La foto 2 di Carla

Continua la storia del Commissario Grintolin – di Carla Faggi

(La storia continua dalle vicende precedenti – vedi Foto 1 di Carla Faggi e foto 1 di Vanna Bigazzi)

Li avevano visti qualche ora prima sul luogo del delitto.

I testimoni oculari non avevano dubbi. Un uomo alto con uno strano mantello e due donne, media statura, castane.

Avevano lasciato la duna in maniera sospetta.

L’ispettore Scrupoloso Antonio aveva seguito ogni traccia utilizzando anche droni e rilevatori satellitari. Magro, scattante, non gli sfuggiva neppure un minimo dettaglio. E anche questa volta ci era riuscito, li aveva scovati! Stavano scappando verso il confine seguendo un vecchio binario ferroviario ormai in disuso.

Le tracce di dna rilevate nella duna combaciavano con quelle dell’uomo dallo strano mantello.

Il commissario Grintolin però non era soddisfatto del tutto perchè non riusciva a trovare un movente per l’uccisione della giovane Franca.

Fu così che fu deciso di interpellare la consulente psicologa Dottoressa Vann Big……

La foto 1 di Nadia

La sorpresa dal mare – di Nadia Peruzzi

Era un uomo rude, di quelli tagliati con l’accetta. Forse perché tagliava proprio con l’accetta. Uomo di montagna, dai grandi silenzi, mani forti, fisico possente forgiato in anni e anni di lavoro pesante.

Non un filo di grasso, solo muscoli scattanti e mani con tantissimi calli a raccontare gli alberi che anno dopo anno aveva tagliato per farne abitazioni calde, comode e confortevoli.

Era un lavoro in solitario e per solitari come lui.

Parlava con la natura più che con i suoi simili. Il silenzio del bosco se lo portava dentro e addosso.

Molti non riuscivano ad entrarci in sintonia. Le donne men che meno. Scalfire il muro che ergeva a difesa era stata impresa vana per molte. Si erano stancate prima di cominciare veramente a varcare la soglia che portava diritta ai suoi sentimenti.

Che li aveva lo si vedeva trasparire dai suoi occhi neri e lucenti facili ad oscurarsi ad ogni cambio d’umore, ma anche in grado di accendersi per una gioia improvvisa, o di venarsi di meraviglia bambina, di compassione e di umana partecipazione al dolore altrui.

Erano chiusi in un grumo che gli stava abbarbicato dentro e rischiava di distruggerlo se non avesse trovato il mezzo per farli uscire, orientandoli e traducendoli in qualcosa di concreto che lo appagasse e lo rendesse felice.

Trovò la sua ancora di salvezza un giorno mentre rovistava in un baule appartenuto a suo padre.  Sul fondo una vecchia macchina fotografica di quelle con l’obbiettivo che si doveva estrarre ancora manualmente e che funzionava ancora con i vecchi rullini.

La provò e vide che scattava in rapidità come aveva visto fare quando era suo padre ad usarla.

Imparò velocemente a fare belle foto, come succede quando le passioni si accendono e le porte si aprono su mondi sconosciuti e tutti da conquistare.

In breve imparò a stampare e a fare gruppo con altri appassionati, partecipando volentieri alle loro scorribande per immergersi in altri mondi, e almeno sfiorare vite e situazioni molto diverse da quella lenta, abitudinaria, monotona che si svolgeva nella sua montagna.

Si scoprì ad amare il mare, forse per contrasto. Aveva finito per sentirne un bisogno fisico.

Mentre carezzava l’ultima foto che aveva stampato sentì arrivare l’odore salmastro del mare misto a quello del mirto e della ginestra.

IL gruppo dei suoi amici stava in alto su una scogliera. Ombre col mare in lontananza a le macchine fotografiche a fare da appendice alle loro figure stagliate contro il panorama.

Ricordava il vento di quel giorno. Stavano aspettando il passaggio dei grandi alati che si spostavano verso lidi più caldi. Avevano seguito il loro assetto di volo in triangolazione perfetta e si erano imbattuti per caso in un ballo di delfini che si erano dati appuntamento proprio di fronte a loro.

Ricorda altro di quel giorno.

I puntini neri che i tele misero ad un certo punto a fuoco.

Prima uno, poi due, poi decine.

Ci volle un po’ per capire. Erano esseri umani. Erano naufraghi. Erano in estrema difficoltà.

Corsero giù a grandi falcate verso la spiaggia, mentre con i cellulari chiamavano i soccorsi.

Chi sapeva nuotare si era già lanciato in acqua e cominciava a riportare a riva persone stremate, intirizzite, e con occhi sbarrati in cui era concentrato tutto il dolore del mondo.

Lui era rimasto senza forze. Impietrito. Le mani strette come artigli sulla macchina fotografica, come per trovare un appiglio e per non lasciarsi travolgere da quella scena terribile.

La macchina fotografica che usava come filtro per guardare il mondo cercando di narrarlo dal suo punto di vista, e in qualche caso com paravento a protezione del suo io più segreto, era un inutile fardello in quella circostanza. Le grida che stravolgevano la scena fino a poco prima idilliaca, erano alla ricerca di una umanità compassionevole che se ne facesse carico immediatamente.  Filtri non potevano esserci.

Servivano mani nude e cuore aperto, calore per accogliere e consolare.

Si riscosse appena mollò a terra la macchina fotografica. Le sue mani ripresero vita e vigore appena gli misero in braccio un fagottino di pochi mesi, con un ciuffo ribelle che usciva da una cuffietta colorata,  che lo guardò con occhi che ardevano come tizzoni ardenti.

Se lo strinse al cuore come non aveva mai stretto nessuno e pianse, come mai gli era accaduto prima.

La foto 1 di Gigliola

La grotta delle streghe – di Gigliola Franceschini

(ispirato ad un fatto realmente accaduto)    

  

                     Il gruppo di amici si era preparato per tempo a quella spedizione; dovevano cercare e filmare la presenza di particolari piante rare e fare una relazione in merito. Il loro professore aveva dato questo compito come un lavoro prima della tesi finale e I ragazzi avevano accettato con entusiasmo e avevano scelto il luogo che si riteneva piu’ probabile per I loro reperti. Si erano arrangiati in una baita fino dalla sera precedente e alle prime luci dell’alba erano partiti, equipaggiati di tutto punto. Il bosco non era molto folto, piuttosto arbusti ed erbe varie, qualche albero sempreverde e molti massi. Marco era il piu’ attento dei cinque, appassionato di botanica, viveva questa materia con grande zelo ed era meticoloso e instancabile.ma ora Marco non rispondeva. Si erano accordati di darsi una voce ogni tanto , per tenersi in contatto, ma col passare delle ore si erano talmente allontanati che era quasi impossibile sentirsi. Ognuno era rifornito di cibo e cosi’ continuarono la ricerca in quella terra sconosciuta, fino al calare del sole. Quando si resero conto che Marco non rientrava, non si allarmarono subito, lo conoscevano, se aveva trovato qualcosa di interessante, si sarebbe estraniato da tutto per poi riapparire magari stanco ma soddisfatto. Quando il buio calo’  rientrarono alla baita e chiesero consiglio al padrone che allerto’ il soccorso alpino, ma fino al mattino dopo non si poteva fare niente. Diceva pero’ che nella zona non c’erano punti particolarmente pericolosi, forse il ragazzo si era allontanato troppo ed aveva deciso di non avventurarsi di notte. Lo cercarono per tutto il giorno seguente ma di Marco, nessuna traccia. I ragazzi non si davano pace, Marco non era spericolato, non poteva aver fatto imprudenze. Parlavano tra di loro in attesa che passasse la seconda notte. In un angolo dello stanzone che faceva da cucina e da soggiorno sedeva un vecchio silenzioso che non aveva detto una parola, ad  un tratto disse che una traccia ci poteva essere ma non nella zona che era stata ripetutamente battuta, ma piu’ lontano, oltre il limite della vegetazione. Troppo lontano, pensarono I ragazzi, ma lui racconto’ che quando era giovane, si narrava di una grotta misteriosa che affiorava tra gli sterpi, nascosta dalle erbe del sottobosco, dove si diceva fossero sparite alcune persone. Era detta la grotta delle streghe, mai considerata veramente e forse frutto di leggende di montagna. Bisognava camminare molto prima di arrivare in quella zona povera di interesse e dimenticata da tutti. Un leggero avvallamento del manto erboso, coperto da rovi e arbusti sempreverdi, porto’ alla luce l’imboccatura della caverna e trovarono lo zaino di Marco. Di lui , niente. Ci volle l’intervento di uno speleologo per esplorare il primo tratto, poi fu impossibile andare oltre, un’eco sinistra proveniva dal fondo, troppo pericoloso. Intorno all’apertura I ragazzi notarono una quantita’ di quelle piante che avevano cercato con tanto interesse, a gruppi di cinque o sei, quasi un giardinetto. Marco, con la sua ostinata ricerca, le aveva trovate, ma ormai era troppo tardi. Non le colsero e non le fotografarono, erano le piante del loro compagno e dovevano rimanere con lui a condividere la sua  solitudine.

