La foto 1 di Laura

I quattro dell’aurora – di Laura Galgani

Anche volendo scappare, ormai era troppo tardi.

Questo il pensiero fugace che attraversò la testa di Martina mentre Alberto, il suo compagno, le passava i pesanti pezzi dell’attrezzatura fotografica, per essere libero di montare lo stativo.

Il sole, che non aveva mai raggiunto più di 30 gradi sulla linea dell’orizzonte, era già in parabola discendente.

Nonostante il perfetto abbigliamento termico, Martina sentiva le estremità pungere, intorpidite dal freddo.

Era molto magra, ossuta quasi, e il vento riusciva ad infilarsi nei più piccoli interstizi fra la sua pelle e tutto ciò che aveva addosso, facendola rabbrividire.

“Ecco, ho fatto, passami la Canon.” Alberto, senza alzare lo sguardo dallo stativo, allungò una mano per afferrare il costoso apparecchio. Lei, per il freddo e la tensione, si intrecciò coi guanti fra la cerniera del giubbotto ed il laccio della macchina fotografica. “Allora, ti ci vuole tanto? “ quasi le urlò in faccia Alberto, stavolta guardandola dritto negli occhi, che a lei parvero rossi, non sapeva se per il vento o la rabbia.

Martina riuscì ad allungargli la Canon senza farla cadere. Aveva il terrore di rovinare quella costosissima attrezzatura. Poi si accoccolò vicino ad un cespuglio di erica color porpora e abbassò lo sguardo sulle rocce cupe. Due lacrime bagnarono un insetto che veloce transitava di lí rotolando una briciola del loro parco spuntino.

Stefano, il fotografo capogruppo che li aveva invitati a partecipare a quel viaggio nella Lapponia russa, dopo che l’anno precedente erano stati insieme nella parte finlandese, si era accorto della tensione fra i due, e girando la testa verso Martina le aveva rivolto un sorriso aperto e incoraggiante. Lei aveva percepito il suo sguardo e si era voltata verso di lui, lasciandosi sfiorare dal desiderio di Stefano di consolarla.

“Ragazzi, allora, tutti pronti? Dai, che il cielo è limpido, fra poco fa buio e abbiamo buone probabilità di vedere una aurora boreale super! “ Stefano era così, non si perdeva mai davanti alle difficoltà, pensava sempre che, se un progetto falliva, uno più grande avrebbe avuto successo.

Si sentiva un po’in colpa per gli aspetti deludenti e difficili di quel viaggio : la regione di Murmansk non era paragonabile ai paesaggi incantati della Lapponia norvegese e finlandese, e poi… non c’era nemmeno la neve!

Il suo “fedele” amico John, esageratamente barbuto e capellone, che lo accompagnava sempre nei suoi viaggi avventurosi, era un incontenibile buontempone e riusciva a far battute in dialetto torinese anche nei momenti in cui davvero non ci sarebbe stato niente da ridere. E menomale che poi le traduceva in italiano! Ne sparò una delle sue e anche Alberto rise, almeno per un attimo. Alberto era così, impegnato a far soldi nel quotidiano e a trarre il massimo profitto da una vacanza, anche se assurda come quella. Il che voleva dire scattare le foto più belle e originali di tutti per poi venderle a caro prezzo su Internet. La competizione con Stefano era accesissima, da anni ormai. Ma Stefano non se ne curava. Era profondamente convinto che ciascuno avesse il proprio destino e che la creatività non dovesse essere inquinata da secondi fini. Per questo lasciava credere ad Alberto di essere in gara con lui.

Il cielo si scurì, innumerevoli stelle cominciarono ad apparire, una dopo l’altra.

Martina era l’unica a non avere un mirino dentro cui cacciare lo sguardo, imprigionandolo. Era libera di lasciarlo vagare in quell’immensità che si tingeva pian piano di colori surreali: prima verde, poi arancione, spezzato da lampi di rosa e fasci di luce bianca. La danza dell’aurora boreale era iniziata. E mentre gli altri si davano da fare coi loro costosissimi macchinari lei si lasciava andare alla bellezza sovrumana di quel cielo.

