva gente intorno quando cucinava, tollerava la mia presenza perche’ ero la nipote di casa, a patto che stessi buona e non facessi confondere. Il cacciucco veniva fatto ogni tanto ed aveva molti estimatori oltre la famiglia, infatti c’era sempre qualche infiltrato e a volte piu’ di uno. Io guardavo ammirata la bravura di quelle piccole mani che sapevano fare di tutto, specialmente in cucina, non chiedevo niente e cercavo di imparare. Chissa’ perche’, pensavo, nonna metteva un peperoncino intero infilato con uno spaghino, nel sugo bollente e ad un certo punto lo toglieva. Seppi in seguito il perche’,  bastava l’ombra del pizzichino. Il tutto cuoceva in un grande tegame di alluminio, molto capiente perche’ il cacciucco era sempre tanto, profumato, di un rosso intenso, una delizia. Non sono mai riuscita a ripetere quel ben di Dio, nonostante avessi visto i vari passaggi, mancava sempre qualcosa. Forse nonna aveva un piccolo segreto ma non ho mai appurato se fosse vero.

Ora e’ quasi impossibile fare questo piatto, non si trovano tutti i pesci necessari, mancano i pescetti da poco ma tanto saporiti e manca tanto altro. Manca nonna col suo mestolone che faceva le porzioni per tutti, senza parsimonia. Mancano le persone intorno al grande tavolo di marmo della cucina, manca il vino aspretto della nostra campagna, dopo che le vigne hanno ceduto al cemento. E manca Biagio, il gattone rosso che in quei giorni particolari, si sdraiava sulla soglia della cucina e aspettava paziente e sornione il suo turno per mangiare gli scarti e bisognava tenerlo d’occhio perche’ , ladro com’era,  avrebbe fatto in un baleno a prendersi i bocconi migliori. Ci dobbiamo accontentare di discrete zuppe di pesce, sbiadite, come sono, niente da paragonare al profumo di quella zuppiera enorme che portava il mare in tutta la casa.

Frittatine

Frittate a pomodoro – di Rossella Gallori

foto di Rossella Gallori

Mi addormentavo nel” lettone” cullata dal profumo della salsa di pomodoro… dopo cena cucinava con rabbia, la rabbia della stanchezza, dell’incertezza.

Chiudevo gli occhi con il rumore dei mestoli,  dei coperchi, con quel “passino” che, se non cadeva, urtava contro qualcosa che faceva cadere qualcos’altro…mi addormentavo con il profumo del basilico, certa di risvegliarmi con i soliti coriandolini rossi sulle piastrelle…le domande non erano ammesse, c’era sempre un motivo al suo “ casino culinario”  leggevo, la fiamma era troppo alta, mi davo lo smalto, ascoltavo la radio…..non ci ho mai creduto, ma guai a dirle: eri stanca mamma? Non lo avrebbe mai ammesso…io la immaginavo addormentata su quel tavolo di marmo di un rosso strano, mentre la salsa  di un rosso deciso, si trasformava nei “fuochi di San Giovanni“.

All’ alba, l’opera veniva completata, nascevano…così quelle che un nome certo non ce lo avevano…erano a seconda dell’umore e delle stagioni: frittatine trippate, tagliatelle finte, frittate a sugo…

 Ricordo tutto così bene che ora mentre scrivo rivivo, quei giorni semplici fatti di ciò che resta, che sapevano poco di futuro, ma tanto di amore….entravo in cucina e la semplice magia arrivava , l’oro delle frittatine, brillava, nella padella nera …poi c’era il percorso …dagli occhi colpiti dall’ abbondanza, al naso…che curioso svolgeva il suo ruolo indagatore, per scendere alla bocca ancor prima di averle mangiate ne sentivo il sapore, percorrevano la gola le succose strisce bionde, per arrivare al cuore….al cuore..

….dove si sono fermate, dove sono rimaste, strano avere nel cuore frittate….troppo banale avere ventricoli .  …si mamma sono qui con me sanno di te, del tuo cibo consolatorio, che doveva essere tanto e ben sistemato, anche se modesto, trionfava sempre una grassa foglia di basilico, nel cratere delle nostre tagliatelle finte….ricordo come le dividevi nei piatti piani, sembravi pesare con gli occhi…poi sbagliavi e preparavi  un piatto in più che ormai non serviva… ti scendeva una lacrima…forse…ma non l’ho mai voluta vedere..