La foto 1 di Luca

La Collina del Cammello – di Luca Di Volo

Alba per sempre.

Un momento di sosta…uno spazio di tempo ritagliato a fatica. E,  quando poteva, Aldo ci si rifugiava . . e rifletteva.

 Come sempre, gli pareva che tutto ruotasse intorno a quella foto…Lo trasportava, lo emozionava, lo consolava. .

Una piccola istantanea. . un attimo fissato nel tempo.  Lasciava che nei rari momenti liberi quell’immagine lo facesse immergere nell’unico istante in cui si era sentito davvero vivo. . e con lui i suoi compagni.

Sì perché lì erano raffigurati quattro giovani uomini sullo sfondo di un’alba luminosa . . e, per uno strano sortilegio, vi era rimasto eternamente fissato lo stupore, l’entusiasmo e quella specie di tremore che in quel momento avevano sentito. .

A quel tempo lui era molto giovane, laureando in Archeologia a Pisa con una tesi sulle civiltà del Vicino Oriente Antico. Quelle antichissime storie (di cui anche la Bibbia era protagonista) lo avevano irrimediabilmente stregato, sedotto e imprigionato, totalmente e senza scampo.

Era rimasto orfano appena adolescente,  i suoi genitori erano morti in uno stupido incidente stradale e lui era stato allevato da una zia che lo aveva amato, coccolato e anche un po’ viziato . Ciononostante, aveva sempre sentito un oscuro vuoto, un abisso senza fondo che andava in qualche modo riempito. A questo non erano riusciti né i suoi numerosi amori femminili, né il suo successo negli studi…invece solo le amicizie e lo studio di quelle umanità così distanti nel tempo ma a lui vicinissime nel sentimento erano state capaci di fare il miracolo.

Però in questo non era solo . . anche i suoi tre migliori amici condividevano questa  passione smodata per quella storia ancora in gran parte ignota.

Fu così  che quell’Estate di anni prima era riuscito a trascinarli in una vacanza insolita, in posti lontani dal turismo di massa ma dove. . erano parole sue: ”Anche i sassi trasudavano storie infinite. . ”

Carlo,  dentista per hobby ma raccoglitore di satuette etrusche per professione, era stato il primo ad accettare con entusiasmo, per lui c’era qualche possibilità di ottenere qualche reperto, anche piccolo…ne sarebbe stato comunque contento.

Invece Paolo, il fotografo professionista, aveva un po’ storto il naso. Un tipo mondano come lui, avvezzo ad un ambiente di dive pronte a farsi fotografare da lui. . con o senza veli, si sarebbe sentito molto fuori posto in luoghi così lontani dal bel mondo. . ma, travolto dall’entusiasmo degli altri,  alla fine aveva accettato di essere con loro.

L’ultimo del gruppo era Fabio, un po’ più anziano di loro (di poco, solo tre anni), già medico…aveva accettato per pura forza d’inerzia. Gli bastava stare per un po’ fuori dall’ospedale e dalle grinfie del primario poi…dove si andava si andava….

Insomma, per farla breve, fu così che questo quartetto così  diverso per carattere e professioni, ma accomunato per la stessa ansia di novità…. anche un po’ snob, se vogliamo essere un po’ maliziosi. . questo quartetto, dicevo, aveva trovato ospitalità nella casa di un vecchio contadino del posto che, come tutti i poveri onesti, per un minuscolo compenso forniva loro pranzi luculliani e una bella stanza per riposare in quell’angolo sperduto dell’Anatolia, non lontano da Hurfah,  un po’ verso la Siria. Dolci colline coperte di prati verdissimi smentivano il luogo comune di una regione considerata a torto arida e pietrosa.

Mentre depositavano i loro zaini nella camera, Aldo, tanto per non smentirsi, subiva il fascino del posto, un fascino che sembrava assediarlo con il sussurro di epoche morte, ma che a lui sapevano ancora parlare….  e che lui sapeva intendere. La tranquilla cittadina di Hurfah non gli diceva nulla. . banale e moderna. Invece il pensiero che lo dominava era quello di sapere che il suolo che calpestavano non era lontano da Bogas Key, l’antica  e gloriosa Hattusa, capitale dell’unico impero indoeuropeo dell’Oriente…. . Si stava perdendo in quei pensieri quando Paolo, il meno idealista del gruppo, lo aveva svegliato ricordandogli che bisognava scendere per mangiare…che volgarità…però anche Aldo aveva fame…

Insomma in quella specie di Eden i quattro amici si stavano godendo quella straordinaria pace. .

Non avrebbero mai osato confessarlo, ma tutti, a parte Aldo che in ogni sasso sentiva il profumo della storia, tutti, dicevo, si stavano un po’ annoiando.

Per questo, quando, una mattina, poco prima dell’alba, il vecchio contadino che li alloggiava li aveva svegliati pronunciando alcune frasi sconnesse in un Inglese stentato…invece di protestare furono pronti come se avessero aspettato da tanto quel momento. Si capivano solo poche parole. . ”roccia”. . ”paura”. . ”spiriti”. . L’unica cosa chiara era la richiesta di andare con lui a vedere di persona…Forse quegli “effendi” infedeli potevano aiutarlo. .

Ora si trovavano dove il contadino si era tanto spaventato. Non era ancora l’alba e solo una pallidissima luce ad oriente annunciava il sorgere del Sole…ma nonostante il buio pesto, Aldo fu il primo a gettare lo sguardo nella buca indicata come sorgente di tutto quel trambusto. In silenzio gli altri lo avevano seguito…Paolo con la fedele Canon, Fabio come incantato mentre Carlo, forse per qualche residuo di superstizione si era addirittura girato  per assicurarsi che davvero non ci fosse nascosto nessuno.

E fu proprio in quel preciso momento che il contadino…con poca luce e quasi come un gesto inconscio, aveva scattato la “foto”…”quella” foto.