Pianse, pianse con forza, volendo spremere dalle viscere dal cuore e dalla testa tutto ciò che fino a quel momento nella sua vita l’aveva oppressa: il doversi adeguare, l’essere remissiva, il mettersi da parte, il dire di sì per dovere.

Accolse quei bagliori come fiamme che bruciavano ciò che ormai era legna secca in lei. Si lasciò dilatare dall’energia possente che pioveva dal cielo e la liberava. Come un’araba fenice, in quella terra gelata trovò una nuova nascita. Fuoco, amore, passione. Non vi avrebbe più rinunciato.

Nel momento culminante dell’aurora Stefano lasciò la macchina fotografica e alzò le braccia al cielo, poi cadde in ginocchio piangendo di gratitudine.

Ci voleva un momento come quello per far trovare a ciascuno, dentro di sé, un atomo di verità…

La Foto 2 di Sandra

In cammino – di Sandra Conticini

Silvia aveva bisogno di prendere un periodo di riposo. La sua vita era stata segnata da un evento tremendo, non sapeva se sarebbe riuscita a superarlo. Sembrava che lui avesse un periodo tranquillo, stavano bene insieme, e lei lo avrebbe lasciato qualche giorno  per tornare al suo paese dove ad aspettarla c’erano i  genitori e gli suoi amici di sempre. .Durante il viaggio si messaggiarono spesso, ma la sera  lo chiamò  diverse volte al telefono, ma non  rispose. Chiamò i genitori, lo studentato dove  alloggiava, amici, nessuno aveva notizie di James. La notte fu un incubo che durò fino al mattino  quando arrivò la telefonata che James si era suicidato ingoiando  una scatola di barbiturici.

Per Silvia passarono giornate di disperazione e dopo diversi mesi decise di fare un pezzo del  Cammino di Santiago insieme a Laura. Iniziarono  da Lugo in Galizia e tutti i giorni facevano 20-25 chilometri, ed i piedi erano doloranti, non si erano allenate, e comunque trovavano altre persone  ferme con il mal di piedi, ma  c’era sempre qualcuno che aiutava o dava un consiglio per ripartire. I giorni passavano e la stanchezza si sentiva, Laura fu presa dallo sconforto e decise di tornare a casa lasciando Silvia sola che  non si scoraggiò, sulla strada trovava persone che le davano sicurezza e aiuto,  potevano fare la strada insieme. Era bello anche stare da soli ad ascoltare il silenzio, rilassarsi attraversando i prati verdi o passare dai boschi di eucalipto e sentirne il profumo. Stava bene, la natura l’aiutava a ritrovare se stessa ed ogni chilometro che faceva sentiva il  fardello che si era portata dietro  alleggerirsi. Aveva conosciuto tante persone: americani, neo zelandesi, spagnoli, francesi, insomma lì c’era davvero l’universo intero ed ognuno di loro aveva un motivo per fare quel percorso … si sentiva davvero felice. Un giorno  fu presa dal panico: si  ritrovò sui binari di una ferrovia dismessa, ma, per fortuna, incontrò Christopher, detto Chris, un ragazzo di Colonia che Silvia riconosceva dalla coperta marrone che portava sulle spalle, con il quale si erano ritrovati e persi diverse volte durante il cammino, così decisero di continuare insieme ed arrivarono a Santiago a ritirare la Compostela.

Era giunto il momento di salutarsi, ma  il destino diceva di fare il biglietto per la stessa città!

Così partirono in quella giornata di sole per Colonia.