Ed ora mi ritrovo qui a cucinare per le mie figlie, che vivono da sole da anni e che sanno cucinare molto bene…ma spesso me le chiedono per farmi contenta, perché sanno che per me è un modo per ricordarti,  forse una ninna nanna che mi culla tra uova, latte, farina, parmigiano….e salsa di pomodoro…tanta salsa…

Hai sempre esorcizzato tutto con il cibo mamma, poche carezze, forse, ma cibo si…perché era un traguardo…un successo che la fatica ti regalava e tu lo regalavi a noi….anche se ho sempre pensato che  ai miei fratelli ne davi di più…gelosa sempre anche ora….gelosa di una ricetta che non c’ è dal quantitativo mai ben definito…di un piatto semplice banale da mangiare lentamente, come si recita una preghiera che hai dimenticato di insegnarmi, …caldo d’estate, tiepido a primavera, morbido, semplice, colorato nel suo giallo/rosso decorato in verde, un cibo che parla di noi, preparato nelle prime ore del giorno ..come facevi tu, come faceva tua madre, come faccio io…

Ps: ti sento sai mamma: troppo alte…troppo cotte…poco formaggio…troppo ..e la salsa? Più larghe… più strette….

Il tocco di Lorenzo

Un tocco leggero – di Lorenzo Salsi

Foto di campellif da Pixabay

Eravamo seduti uno di fronte all’altro. Si rideva di qualche mia cazzata o qualcosa di strambo che mi era accaduto, mi accade sempre qualcosa di strambo. Uno di fronte all’altro, non accanto come alle elementari o al liceo. Era molto che non ci vedevamo e di fronte ad una pizza e una buona birra, i discorsi erano fluenti e piacevoli, insomma a quasi 60 anni ci si divertiva, eravamo spensierati. Quando, io dando le spalle al resto del locale, mi sento toccare in modo deciso ma delicato, un tocco di bambino. Alessandro mi fa cenno con la testa di girarmi e mi trovo faccia a faccia con uno dei bambini più belli del mondo. Il suo sguardo sembra vuoto, poi, mi lancia un sorriso di gioia, forse speranza. La mamma che spinge la sedia con le ruote fa l’atto di allontanarlo, la fermo. Il bambino di circa 7 anni vive su quella sedia dalla nascita. Non so che problemi abbia, almeno non conosco la sindrome, il nome scientifico della sua malattia. So solo che mi ha toccato con la sua mano contorta, che muove a scatti, che mi chiama col tocco perchè lui non ha parole, non può averle, temo non le avrà mai. Quel tocco è una voce, non un grido o un urlo ma un bisbiglio dolce e sonoro. La madre mi dice “ E’ strano, lui non tocca mai nessuno, non si permette “ “Lo lasci fare non mi da fastidio tutt’altro, è così delicato “. Lui continua a sfiorarmi . Intanto la serie di sorrisi si prolunga. E’ bello veramente bello questo bimbo, è allegro anche , glielo dico ed i suoi movimenti si fanno più scattosi, quasi si alza dalla sedia, fa muovere le ruote avanti e indietro, la madre fa fatica a tener ferma la sedia. “Diglielo al signore dove siamo stati? Siamo stati a Genova” . “All’acquario?” domando a lui. Il bimbo si muove ancor di più. “ Non sono un signore , sono Lorenzo “ dico al bimbo, “Io sono Leonardo (ndf)” dice la mamma. Leo mi tocca ancora come se fossi qualcosa che potrebbe sciupare, eppure mi vede son alto e grosso, son a mangiare una pizza con Ale dopo l’allenamento di rugby ( il campo è lì accanto). Eppure Leonardo mi tocca con movimento gentile e misurato, come se quella mano non fosse affetta e sorride. La mamma è stupita. Chiedo se gli è piaciuto l’acquario, lui muove il tronco con un vigore che fa fare un giro completo alle ruote indietro e avanti. La mamma “ Siamo stanchissimi, lui ha guardato tutto, è saltato su questa sedia un migliaio di volte, penso sia sfinito”. Si indovina la stanchezza il quel corpicino sfortunato, con un destino che ha cambiato sentiero all’improvviso, facendo diventare difficile una vita semplice. Si vede però anche la gioia e quel volerla trasmettere. Quel tocco delicato, confidenziale. Quel chiamare senza parole. Quel linguaggio fisico, dolce come una carezza ad un fiore ha fatto incrociare il suo ed il mio amore come fossimo dita intrecciate. Amori durati attimi, attimi come regali, attimi di strepitosa gioia donatami con quei tocchi piccoli, controllati della sua malferma mano. “Che bello che sei Leonardo, che bello che sei “

Rosso e cioccolata

Rosso e cioccolata – di Vanna Bigazzi

Foto di congerdesign da Pixabay

Riesco a gustare la cioccolata nello stesso, identico modo di quando ero piccola: sensazione totalmente appagante. Allora venivo spesso sgridata o perché finivo troppo in fretta l’uovo di Pasqua o perché, anche se ben nascosto, riuscivo sempre a trovare l’oggetto del desiderio. Chiaramente ho associato questo gusto alla “trasgressione” ma anche al “piacere”, da cui: ”Si trasgredisce per provare piacere”. Questa formula è stata adottata da molti nel corso dei secoli…Ancora oggi mi soffermo a riflettere con appetito sulla  meravigliosa “scioglievolezza di Lindor” o  in modalità meno raffinata a un cucchiaino stracolmo, grondante di sinuosa Nutella.