Una cosa straordinaria. . innanzitutto per il fatto che un contadino ignorante e semianalfabeta avesse con sé una macchina fotografica. . e poi che gli fosse venuto in mente di immortalare proprio quel momento…E la cosa più stupefacente era che quello scatto era stato magistrale…neppure Paolo con tutta la sua esperienza forse sarebbe riuscito a tanto. . Un mistero…che preludeva ad altri ben più grandi misteri che li attendevano sull’orlo di quel piccolo cratere.

Come si diceva, Aldo fu il primo ad affacciarsi sull’orlo del piccolo scavo. Era o non era lui l’archeologo?!

Lì per lì non vide nulla, solo un buio un po’ più buio che all’esterno. Però, man mano che la vista si abituava all’oscurità…sì…qualcosa c’era davvero. Troppo presto per dire “cosa”…ma anche così. . in un quasi buio totale, mostrava di non essere naturale. Insomma, anche ad un esame così superficiale rivelava la mano dell’uomo.

In effetti tutto quello che si vedeva era una lastra di calcare, squadrata…. con cura . E forse c’era sopra un abbozzo di . . Mah!

Dovettero aspettare che il Sole nascente lasciasse cadere una lama di luce sul fondo per poter tradurre questo “mah!” in una visione concreta. Sì. . sopra il calcare c’era davvero un…bassorilievo. . una scultura, chissà…

Ma rappresentava qualcosa?! Fu Paolo, avvezzo a distinguere le foto dal primo apparire dal bagno acido, il primo che decifrò il mistero…”C…. zzo!” (lo aveva tradito l’emozione e va scusato. . ) questa è una zampa di leone. . con tanto di artigli sfoderati. . e belli acuminati, anche…” Aldo non lo fece neanche finire. . si mise carponi sulla buca per guardare meglio. Quando si rialzò col luccichio degli occhi avrebbe potuto illuminare il paesaggio…

“Sì. . lì c’è proprio la fine…o l’inizio, di una figura leonina, si direbbe…e se c’è la zampa, sotto dev’esserci il leone completo. . ”

Aveva detto una verità lapalissiana, un po’ ridicola. . ma quel momento giustificava tante cose. .

“Come si chiama questo posto?” e la domanda rivolta al contadino ebbe una pronta risposta: ”Noi lo chiamiamo Goblekì Tepè. . ”

Carlo intervenne : ”E che vuol dire?!”. La risposta la diede Aldo. . per la sua tesi aveva dovuto imparare qualche parola di Turco” Vuol dire ‘gobba del cammello’…vedete come sono arrotondate le creste di questa collina? Un nome appropriato, no?”

Ma la discussione durò poco, dopo essersi scambiati una lunga occhiata i quattro amici, come un sol uomo, afferrarono le vanghe e i picconi lasciati lì dal contadino e si misero a scavare accanitamente. . tanto era forte la curiosità di scoprire cosa mai ci fosse più sotto.

Mezzogiorno…. sotto il sole impietoso dell’Assiria, quattro giovani,  fradici mezzi di sudore,  si lasciavano cadere al suolo morti di fatica…Lì vicino giaceva un mucchio di argilla testimone muto delle loro fatiche. Poco più in là una fossa profonda circa un metro aveva svelato la prosecuzione della stele (ormai erano sicuri si trattasse di questo tipo di reperto) completata da una figura leonina rampante seguita da “qualcosa” d’altro. . un rostro…una mano. . sarebbe stato necessario approfondire lo scavo, ma più della curiosità potè la pesante stanchezza resa più crudele da quel sole implacabile. .

Il loro padrone di casa se ne era andato per alcuni affari urgenti, apparendo solo ogni tanto per portare acqua fresca e anche qualche recipiente di vino, generoso come tutta la povera gente del luogo  e contento perché, se di spiriti di trapassati si trattava, se la sarebbero presa con quegli “effendi” infedeli che sembravano molto più attrezzati di lui per certe tenzoni.

Quando ebbero ripreso fiato, ancora con la voce rotta, Aldo, che a questo punto anche gli altri riconoscevano come il più titolato a parlare della situazione, stette un po’ ancora un silenzio, riflettendo. . ”Paolo, Carlo, Fabio, miei cari amici…. io non so bene in cosa ci siamo cacciati…forse è una cosa da niente. . forse no. Però da quel che so l’iconografia di quella stele, ancora nascosta, ma probabilmente molto alta, ha caratteristiche completamente nuove dai siti in questa regione…” Carlo, il più esperto tra i tre arrischiò. .  ”Assira. . ?”

Ma Aldo scuotè il capo. . ”Non direi. . non si è mai saputo di qualche loro  luogo di culto da queste parti. . e poi lo stile è così differente. . ”

“Allora Ittita. . Bogas Key non è lontana…”

“Potrebbe…”ma Aldo avrebbe giurato che non potesse essere Ittita. . non era loro tradizione innalzare stele, fosse stata una sfinge. . un muro scolpito, ma . . no, decisamente no. .

Anche Fabio e Paolo forti della loro passione, erano intervenuti. . Li avevano passati tutti in rassegna: Babilonesi. . troppo lontani. . Persiani. . ma loro erano indistinguibili dagli Assiri, dopo la conquista non avevano fatto che copiarli. . E poi quel posto irradiava un odore, un religioso sentimento di immensa antichità. . sembrava suggerire che all’epoca del loro splendore Assiri, Persiani, Accadici…. fossero di là da venire…Sumeri dunque? Erano abbastanza antichi…

Ma alla fine fu Aldo che mise fine alla discussione. ”Sentite…secondo me noi qui non possiamo più far niente; per andare oltre e capire se questa scoperta è valida o no ci vogliono attrezzature, gente esperta su come procedere. . e tanti, tanti soldi. Perciò tu Paolo, fai una serie di foto su quest’oggetto che lo descriva più minuziosamente possibile. . Dopo ricopriamo tutto. Anche qui ci sono tombaroli, sapete. . ”

E così fecero, la stele fu lasciata provvisoriamente al suo sonno millenario. . il contadino ben foraggiato per mantenere il silenzio in attesa del loro ritorno e dopo pochi giorni i quattro rientrarono in Italia.

La cosa sembrò finire lì.

Aldo, come previsto, si laureò brillantemente, fu cooptato nello stretto cerchio degli assistenti del prof Rosati e cominciò così la sua carriera accademica.

Ma la dolce collina di Goblekì Tepè e quello che essa nascondeva non volevano uscirgli dalla testa. La sua natura schiva lo aveva frenato da tentare un approccio e di parlare della cosa direttamente col professore…l’ambiente era quello che era e lui non si sentiva preparato ad affrontare l’invidia e il malanimo dei colleghi…insomma aveva più paura del successo che  del suo contrario. Un residuo di quel vuoto che non si era mai realmente colmato…

Però  c’è un limite. . conscio che forse non era giusto tenere per sé un segreto che poteva essere anche divulgato da altri, una mattina prese tutte le sue carte e sciorinò tutto davanti al professore.

Il quale, contrariamente al pessimismo congenito di Aldo, si mostrò molto interessato alla cosa. . forse i suoi occhi vedevano più lungo del suo giovane anche se brillante assistente.

Alla fine dell’esame concluse così: ”Secondo me vale la pena di approfondire. . ho ancora un po’ di amici ad Harvard che a loro volta conoscono finanziatori senza troppi problemi…Ti dirò tra qualche giorno. . ”

E infatti fu così. . appena un mese dopo Aldo si ritrovò ad accompagnare una piccola rappresentanza di tecnici ed esperti di Harvard, insieme al professore. Gli era dispiaciuto non poter portare con sé Carlo, Paolo e Fabio, ma lo striminzito budget dell’Università non permetteva simili allargamenti. Promise loro che li avrebbe sempre tenuti informati sugli sviluppi e ritornò in Anatolia.