La storia di Vanna e Carla continua……

La parola a Vanna Bigazzi……

 Anche se le tracce di dna rilevate nella duna e non sul corpo della ragazza, combaciavano con quelle del Professore di Francese, condotto subito alla Centrale, non significava che sicuramente avrebbe potuto essere lui il responsabile dell’omicidio. Del resto il Professore con l’allieva brancolavano in quella zona, aggrappandosi agli arbusti e avrebbero potuto non vedere il cadavere, sul far della sera… Per questo Grintolin non era convinto e voleva prove più schiaccianti. La Psicologa arrivò con un certo ritardo alla Centrale, scusandosi per un contrattempo accadutole proprio mentre stava venendo via dalla Casa di Cura “Sonni Tranquilli” (per le forti dosi di sonniferi somministrati ai pazienti onde, nottetempo, non disturbassero gli infermieri). La giovane Psicologa, che non rinunciava alla moda, si era recata in quel luogo con jeans troppo aderenti, causando l’inseguimento, da parte di un degente, lungo quei lunghi corridoi dell’antica struttura. Fortuitamente due del personale erano accorsi in suo aiuto ma poi la Psicologa, dovette subire le reprimende del Primario che la invitava ad indossare abiti più idonei. Frustrata, corse a casa ad acconciarsi dimessamente, dopo di che, velocemente, si diresse alla Stazione di Polizia. Grintolin era insofferente e pretese che anche lei iniziasse subito i colloqui con i due poveretti smarritisi durante un’escursione scolastica, oltretutto abbandonati dall’insofferente. L’interrogatorio-colloquio fu lungo ma neanche lei non riusciva a trovare  moventi validi per quell’uccisione. Non trascurò comunque di chiedere chi avesse trovato il cadavere ed espresse la necessità di parlare anche con i quattro scopritori. Casualmente, due giorni prima (data che, secondo il Medico Legale, poteva coincidere con la morte della ragazza) si era presentata alla Stazione di Polizia, una signora di mezz’ età per denunciare che al piano superiore della sua abitazione, aveva udito, in orario non sospetto, urla femminili e rumori assordanti. Pur essendo i due eventi del tutto scollegati, Grintolin mise in moto il suo connaturato, aggressivo, istinto investigativo e pretese che la signora osservasse, attraverso lo specchio spia, sia i due indagati che i quattro scopritori. A quel punto, con grande stupore, la signora riconobbe in Ettore, l’inquilino del piano di sopra.

Adesso, a Carla…         

La foto 2 di Carmela

Oltre la vita – di Carmela De Pilla

Ne parlavano tutti in paese della strada ferrata che univa Foggia a Napoli, si diceva che era stato inaugurato il treno elettrico proprio qualche mese prima, il 6 novembre 1931.
Alcuni uomini davanti all’unico bar del paese commentavano la straordinaria notizia:

  • Pensate che ho raggiunto Napoli in sole tre ore!
  • Madonna mia, se si va di questo passo tra qualche anno andremo sulla luna!
    Fu in quei giorni che Rachele si trovò con suo marito alla stazione di Foggia, si sentiva spaesata e impaurita e si avvinghiò al braccio dello sposo come un serpente per la gran paura di perdersi.
    Era bella Rachele, i suoi occhi neri più profondi del buio facevano intuire un’ intelligenza prespicace e acuta e la sua risata metteva ancora più in risalto gli zigomi ben pronunciati, segno di una raffinata bellezza in contrasto con la carnagione olivastra.
    Nel rione la chiamavano Lina la bella peròle sue amiche la invidiavano più che per la sua bellezza per quel fare un po’ folle che la faceva essere unica e diversa dalle altre.
    Quel giorno di luglio c’era una calura che toglieva il respiro, ci eravamo sedute sulla soglia di casa in attesa di un po’di fresco, lei, fradicia di sudore, in un attimo si slacciò il corpetto e la camicia per asciugarsi poi si sciolse le lunghe trecce e incominciò a dimenarsi con una naturale sensualità che molti si fermarono a guardarla, chi scandalizzato, chi affascinato da tanta grazia, poi con una risata fragorosa si alzò e scappò in casa.
    Era strana Lina, faceva cose inspiegabili, ma tutti ne rimanevano attratti e conquistati, ricordo quella volta che la ritrovarono verso il tramonto lungo la strada ferrata, affaticata e ricurva su se stessa con una coperta che ricopriva il suo corpo nudo.
    I suoi occhi vivaci e allegri erano spenti, i bei capelli neri erano arruffati e sporchi di fango e continuava a dire:
    -Ho lottato stanotte, ma ha vinto lui, devo andare oltre la vita, oltre la vita…
    Ero sconvolta nel vederla in quelle condizioni, era un’amica per me, le volevo bene così la sera l’andai a trovare, era ritornata la ragazza bella di una volta, ma era scomparso il suo sorriso contagioso e i suoi occhi vagavano nel vuoto.
    Mi misi a sedere accanto a lei e le presi le mani fredde, mi guardò e riuscì a dire solo poche parole:
    -Ho lottato con tutte le mie forze per per ritrovare quel poco di me stessa, ma non ce l’ho fatta, ha vinto lui, ora voglio andare oltre la vita,voglio la pace, voglio…voglio…
    -Chi ha vinto, chi?
    -Ha vinto lui…lui…il demonio, è stata una lunga battaglia , ma lui è più forte, devo cercarlo, correva lungo la strada ferrata, devo ritornare lì…
    In un attimo avevo capito che si era staccata da se stessa ed era entrata in un altro mondo, quello della follia.
    L’ho stretta a me, ho sentito le vibrazioni di paura e di smarrimento e in quel momento ho capito che l’avevo persa.
    -Il treno per Napoli è in partenza al binario due.
    Lina si strinse ancora di più al marito, salirono sul treno che portava a Nocera inferiore dove c’era l’ospedale psichiatrico da cui Lina non sarebbe più uscita.
    Oggi si direbbe “ disturbo bipolare” quello di cui era affetta Lina, ma negli anni trenta erano matti.