Anche il colore rosso è trasgressivo e per quanto mi riguarda si associa benissimo alla “cioccolata proibita”, è trasgressivo perché si fa notare prima di tutti gli altri colori, ruba la scena, si impone a dispetto di quelli più timidi. In confidenza, un po’di rosso farebbe bene a tutti, senza esagerare però, altrimenti si potrebbe innescare la “prepotenza“. Ho sempre pensato che i narcisi avrebbero dovuto nascere rossi.

Uova al pomodoro

UOVO AL POMODORO – di Sandra Conticini

Foto di DanaTentis da Pixabay

In estate è il mio cibo preferito: l’uovo al pomodoro.  Quando tornavo dalle vacanze spesso la mamma mi chiedeva cosa volevo mangiare, io non avevo dubbi e a lei, con tutti i piatti che avrebbe potuto preparare, le sembrava troppo banale. Solo al pensiero di poterlo mangiare mi veniva l’acquolina in bocca. Prepararlo era una specie di rito. Comprava i pomodori San Marzano maturi, li sbucciava, toglieva i semi, li tagliava a pezzettini, aggiungeva le foglie di basilico fresco lo metteva sul fuoco in una padellina, sempre la stessa, smaltata bianca e verde, aggiungendo un po di sale. Quando il pomodoro era cotto aggiungeva due uova e dopo qualche minuto la padellina era in tavola insieme allo stinco di pane uscito dal forno poche ore prima. Che soddisfazione sentire il sapore delle cose genuine e, anche se era un  piatto semplice, aveva il sapore dell’amore e del sacrificio. Dopo aver ripulito bene la padellina, che poteva anche non essere lavata, mi sentivo proprio soddisfatta ed appagata.

Anche ora capita che faccio l’uovo al pomodoro ma è una cosa molto diversa. Innanzitutto nonostante gli ingredienti e il procedimento sia uguale il sapore è diverso, poi  lo faccio poche volte, perchè ci mangio troppo pane, il sugo fa male, così quando arrivo in fondo mi sento un bel senso di colpa.

Cuore rosso

Il rosso che cura – di Laura Galgani

Foto di pasja1000 da Pixabay

Il primo assaggio è con gli occhi: disseta  la vista con quel suo colore esatto, preciso, proprio quello che si intende quando si dice “rosso”.

La mente si riempie di una tonalità di colore che si fa musica pervasiva, quasi assordante.

Non c’è posto per altre immagini, in quel momento.

Poi il tatto: ne segui la forma coi polpastrelli e ti accorgi che stai accarezzando un cuore.

Ne porti una vicino al viso chiudendo gli occhi e aspirando avida il suo profumo.

E’ una cascata di sensazioni, la primavera esplode fragorosa nel tuo corpo.

Finalmente le labbra si schiudono e una ci si appoggia.

Sperimenti la rotondità dei contorni che ti fa indugiare prima di morderla. E quando finalmente

non puoi più trattenerti e i denti premono sulla polpa ecco che sapore, profumo, consistenza si legano in un’unica espressione di armonia e tu pensi che anche solo per questo vale la pena aver vissuto.

Fragola, frutto che nasce in basso, appena sopra la terra. Ne sei i minerali, le radici, i pezzi di corteccia, gli insetti, le foglie, la fatica di chi ti ha lavorata.

Sei il sole che ti ha baciata dal finire dell’inverno, rimanendo così catturato da te da regalarti la sua essenza preziosa: Il colore del sangue, il colore della vita.

Diventa per me carezza, amore, luce.

Incontro virtuale – 17 novembre

con Cecilia Trinci

Dopo i commenti personali sulle foto, o dipinti pubblicati con relativi scritti abbiamo parlato del gusto e del “cibo del cuore”, quello che ci consola o ci sostiene e non solo il corpo ma anche l’anima.

Su questo abbiamo intenzione di lavorare nei prossimi giorni.

foto di Cecilia Trinci

Molto apprezzato l’acquarello di Tina Conti che ha condiviso con noi in questi giorni:

acquarello di Tina Conti