La gente di Harvard erano veri professionisti. In quattro e quattr’otto avevano recintato il campo, dopo averlo profumatamente pagato al contadino che non sapeva chi ringraziare per tanta fortuna, e avevano cominciato i saggi preparatori per gli scavi successivi, se ne fosse valsa la pena…. e si accorsero subito che …accipicchia se ne valeva la pena. .

La famosa stele da quel moncherino che era si era rivelata una struttura alta quindici metri circa…con una serie di figure animali, veri o mitologici,  figure di costellazioni, esseri umani danzanti. e tanto altro . . certamente dovevano avere un significato rituale la cui comprensione era di là da venire…  

Tra le altre cose, i tecnici di Harvard avevano portato le attrezzature per poter rilevare col metodo de Carbonio14 l’età di quell’insediamento. Sui risultati però erano stati stranamente reticenti e alle richieste di spiegazioni avevano dato risposte evasive, tipo ”abbiamo bisogno di altri controlli”. . le cose che si dicono quando non si vuol dire nulla. Ma forse gli strumenti erano guasti.

Però qualcosa doveva essere trapelato perché all’improvviso un mucchio di università Europee,  Americane, Cinesi…avevano tempestato il governo Turco con una sola richiesta: quella di ottenere un permesso di scavo a Goblekì Tepè. . unicamente e solo a Goblekì Tepè. .

Finalmente il governo aveva deciso di affidare gli scavi a solo tre Università: Harvard (per i quattrini e la competenza), Pisa (per il diritto di “prima invenzione” e anche per la sua gloriosa esperienza) e Ankara (per motivi di patriottismo, anche se vi erano professionisti molto preparati anche lì). La partecipazione di Pisa era dovuta anche e soprattutto a Aldo e ai suoi tre amici, che per questo ebbero una cerimonia di pubblico ringraziamento con tanto di medaglia del Presidente della Repubblica.

Favorito da questo successo Aldo ottenne la cattedra a Napoli, ne era orgoglioso dato che quella, insieme a cà Foscari di Venezia era l’Università più quotata nel mondo per il Vicino Oriente Antico, la sua passione eterna.

Intanto gli scavi sulla “collina del cammello” proseguivano ogni giorno svelavano scoperte imbarazzanti. . quasi incredibili. Quello che sembrava un comune sito Anatolico si stava rivelando un immenso complesso…templare? Regio? Sacerdotale? Nessuno lo sapeva. . nè per la verità ne sa di più oggi.

Poi la bomba scoppiò così. . senza prevviso. E a farla scoppiare fu la rivelazione dell’età del complesso. Ci avevano messo mesi, facendo le misure un numero infinito di volte, con vari metodi e sistemi, ma il risultato era sempre quello. Quella stele, quella “piccola” stele (ad Aldo piaceva chiamarla così…quasi fosse una sua figlia) quella piccola stele insieme alle sue innumerevoli sorelle e all’enorme complesso templare erano state sicuramente costruite almeno nel tredicimila a, C. !

E su questa base gli storici furono annientati perché questo fatto li costringeva a riscrivere tutta la storia, retrodatandola di almeno settemila anni…In più nel mezzo tra Gblekì Tepè e Catal Huiuk, considerata la più antica concentrazione stabile dell’umanità con la sua coeva MohenijoDaro, in India, c’era un vuoto assoluto, talmente inquietante da far pensare che la civiltà umana fosse partita, ma poi qualcosa. . o qualcuno l’avesse fermata facendola riprendere solo settemila anni dopo. Un rompicapo che siamo ben lontani dal risolvere anche oggi.

Ma Aldo ormai di queste cose non si occupava più…a lui bastavano gli amici e quella foto, quell’alba struggente di un giorno antico. . sui dolci pendii di Goblekì Tepè.

scavi di Gobleki Tepe

Foto 1 di Rossella (versione personaggi)

Riguardando la foto 1 – di Rossella Gallori

Amici, loro, lo erano da sempre, dall’ asilo, molti in paese ricordavano le quattro ragazze incinta, amiche per la pelle, che avevano partorito  a pochi mesi l’ una dall’altra, tutte nello stesso anno  prima Francesco, poi a ruota Federico e Fulvio, dopo qualche mese, a fine anno Flavio…beh tutti sapevano che  si eran  messe d’ accordo 4F, un’idea che nel tempo era stata utile….

Gli studi erano andati avanti tra spinte e spintoni, chi ragioniere, chi geometra, Flavio e Fulvio si erano iscritti a lettere, più per il discreto giro di ragazze che per la voglia di dare esami.

Ma c’ era un fuoco che ardeva  nei loro cuori: la fotografia…e quando decisero di far gruppo e  fondare “ LAQUATTROEFFE” nessuno se ne meraviglió.

Ore passate in montagna dall’ alba al tramonto, per trovare lo scatto perfetto, un colore, una luce, un momento speciale, da pubblicare, da commentare, non sempre allo studio, a volte giù ”Alla  taverna” tra una birra e l’ altra, incuranti dei messaggi di mamme e fidanzate, c’era sempre un percorso da pensare, un’idea da realizzare, un sogno da rincorrere.

Francesco era il più attento ai percorsi, Federico all’ equipaggiamento, gli altri due ritardatari nati, ma abili imprenditori di se stessi, piazzavano le  foto nelle redazioni più in voga.

Quel venerdì di novembre, iniziò con qualche discussione, i soliti ritardatari, i soliti precisini, durò poco, per fortuna, i chilometri erano tanti, e nessuno di loro aveva voglia di perder fiato, ruscelli, foglie,  alberi, piccoli animali in fuga, rocce, tutto uno scatto, tutto immortalato per quasi sempre….la solita sosta, la pulitina agli obbiettivi beh infondo  le  Hasselblad  erano figli per loro, poi i  soliti panini,  Federico tirò fuori, pure un birrozzo.

Poi ripresero la marcia : arriviamo alla Punta del Diavolo, disse Flavio!

No  si fa troppo tardi!

Ma chi ti aspetta?

Fulvio pensò che  faceva freddo, che la nebbiolina diventava  pioggia, che il sole era  una palla opaca, che il vento si era alzato…. E che una lo aspettava, ma tacque  e seguì il gruppo,  infondo in pochi minuti sarebbero arrivati…poi in discesa con buona gambe si fa prima..

All’ improvviso  si udì un grido ed un tonfo,  corsero e si fermarono di colpo proprio sul bordo del baratro….nessuno ebbe voglia di scattare foto, Federico, si voltò per non guardare, Francesco cercò di vedere meglio…..Non ci furono foto, né commenti, solo silenzio ed una telefonata…..

Foto 1 di Carla

E arrivò la scientifica- – di Carla Faggi

(seguito di foto 1 di Vanna)

Forza muovetevi! Non avete ancora trovato nulla! Ci saranno delle tracce, no? In queste dune non ci sono mica i fantasmi, ci sarà qualche impronta, qualche arbusto pestato, qualche ramo divelto! Per la miseria! qualche orma, non volava mica no? Giusepeeee! Inquadra qui con il rilevatore! Ci sono tracce di sanque! Francooooo! Vieni qua, che fai dormi! Prendi un po’ di questa sabbia che la mandiamo in laboratorio…Antonioooo! Che fai con il telefonino! Vieni qui e sbrigati…dobbiamo prendere questi reperti….sbriiiigati per la miseria, sei ancora lì!