La foto 2 di Nadia

Febbre dell’oro – di Nadia Peruzzi

Erano tre squinternati. Si erano incontrati per questo. Parecchi giochi elettronici fino ad uscirne stralunati, parecchia birra, qualche fumo per vincere monotonia e tristezza.

Fin troppa frequentazione dei social per compensare il senso di inquietudine e solitudine che li attanagliava.

Essere disoccupati ai tempi del Covid era il peggio del peggio, così si affogavano dentro quella mercanzia per vedere se almeno evitavano di pensare alla loro condizione di ultimi senza speranza.

Studi, fra tutti, il minimo indispensabile. A malapena sapevano leggere e scrivere. Erano la merce più ambita per coloro che costruivano le bufale più incredibili o pubblicizzavano sistemi per far soldi facili facili In tutta velocità e senza fatica.

Prede per chi , annoiato dal troppo benessere o da una vita piatta e senza senso passava il suo tempo a inventarsi scherzi per vedere quanti pesci abboccassero all’amo.

Johnny, Agata e Fermin erano proprio quel tipo di pesce che ogni pescatore nel web spera di trovare per farsi due risate alle spalle altrui. Se poi ad abboccare fossero stati così  tanti da costringere giornali e tv a parlarne, la notorietà era pure assicurata.  

In fondo anche questo era quel pizzico di mors tua, vita mea su cui un intero sistema si basava fin dalla notte dei tempi. Loro ci giocavano solo un po’ per divertirsi da morire.

Ad Aldo venne l’idea di creare il gruppo “Febbre dell’oro” sul social che andava per la maggiore.

I MI PIACE fioccarono da subito.  Successo assicurato, si disse.

La foto di aggancio era quella di una zona collinare vicino alla ferrovia che corre lungo la val Bormida. Una breve nota e qualche intervista ad altri buontemponi che partecipavano alla tresca e il gioco era fatto.

In bella evidenza la scoperta di un filone aurifero portato alla luce dai lavori effettuati in quella zona per il consolidamento della massicciata della ferrovia. Le foto di alcune pepite di varia grandezza completavano il quadro. Per aggiungere credibilità al tutto si diceva che il gruppo social era stato creato per dare la possibilità alle persone più volenterose e piene di iniziativa di assicurarsi una parte di quella ricchezza venuta fuori in modo così inatteso e casuale, da essere alla portata di tutti.  

Bastava un po’ di voglia di fare e pochi strumenti per scavare e setacciare terreno e ciascuno poteva portarsi a casa il suo pezzetto di assicurazione per il futuro.

Agata si iscrisse fra i primi al gruppo.  Fermin e Johnny la seguirono il giorno dopo.

Fissarono per l’alba del giorno dopo ancora. Con l’inclinazione dei raggi del sole dell’inizio del giorno, avrebbero avuto buon gioco a scovare le pepite e forse anche il filone lungo la ferrovia.

Partirono a notte fonda. Le prime luci dell’alba li trovarono a farsi largo in mezzo a decine di altre macchine per trovare un posto per parcheggiare. Era stato complicato come nei pressi del Campo volo quando erano andati per il concerto di Vasco.

Fecero a gomitate per prendere la testa dell’incredibile fila indiana che si era già creata, e cominciarono a cercare lungo la ferrovia.

Erano buffi da vedere. Fermin con quel suo poncho pieno di buchi eredità di sua nonna Carmencita. In famiglia lo consideravano da sempre un talismano e in quella giornata epica non poteva lasciarlo a casa.

Agata con la sua mise da Lara Croft di periferia comprensiva di mimetica e di segni alla Rambo stampati sul viso,  aveva il suo aspetto più classico da imitazione di un macho di infimo ordine.

Johnny con le sue scarpe dalle suole bucate era quello messo peggio. Esalava disperazione da tutti i pori e per questo era quello che aveva abboccato con più convinzione a quel modo facile facile di tirar su un po’ di quattrini.

La foto l’aveva scattata Adelina,  la ragazza schiva  e legnosa che stava sempre appiccicata a Johnny e lo seguiva in ogni scorribanda.

Camminarono per ore avanti e indietro.

Sotto il sole infernale del mezzodì che fece sudare maledettamente il povero Fermin sotto quella coperta che sapeva di gatto morto e di naftalina di bassa qualità.

Sotto l’acquazzone sferzante che li colse nel pomeriggio e che diradò la stragrande maggioranza della folla dietro di loro.

Il far della sera li trovò sfiancati ed affamati seduti su un masso ai lati della ferrovia. Si reggevano la testa sconsolati dalla tanta fatica per il nulla che avevano trovato fino a quel momento. Eppure non erano disposti a mollare.

Erano stati solo sfortunati. Era dipeso da loro che non avevano cercato bene, che non sapevano nemmeno sfruttare le facili opportunità che si presentavano perché erano tutto sommato solo dei gran falliti. Erano degli incapaci. Scarti umani senza speranza di riscatto alcuno.

Il bip sul cellulare di Agata ruppe la quiete della serata che avanzava con la luce delle prime stelle.

Era arrivata una notifica dal social.  Lessero. Era del gruppo “Febbre dell’oro”. Con occhi sgranati videro l’edizione pomeridiana del giornale locale che a tutta pagina , e a tutta foto del buontempone che ne era stato l’artefice, parlava dello scherzo organizzato dall’amministratore del gruppo.

Lessero delle gran risate che si erano fatti mentre dipingevano con una vernice dorata qualche sasso di fiume, della meraviglia nel vedere quanti babbei erano riusciti a smuovere dietro a quell’araba fenice da due soldi.  Parole sferzanti e scherno elevato all’ennesima potenza, ecco quello che lessero.

Johnny, Agata, Fermin e Adelina si guardarono smarriti. Si scoprirono beffati.

Il loro credere a tutto però aveva anche un vantaggio. Era lo specchio deformante del non credere in niente, del non avere punti di riferimento da usare come linea di autodifesa.

Si aggrapparono a questo.  E dunque interpretarono quello che stavano leggendo come NON vero.  Una bufala della bufala. Troppo incredibile perché potesse esser vero!

Ripresero a camminare lungo la ferrovia guidati dalla luce della luna e dei radi lampioni.

Faceva  un freddo da cani e Fermin ebbe bisogno di stringersi nel suo poncho per trarne calore.

Gli occhi fissi in terra per veder apparire l’oro luccicante che non c’era. Nessuna intenzione di lasciare il campo ad altri.

Continuarono a cercare.  Per ore e ore e ore.