Era sempre così quando sulla scena del crimine arrivava lui: il commissario Grintolin. Con la sua voce gutturale e urlata creava scompiglio in tutta la squadra.

Con il suo ventre prominente, i capelli scaruffati e fuori taglio, e la sua voce gracchiante poteva a prima vista intimorire, ma i colleghi della omicidi sapevano che di fronte a cadaveri di giovani donne il commissario diventava furibondo e perdeva ogni controllo……

Foto 1 di Vanna

La ricerca – di Vanna Bigazzi

(Tipi Psicologici)

Il corpo lo avevano ritrovato Danilo e Giovanni, avvisarono subito in paese e i primi a raggiungerli furono Furio ed Ettore. Arrivarono con torce, funi ed altri attrezzi poiché il cadavere era stato intravisto giù, nella scarpata. “Non possiamo toccarlo”! Esclamò allarmato Danilo, appena capì le intenzioni dei nuovi arrivati. “Povera Franca, chi l’avrà ridotta così…” Affranto Ettore rimuginava. “Ha ferite in tutto il corpo”! Urlava Furio puntando un faretto sulla vittima. Giovanni non parlava, era triste, tristissimo. Quattro uomini tutti innamorati di Franca. E chi non era innamorato di Franca! Bella, intelligente, con la battuta sempre pronta a risollevare gli animi. Giovanni ne sapeva qualcosa, sempre depresso com’era… Spesso ricorreva alla sua compagnia per risollevare il suo animo inquieto. Tipo taciturno, nella sua fantasia, vantava un possesso su Franca, pensava di aver attirato la sua attenzione più degli altri, poiché Franca era materna con lui, gli voleva bene. Danilo invece, irretito nel suo narcisismo pensava: ”Povera Franca, era tanto che mi faceva la corte, peccato… non le ho dedicato l’attenzione che meritava, del resto come avrei potuto sotto gli occhi di Emanuela, con Vittoria che non aspettava altro che litigassimo per poterla sostituire! Dura sorte per quelli come me…”. Furio, tipo strano, fissava il corpo con curiosità morbosa e pensava: ”Ti hanno fatto la festa eh, smorfiosa dei miei stivali, hai trovato qualcuno che ti ha sistemata a dovere, mi piacevi ma provocavi tutti e non la davi a nessuno. Pretendevi anche di giudicarmi e prendermi in giro, con quel tuo sorrisetto, quando a sfottimento mi chiamavi “sadichino”. Del resto non ho mai avuto simpatia per gli animali, che posso farci…”. Ettore invece piangeva: “Come reagiranno i suoi parenti, povera Franca mia, ti ho sempre amata, ricordo il nostro primo incontro sul mare, al tramonto, eri vestita di bianco ed avevi i capelli sciolti al vento, quei lunghi capelli di rame… Come è ridotto quel corpo aggraziato, non me lo hai detto ma so che anche tu mi amavi, quante cose avrei voluto fare con te, volevo portarti dei fiori, fra poco sarebbe stato il tuo compleanno…”. “RAGAZZI, FATE LARGO, LA SCIENTIFICA!!”.

Foto 1 di Mimma

Le linci a Monte Morello – di Mimma Caravaggi

Uscirono al tramonto tutti e quattro per ritrovarsi al bar Tre Picche ma non per un aperitivo come era d’uso a quell’ora ma per partire in un unica macchina per Monte Morello in cerca del  piccolo cucciolo di lince Ngoro e sua madre Dama scappati non si sa come dal laboratorio di ricerca del WWF  dove erano tenuti in osservazione. Loro erano 4 scienziati accomunati da uno studio sulle linci. Gabriella, 25 anni Biologa laureata da poco, Giacomo 26 anni Etologo riferito al carattere, studio e comportamento degli animali, Enrico 28 anni, il più anziano, laureato in Scienze Zootecniche e Tecnologie delle Produzioni Animali con conoscenze di base nei settori di biologia chimica e matematica e Sara 22 anni ancora studentessa laureanda anche lei in Etologia e sorella di Giacomo. Tutti e quattro grandi amici fin dall’infanzia avevano conseguito gli studi più o meno similari e facevano parte del Gruppo scienziati del WWF di stanza a Firenze per lo studio dei due animali ora scappati dal laboratorio. Gabriella era preoccupata perché erano stati affidati alle sue cure e seppur animali nati in cattività potevano, una volta fuori, essere pericolosi per chi non era abituato a gestirli. Così partirono tutti e quattro alla volta del Monte Morello dove sembrava fossero stati segnalati l’ultima volta. Giacomo, Enrico e Sara erano lì per darle una mano ma ognuno a suo modo erano molto nervosi e pensierosi. Se non avessero recuperato i due animali sarebbe stato grave soprattutto per la loro posizione lavorativa nell’ambito del WWF. Quindi partirono con la speranza in cuore e tanti pensieri in testa. Giacomo pensava che sarebbe stato opportuno chiamare aiuto magari dei Carabinieri perché lui era timoroso di carattere mentre Enrico, il più ardito, aver preso in mano la situazione e dirigeva le operazioni di ricerca anche se era convinto che non fosse facile ritrovare i piccoli animali. Si era portato dietro anche una piccola telecamera per qualche buona e bella ripresa non si sa mai.  Quanto a Sara si era aggregata come solito ma i tre non la tenevano ancora molto in considerazione. Era sempre stata la più piccola quella che doveva essere sopportata in ogni  occasione e che il fratello doveva portarsi sempre dietro come un sacco di farina. Povera Sara, ora aveva 22 anni e si stava per laureare ed era anche brava, non aveva mancato un esame e i suoi voti erano tutti 29 e 30, ma nonostante questo veniva ancora considerata la piccola rompi palle del gruppo. Arrivati a Monte Morello si recarono subito dal pastore che aveva segnalato la presenza delle due linci e miracolosamente lì le trovarono rannicchiate una vicino all’altra quasi abbracciate nel fienile dove si erano fermate a riposare stanche e affamate, non essendo abituate alla vita esterna. Così i quattro felici e contenti del ritrovamento presero le due bestiole e le accomodarono fra calde coperte nel bagagliaio e allegramente salirono in macchina per tornare al laboratorio. Il danno, se così possiamo chiamarlo, era durato poco e quasi nessuno degli altri scienziati ed addetti del Laboratorio si erano accorti di cosa fosse accaduto. Il giorno dopo i quattro ragazzi arrivarono al lavoro e ognuno potè tornare tranquillamente alle proprie incombenze. Le due linci sembravano contente d’essere tornate a “casa” dove caldo cibo e coccole non sarebbero più mancate.

La foto 1 di Rossella

La telefonata – di Rossella Gallori

Non dovevano essere lì a quell’ora, non volevano fare notte fuori.

Ma la telefonata li aveva raggiunti, un amico giù al paese chiedeva aiuto: è uscita stamani l’ Ynès, saranno state le dieci, mi ha detto  che andava a prendere il giornale, sono le 5 di pomeriggio ed ancora non l’ ho vista, son sicuro che  le è successo qualcosa, non  credo si sia  allontanata molto, ma se siete sul al Colle del Diavolo, date un occhio, ho chiesto ai carabinieri, mi han detto è maggiorenne, non son passate 24 ore, può andare dove vuole.