La foto 2 di Simone

DIGITAL TRAIN di Simone Bellini

– Ciao, sono tornato ! –

Metto il giubbotto sull’attaccapanni, mentre lo scalpiccio a quattro zampe arriva correndo per festeggiare il mio ritorno, saltando e abbaiando come se non mi vedesse da più di un mese.

– Meno male ci sei tu ad accogliermi così. Imparate gente, imparate! –

-Guarda, già che ci sei vai a dire qualcosa a tuo figlio, è fisso al computer a guardare quella robaccia violenta, pericolosamente stupida degli sport estremi. Quando esce poi, si ritrova con quegli amici che fanno “Parkour”, si mettono a saltare da un palazzo all’altro, per far salire l’adrenalina.-

 -Ah, adesso è “mio” figlio, non tuo ?! Poi cosa gli dico ? Togliti da quello schermo ! Esci un po’, ma non saltare sui tetti ! Quando torno a casa sono stanco, ho bisogno di staccare per un attimo di pace, invece no, vengo subito assalito da te ! –

– O bellinooo ! Lavoro anch’io, sono stanca anch’io ! L’attimo di pace non me lo posso permettere ! La mattina quando parto, nostro figlio è già al computer e ce lo ritrovo, intontito, quando torno. Ora vai a dirgli qualcosa, fai il padre una volta tanto ! –

– O Cristo ! Sono tornati tutti e due ! Come sempre litigano per chi deve venire a rompermi i coglioni ! CAPITANO,  non li sopporto più, cosa devo fare, dammi i tuoi ordini, che io possa eseguirli come sempre ! –

– Signorino, sto venendo da te, spengi il computer prima che te lo spenga io ! –

Apro la porta di botto, il computer è ancora acceso ma la stanza è vuota. Guardo da tutte le parti, ma di Marco nemmeno l’ombra ! La finestra sul giardino è aperta ! –

– Anna,”tuo” figlio non c’è, è andato via passando dalla finestra,

 quiddiavolo ! .-

– Come non c’è ?- correndo in camera – è scappato di nuovo a combinare guai ! Questo maledetto computer ha preso il nostro posto !…….Mio Dio ….NOOoo…. guarda cosa c’è scritto !!!-

BLUE WHALE ( balena blu ) ORDINA : C’è UNTRENO IN ARRIVO, LE ROTAIE TI ASPETTANO !

Una pausa di magia – La casa sulla collina

Il momento perfetto – di Lucia Bettoni

(foto di Lucia Bettoni)

La casa sulla collina si specchiava nel piccolo lago, alle sue spalle il bosco.
Dalle finestre un largo orizzonte, un meraviglioso pezzetto di terra che era tutto il mio mondo.
Non avevo niente, non c’era nessuno, ero sola, ero libera.
Ero libera di inventare, libera di creare, di pensare, di costruire, di immaginare, di essere tutto quello di cui avevo bisogno.
Avevo bisogno di parlare, di comunicare, di condividere, avevo bisogno di ascolto.
Non c’erano persone, non c’era nessun essere umano che potesse accogliere le mie parole.
C’era una piccola strada, la strada del bosco.
Ogni giorno la percorrevo, meglio alla sera, quando il giorno stava per finire, quando la luce si colorava di rosa e un leggero venticello muoveva l’erba e i capelli, il momento perfetto.
C’è un momento perfetto per parlare con gli alberi: bisogna aspettare, bisogna allargare il petto, alzare la testa, guardare il cielo, bisogna sentirsi albero e sentire la linfa scorrere nelle vene. Allora e solo allora tutto è semplice, l’albero è lì pronto ad accogliere ad ascoltare a dare.
Io portavo sempre con me dei piccoli doni per lui: un pezzetto di stoffa, una pallina, una piuma di fagiano, due caramelle, un disegno…
Ogni giorno il tronco diventava più colorato, più’ bello, più vivo.
Io mi sentivo a casa e allora parlavo, raccontavo, ascoltavo, chiedevo… e “lui”
non mi ha mai lasciata un giorno senza risposte.

foto di Lucia Bettoni