I ragazzi l’Ynes  la conoscevano bene, quante volte aveva prestato  pentole di rame, di coccio, vasi colorati per i loro set fotografici, quanti caffè avevano preso al suo baretto in piazza,  quanto vin santo …ed ora erano lì quasi a buio, con le loro Hasselblad  infreddolite al collo, a cercarla. Ancora mezz’ ora poi si torna allo studio, sentenziò Guido, il più vecchio, il giornale vuole le foto  stanotte.

Nel silenzio, un rumore li impietrì, non capivano bene da dove venisse quel  rantolo, di animale? Di persona? Di alberi?

No Ynès non sarebbe mai potuta arrivare fin lassù, ne erano quasi sicuri, la nebbia poi ovattava i suoni, il vento freddo le faceva cambiar direzione, poi in attimo, uno dei quattro guardò meglio, giù nel fosso, si intravedeva un corpo, Massimo, il più giovane, si voltò per non guardare……

La foto 2 di Vanna

La Scelta – di Vanna Bigazzi

In quella radura, verso un arco di cielo smagliante di luce, due percorsi miravano al tramonto: una strada sterrata senza un principio e chissà, forse senza una fine (avrebbe potuto lentamente esaurirsi nel cielo) ed un binario ormai in disuso che comunque dava l’indizio di una meta, anche se incerta era la sua direzione. Tuttavia l’apparente affidabilità della struttura, aveva indotto i viandanti smarriti a scegliere quel percorso, confidando più nella tecnica che nell’avventura. Che sbaglio non seguire il cuore, cosa può dare la tecnica all’uomo, dalla quale viene posseduto, piuttosto che una scelta diversa? Cosa può dare di più rispetto alla possibilità di prediligere la libertà ovunque conduca, l’opportunità di distinguere, discernere… Offuscati da questo pregiudizio i tre smarriti, senza porsi domande, iniziarono a percorrere il tracciato. Il Professore di Francese aveva freddo, sul far della sera, ed era stanco per il troppo camminare; aveva con sé una coperta di pelle, rivestita in lana, se la buttò sulle spalle. Le sue amiche di viaggio, una altrettanto stanca, l’altra insofferente per la vacuità della meta, procedevano su quel binario ma con la paura di non farcela. L’insofferente iniziò a manifestare i suoi dubbi, non sopportava più quel percorso obbligato e dopo varie discussioni, manifestò il proposito di cambiare direzione, scegliere la strada sterrata. Sentiva che non l’avrebbe tradita. Così gli smarriti si divisero perseguendo le loro dissonanti convinzioni. Il Professore di Francese, con la sua allieva prediletta, proseguirono lungo il binario; l’insofferente raggiunse quasi di corsa la sterrata che ancora si intravedeva. Cammina, cammina, facendosi sempre più scuro, il Professore e la compagna si trovarono, con grande sorpresa, alla conclusione della strada ferrata: i binari, pian piano, si interravano sempre più fino a scomparire. Presi da un’afflizione che odorava di disgrazia, si gettarono a terra piangendo, assaporando un’amara carezza di fine. Si rannicchiarono entrambi sotto quella coperta, stringendosi l’un l’altro con la netta consapevolezza di non poter sopravvivere a quella gelida nottata. Diverso fu il percorso dell’insofferente, corse lungo la strada con una forza che non immaginava di possedere, la forza della disperazione oltre che della prepotente volontà di farcela, anche da sola. La natura la confortava, la macchia profumata faceva presagire il mare. Ormai il sole era tramontato e l’arco luminoso volgeva alla fine. La strada sfociò in una spiaggia selvaggia e ormai scura: delle voci in lontananza, una casa di pescatori. “Sono salva…” esultò l’insofferente con le lacrime agli occhi. Fu accolta, ristorata e ospitata per la notte. Il cellulare ormai scarico da un’infinità di tempo, rimase scarico: nessuno che l’amasse l’attendeva. Trovò in quel nucleo caldo e confortante la sua dimensione e vi rimase.  

Incontro virtuale – 24 novembre

con Cecilia Trinci

Abbiamo condiviso impressioni sulla bella carrellata del gusto.

Abbiamo parlato delle figure materne e delle nonne così presenti nei nostri ricordi.

Vanna ha parlato delle problematiche legate alle carenze di affetto legate alla mancanza di genitori o alla loro scarsa presenza affettiva e alla conseguente “avidità di affetto” di chi cresce in questa situazione.

Abbiamo parlato di Valery Perrin e del suo libro “Cambiare l’acqua ai fiori”. Laura, Stefania e Tina lo hanno letto e ne hanno esposto alcune sfaccettature. In particolare abbiamo sottolineato la capacità dell’autrice di raccontare in modo lieve e fotografico, per immagini e situazioni e facendo apparire in modo prepotente i personaggi.

Stefania ricorda quanto, in una storia, siano attraenti proprio i personaggi ben definiti e su questo ci colleghiamo per proporre il “gioco” di questa settimana. Questo parte appunto dalla creazione di una storia partendo dalle due foto proposte (da sceglierne una) tratteggiando soprattutto i personaggi che immaginiamo, accompagnandoli poi in un percorso che ci piace.

Buon lavoro e soprattutto buon divertimento!

Foto 1:

Foto 2:

La foto 2 di Stefania

Dove sarai da grande – di Stefania Bonanni

Poi, capita che il destino ti crolla addosso in un minuto, anzi in un  minuto e venti secondi. Mentre si avvia a finire una domenica come tutte, cominciata con la Messa in cattedrale, continuata con un pranzo in famiglia che non accennava a terminare e si strascicava per tutto il pomeriggio, tra racconti, biscotti, vin Santo.

Dopo quel pomeriggio, non c’e’ stato niente da festeggiare, per moltissimo tempo.

I discorsi sulla partenza, vecchi di sempre, cominciati da bambini. Qui non dicevano “cosa farai da grande”, dicevano “dove sarai da grande”. Ci tratteneva il paese, la piazza, la Chiesa. Sembrava di risentire le risate per le pallonate, dietro ogni angolo, che ci potessero ancora essere chicchi di riso cascati dai nostri abiti di sposi, tra le pietre davanti alla cattedrale.

Ci trattenevano i parenti, la sicurezza di aiuto e conforto, vi tratteneva l’imbarazzo dell’essere guardati come attrazioni turistiche, come ci guardavano i passeggeri di quei treni che passavano così veloci che ci sembrava non ci riguardassero.

Oggi non passa il treno.

Fa freddo, ma noi per fortuna abbiamo maglie e coperte sulle spalle. Per fortuna c’e’ il sole. I binari sono liberi, sembra l’unica strada sicura.

Andiamo, non resta che andare. Non voglio sapere di Maria, di Vincenzo, di Pasquale, di Don Antonio.

Andiamo, c’e’ il sole. Non cascano pietre, sui binari.

Andiamo, ci sara’ una stazione, laggiu’. Passera’ un treno, prima o poi.

Andiamo, senza fretta. Stiamo vicini. Se saremo stanchi, ci fermeremo.

Finche’ verra’ la notte, saremo sicuri che tornera’ il sole.

Da altre parti, qualcuno deciderà la data del suo matrimonio.

Tagliatelle al ragu

Il ragu di nonna Lolla- di Mirella Calvelli

Foto di Mirella Calvelli

 RAGU alla toscana, alla bolognese….Ma a casa mia era il Sugo della Nonna Lolla.

 La domenica è sempre stata  un momento solenne….quello del ragù, anzi del sugo.

La nonna “Lolla” andava a Messa il sabato, proprio per “liberarsi” (così diceva) la domenica, giorno relegato alla preparazione del SUO SUGO, spesso accompagnato  dalle  tagliatelle, unico comune denominatore… rigorosamente fatto a mano.

Ci vole olio di gomiti, diceva. Mattarello, coltello e mano libera.

Mica come queste diavolerie!

 Quando si taglia si va di slancio, un  si pole mica stare a “cincischiare”!!

Quando si impasta si pigia su i’ tavolo. L’impasto deve baciare la spianatoia, ma un si deve attaccare.

E allora giù di farina, lanciata dall’alto con un colpo secco della mano destra verso sinistra. Un polverone,  che però ricadeva preciso sulla spianatoia di legno.

Per molto tempo, quando ero piccola, ho creduto che quella polvere bianca potesse essere  borotalco. Ma questo aveva un altro odore, ed era  un passaggio obbligatorio del bagno del sabato.

Era un incanto guardarla. Tagliava gli odori, anch’essi a coltello con la maestria di uno spadaccino.

Mentre sfrigolavano nella pentola di coccio, sempre con lo stesso coltello sminuzzava la carne: le braciole di magro che gli dava Renzo, il  suo macellaio.

 Perchè se vu’ mettete la carne macinata,  l’è più comoda,  ma la unnnè la stessa cosa .

E le braciole le s’imbrunivano da una parte e dall’altra, poi con un salto felino sul tagliere, e tutto a coltello diventavano come la carne macinata.

 E continuavo a  non capire perchè non usasse la carne macinata. Ma prontamente, precisava. Così e vu’ sapete icchè c’è dentro!!

Le dosi, non si sono mai capite, sempre state un mistero. Ma una certezza c’ era. Il risultato, mai immutato, perfetto nel colore, odore e sapore.

Poi toccava alla salsiccia, denudata del budello, sbriciolata grossolanamente fra il pollice e l’indice.

Gli odori cominciavano a impregnare la cucina e la musica solfeggiava sulle stesse note, interrotta ogni tanto dal mestolo di legno che amalgamava con amore, pennellando  il fondo del tegame.

Ultimo ingrediente il pomodoro che veniva prelevato dal vasetto di vetro della credenza.

E anche qui, l’appunto

Un vu’ lo vorrete mica fare con quei barattoli di latta,  che un si da da dove vengano?

Da più grande , ho provato a spiegarle, che controllando l’etichetta avrebbe visto peso, provenienza e caratteristiche. Annuiva e poi diceva; Mimma icchè c’è scritto su’ i’ mio? Nulla, nonna.

Vedi perfetto, l’ho fatto io co’ i pomodori dell’orto, un si pole sbagliare e un c’è bisogno di scrivere nulla, appunto.

L’aggiunta di vino a sfumare, come sempre in seguito, sottolineavo io, era motivo di disquisizione. Ma, un disdice, un mi fa proprio persuasa e poi i vino a i tu’ nonno l’è meglio lasciaglielo ni’ fiasco.

Anzi, no dammelo Pippa (la Pippa ero io) così ne beve un pò meno e  un vorrei che cascasse da un architrave uno di questi giorni!! (nonno muratore).

La cottura continuava lenta, nel frattempo procedeva a tirare la sfoglia.

Altra meraviglia . La solleva in aria, sottile,  come un velo da sposa e dopo averla massaggiata in un divenire dalla vita verso l’alto, come in un esercizio in palestra, l’avvolgeva repentinamente intorno al matterello. Poi con un colpo deciso, come se stesse sfoderando una spada dalla sua custodia, l’adagiava al centro della spianatoia.

 Il coltello, che tirava fuori dal marsupio del suo grembiule, decapitava testa e coda l’impasto cilindrico.  Proseguiva, poi in tagli diagonali perfetti, magistralmente tutti della stessa misura.

Le mani , smatassavano fra l’indice e l’anulare le strisce di pasta, per riavvolgerla in piccoli nidi, spolverati dalla farina di semola.

Così le un’ si attaccano!!

La domenica mattina avrà per molto tempo l’odore e il sapore di questo Sugo , sopratutto quando arrivava il momento dell’assaggio.

Ora vi parto una fetta di pane co i sugo, così vu sentite come l’è venuto!

Tonio, un esagerare,  sennò un mangiano nulla a tavola !!

Questa magia , si è interrotta poco prima della sua morte e le domeniche mattina si sono mescolate con altri odori, sapori e voci. Hanno seguito altri ritmi, esigenze e modalità.

Ma quando ripenso al suo sugo, mi ricatapulto indietro di  almeno 50 anni e mi sembra così strano che  tutto questo tempo sia volato così veloce.

Mi sembra ancora più strano, che al solo ricordo,  possa sentire nella mia bocca ancora il sapore preciso di  quel sugo, di quell’atto d’amore costante e generoso.

Le mie papille sentono ancora la ruvidità aggraziata di quella carne, che riempiva la bocca, che esalava quel profumo dalla fetta di pane, che rendeva goduriosi persino gli occhi.

Le dita leggermente unte, profumavano di sugo e lei ancora riversa sulla spianatoia…..Pippa un te lo strofinare addosso, sennò la tu mamma quando la torna e la comincia a bociare!!

Se tu sapessi dove sono stato, alle saline dove fanno i ssale, se tu sapessi come so salato….

Caffè sognato

Tra sogno e realtà – di Tina Conti

Non finiamo mai di conoscersi, mi chiedo che  fase sarà questa?

Non avevo mai avuto sensazioni di questo tipo. Ormai mi sono già capitate due volte.

Al mattino mi stiracchio nel letto, faccio qualche esercizio di stiramento  e comincio a farmi la foto della giornata. Naturalmente nei programmi ci sono  prima le cose belle. Poi, quelle noiose, spesso queste passano avanti e non  lasciano spazio alle altre che pero’ inseguo senza mollare e tirate da una parte all’altra poi arrivano. Mi e ‘capitato che mentre aspetto il momento per alzarmi  sento profumo di caffè, sorrido:  E’ Paolo che ha già preparato la nostra calda colazione, posso restare ancora qualche minuto, cosi trovo tutto pronto! Che  piacere il caffè la mattina, mi piace quasi piu il profumo che la tazza, il profumo si spande,addolcisce il risveglio, scalda la casa, spinge a ricominciare bene un  nuovo giorno.Mentre mi avvicino alla cucina però mi rendo conto che  è vuota. Nel bagno frulla  l’asciugacapelli, esce vapore dalla porta che si apre: -prepari tu oggi? Io devo portare i bambini di Sara a scuola.

Ecco, ero sicura …ma cosa ho sentito? mi è venuta anche fame..

Mi e successo anche qualche giorno  dopo: odore di pane arrostito, quello che non ci facciamo mai mancare la mattina, io con yogurt e miele, oppure pomodoro e olio, lui  rigorosamente con le nostre marmellate.

Anche questa volta non ho avuto dubbi, avrei gustato il mio pane con la ricotta della Maria e sopra un filo di miele agli agrumi comprato al mare.

Si, il pane mi consola, quello della mattina, caldo e arrostito…Lo sbocconcello appena levato dalla griglia, lo ascolto dentro la bocca, peccato che non ne possa mangiare a volontà. Con l’olio nuovo e le noci, con i pomodori dell’orto, con il miele.

La mia colazione  è con il pane, mi attraggono tanto le belle colazioni fatte di mille cose in albergo, ma se non mangio un po’ di buon pane mi sembra che mi sia mancato qualcosa

Ora poi, lo mangio due volte, in sogno e nella realtà.

Pan cotto

U pan cott – di Carmela De Pilla

(Foto di Carmela De Pilla)

-Carmela andiamo a raccogliere la verdura che oggi voglio fare “u pan cott“.

Mi piaceva ritornare alle abitudini  familiari, dopo un lungo periodo di lontananza tornavo a casa quasi a voler affondare ancora di più le mie radici nella terra dove sono nata e quel frugare tra l’erba,  prendere quella giusta per poi avere il consenso di mia madre mi faceva star bene.

Il ricordo è ancora vivo, quei gesti semplici, quasi atavici  mi portavano in un luogo in cui il tempo veniva gustato lentamente, tutto senza fretta, quasi fosse un rito, nel silenzio di quella terra rossa aspra e altrettanto generosa.

Arrivati a casa con il cesto pieno di cicorie, borragine, cicerbite, aspraggine mia madre mi assegnava il compito di sbucciare le patate o l’aglio e si creava tra noi una complicità nascosta.

Come spesso accadeva nelle realtà contadine, questo piatto era nato dalla necessità di usare il pane raffermo sapientemente unito alla verdura, alle patate, a qualche pomodoro, all’aglio e alla cipolla. La semplicità degli ingredienti era arricchita dalla destrezza delle donne che dovevano buttare in pentola il pane tagliato grossolanamente al momento giusto, lo lasciavano insaporire con gli altri ingredienti quel tempo necessario perché non fosse né troppo molliccio né troppo duro, q.b. si direbbe oggi, quel tempo che solo un’esperta sa definire.

In quel momento mia madre si sentiva la protagonista di un grande evento, molto dipendeva dalla sua maestria, scolava il tutto e poi lo versava in un grande piatto di coccio, quelli puglesi con i fiori blu o verdi, poi l’ultimo tocco, un fiume di olio doveva condire il tutto, una mescolata e pronti a gustare il capolavoro.

-Questa volta ho messo anche le fave,” è cchiù fin”, diceva mamma con orgoglio.

In quel momento il silenzio avvolgeva la famiglia e il palato, unico protagonista, gustava ogni ingrediente che mescolato all’altro dava vita a un nuovo sapore, la cremosità e la dolcezza delle patate si appiccicava all’amarognolo delle verdure e uniti dall’olio vellutato e pizzichino, se era nuovo, recava un piacere condiviso e, come in un grande lavoro di squadra, ogni ingrediente dava il meglio di sé.

Si mangiava lentamente perché quella mescolanza di sapori così diversi tra loro lasciasse in bocca un piacere quasi sensuale, segno di vita.

Mamma non c’è più da anni, ma noi ogni volta che d’estate ci incontriamo nella casa al mare e festeggiamo la giornata “du pan cott” con tutti gli amici sparsi un po’ per l’Italia, proprio come una volta ci riuniamo e ridiamo vita a un pezzetto delle nostre radici.

 Ognuno di noi si dedica a fare qualcosa con lo stesso amore e la stessa complicità, chi pulisce le verdure, chi sbuccia le patate, chi sta dietro al fuoco e tra un racconto e una canzone si sente nell’aria un soffio d’amore che lega ormai più generazioni.

-Chiara, Camilla, venite a raccogliere la verdura che oggi voglio fare “u pan cott”.

Caffellatte

Caffellatte – di Carla Faggi

Mi sono alzata tardi come al solito sciacquatina in bagno gorgoglìo del caffè ancora assonnata un po’ di latte ed un biscotto ho mille cose da fare!

-Un momento, ma così non va bene!- Ricominciamo da capo!

…preparo il caffè…che profumo particolare ha la polvere del caffè, non è acuto ma arriva direttamente dal naso alla fronte in maniera larga e polverosa. Chissà come sarebbe appena macinato? Vabbè, mi accontento!

-glu glu glu frish gorgoglia la caffettiera! Il profumo ora è diverso, più diretto, ti arriva da lontano, ti avvolge e sembra preciso ed incisivo.

Il caffè mi piace caldo, amaro ma solo un piccolo sorso.

Porto la tazzina alle labbra, lo sorseggio, il suo sapore tocca solo la punta della lingua, non arriva al palato, ne sento tutto il suo carattere.

Poi ci aggiungo il latte caldissimo nel bolo grande.

E qui comincia l’estasi!

Prendo possesso del bolo con le due mani, sento tutto il suo calore, lo avvicino alle labbra, soffio d’istinto ma non ce ne sarebbe bisogno, un piccolo sorso per farlo durare più a lungo. Sono le labbra gli attori principali perchè se il caffè veniva gustato sulla punta della lingua, il caffellatte lo prendi con le labbra, quasi un bacio d’amore, ti arriva e ti riempie la bocca, ti travolge al tuo interno, sembra riempirti di benessere, eppure era un piccolo sorso.

Poi arriva il biscotto, o pane e marmellata, però tutto religiosamente intinto, lo immergi in quella delizia calda, lo raccogli inzuppato di cremetta biancastra, è diventato un boccone tranquillo, di quelli che rassicurano.

Poi un sorsettino di caffellatte, non c’è nessuno, lo gusto associato ad uno splendido suono obbrobrio del bon ton ma così soddisfacente.ah! Che piacere.

E’ rimasto ancora del caffellatte, vorrei continuare a gustarlo lentamente, ma non posso, ho bisogno di essere travolta dalla sua interezza. Lo bevo tutto. Che bella giornata!

Fette di nostalgia

Nostalgia a fette – di Stefania Bonanni

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Mi si è rovesciata addosso una nostalgia così spessa che  avrei potuto farne delle fette e riempire dispense. Non era solo pensiero, era proprio materia nello stesso tempo dolce e unta, mi ha sommerso e ricoperto. Deve sentirsi così un’acciuga sott’olio, che conserva il senso di se’, anche a prezzo di aver cambiato liquido. È stata una vecchia foto arrivata sul telefono in seguito ad un giro inatteso, una foto che non conoscevo che lo ritrae giovane, in primo piano, tra i suoi amici, con l’espressione strafottente di giovane uomo bellissimo e consapevole, che ha avuto sempre, o quasi sempre. L’uomo più bello che abbia visto. Innamorato di me. Diceva che quando ridevo cambiava il suo mondo. Nessuno ti ama più in modo così totale, nella vita. Poi si rimane lì,  Comunque pieni, ma svuotati, ad aspettare un ricordo, a bere parole preziose,  quando capita che qualcuno ancora racconti pezzi di vita di un tempo, e lo ricordi. In pescaia, in fondo, con i piedi nell’acqua, la canna da pesca retta con la mano destra e protesa sull’acqua. Da lontano, si vedeva anche dalla strada della Nave a Rovezzano, sembrava una sentinella. Credo si potrebbero contare sulle dita, i giorni in cui non è andato all’Arno. Aveva la pelle scura dei renaioli, con il colore che regala il sole sull’ Arno, che ci tenevano a far sapere non fosse banale abbronzatura di mare. Era piuttosto appartenere a quel pezzo di mondo, avere addosso quell’odore di muschio secco, aver consumato quelle pietre che sono diventate lisce come fossero ricoperte di seta. Sono stata seduta li’, di recente, e lo ritrovo intatto, negli occhi e nel pensiero. Poi, di notte, conto quanti anni sono. Tantissimi, la metà dei miei. E nasce la nostalgia.  Che non è tristezza e neanche rimpianto. Piuttosto consapevolezza di aver avuto tanto, di aver avuto amore eterno, che gli anni non basteranno a dimenticare, e voglia e bisogno fisico di una mano sulle spalle. Allora , nel silenzio, ti penso, ti chiamo perché ho bisogno, e a volte ti sento. Ho bisogno di silenzio, e spero di sognarti.