Marmellata

LA MARMELLATA NASCOSTA – di Anna Meli

foto di Mirella Calvelli

            Ho appreso l’arte di far marmellate da mia madre che ne faceva di ogni varietà: di ciliege in primavera inoltrata, di albicocche e di pesche a seguire e infine di susine, more e fichi.

            Ogni mattina a colazione gustavamo queste delizie su fette di pane abbrustolite già spalmate di burro e tuffate in ciotole di caffellatte. Succedeva che in alcuni anni la produzione di frutta, rigorosamente fornita dai campi dei contadini vicini, fosse minore per cui, la mamma, dopo averci dolcemente invitato a stenderne sul pane una quantità minore, non  due dita, ne nascondesse o meglio, ne mettesse via alcuni barattoli perché diceva ”Con questa dobbiamo attivare all’estate”.

            Avvenne che curiosa e golosa com’ero (mi sono mantenuta) scoprissi quel posto che lei credeva sicuro e cioè in alto sopra la credenza. Solo saltando la vidi; così montai su una sedia e mi allungai col rischio di cadere….ma a cadere fu un barattolo di marmellata di more di un bel viola scuro che si schiantò sul pavimento spandendosi in mille schizzi e pezzetti di vetro. Ne seguì una solenne brontolata e una punizione: per un mese solo pane e burro che fra l’altro non gradivo molto.

            E’ passato molto, molto tempo e la mia mamma mi manca molto, così continuo a fare le sue marmellate e ne nascondo un po’ prima che spariscano, giusto per arrivare all’estate. Forse si tratta solo di infantile nostalgia e dolcezza di altri tempi. Intanto apro lo sportello della vetrinetta e verifico: ”si c’è ancora”.

Cavolo nero

Fettunta col cavolo nero – di Nadia Peruzzi

Foto di zhugher da Pixabay

Fettunta col cavolo nero!
L’inverno non mi impensierisce. Amo il freddo sicuramente più del caldo. L’aria frizzantina che accarezza e talora schiaffeggia con i suoi artigli gelati la trovo corroborante.
Vitale molto più della calura estiva, anche se si accompagna a giornate più corte e luce trionfante solo nelle ore centrali della giornata.
I piatti dell’inverno poi. Vogliamo mettere?
Altro che insalatine, mozzarelline, piatti freddi e poco calorici a contrastare la calura anche a tavola.
E’ il gran ritorno dei sughi, che sobbollono piano piano, dei legumi tirati su con pazienza e dei sapori decisi e forti.
Fra questi, la fettunta col cavolo nero è senza eguali! E da sola, senza il contorno dei fagioli a mitigare l’insieme. Il sapore deve essere deciso, senza compromessi!
Non c’è piramide dolce che possa scalzarla dal posto e dal premio che si merita.
Nobel? Oscar? Pulitzer? Prendetene pure uno a caso e traducetelo in valutazione di merito di questo piatto veramente sensazionale. Se si parlasse di montagne, saremmo in cima all’Everest, senza alcun dubbio!
Lo amo da sempre. Da quando era la nonna a farlo. Poi di passaggio in passaggio è arrivato fino a me e anche a mia figlia che lo fa in famiglia anche più volte nella stagione invernale.
Con le sue foglie grandi e rugose, un po’ bitorzolute, unite in grandi mazzi verde bosco profondo, campeggia su tutti gli ortaggi disposti nelle sue vicinanze.
Si fa notare, gonfia il petto e dice: prendimi, son tutto tuo e riservo meraviglie.
A casa, con pazienza accarezzi quelle foglie con le piccole bolle in rilievo, lo sfili e lo lavi abbondantemente.  La cottura deve essere quella giusta giusta.  Così come giusto deve essere il pane.
Mica se ne può prendere uno a caso.  Quando mai!
Anche in questo c’è sapienza e gusto del buon cibo che si tramandano.
E l’olio? Vorremmo mica trascurarlo. Rigidamente extravergine e tanto meglio se “novo”.
Il profumo mentre cuoce è forte, di quelli che non passano inosservati. Non fastidioso però. E’ un profumo che ti fa già pregustare il dopo.
Il rito dell’aglio strofinato sulle fette del pane abbrustolito un altro passaggio decisivo.
E’ il tocco finale, e per me deve essere pure un tocco generoso.
Poi, via.  Fetta leggermente bagnata nell’acqua di cottura, gran cupola di cavolo nero adagiata sopra,  olio non certo a risparmio, sale e pepe.
Nulla di meglio davvero.
Lo si mangia con gli occhi, ed è un vero giulebbe appena arriva al palato. Le papille gustative fanno la ola da subito, appena vedono la forchetta!
L’aglio arriva con decisione, l’olio lo segue a ruota tanto più se pizzichino.
Il cavolo fa tutto il resto prendendoti per mano e portandoti vicino vicino ad una forma di estasi del palato! Col vino buono che tenga di banda,  ci entriamo diritti, nell’estasi.
Certo ci vorrebbero anche persone a cui si vuol bene a condividere tavolo e pietanza.  Col covid a incombere invece te la giochi in solitudine. Soccorre la capacità di transfert, il sogno che fa volare lontano.
Chiudendo gli occhi, mentre l’aglio fa il birbante tornando su più del dovuto le pareti dell’appartamento sfumano e senti arrivare l’abbraccio accogliente delle case contadine di una volta. Quelle in cui la grande cucina era davvero il centro di tutto.
Senti il calore del camino scoppiettante di legna e di faville che giocano in allegria. Ti sembra di vedere la bella e accogliente tavola vero centro del centro di tutto, le facce arrossate di grandi e piccini, i loro occhi pungenti e vivaci.
Mondo semplice, fatto di persone semplici con alto tasso di civiltà a scorrer nelle vene.  E tu li in mezzo, ti senti coccolato e senti di star bene! 

Schiacciata

La schiacciata con l’uva – di Stefania Bonanni

Foto di Heidelbergerin da Pixabay

Ho cominciato a cucinare per Paolo, e con lui ho cominciato a mangiare. Ho cucinato per i miei bambini, e sono stata felice, non contenta, proprio felice, quando hanno mangiato volentieri.  Ricordo quando li imboccavo,  e Paolo rideva perché nell’avvicinare il cucchiaio alla loro bocca, aprivo io la mia. Quando hanno cominciato a chiedere che rifacessi cose che a loro erano piaciute, quando mettere in tavola la minestra di pane, il lesso rifatto con le  cipolle, la schiacciata con l’uva, e’ stata una festa. Allora ho capito la magia del cibo. Che ricordi nei sensi se ne hai goduto in quello che si e’ trasformato in un momento di festa, che e’ una macchina del tempo, quando il soffritto sul fuoco riempie la casa di quelle domeniche mattina nelle quali era l’ora in cui stava per suonare il campanello il signore che portava l’Unità , ed entrava sempre con il fare di uno che ti porta la Verità,  la Salvezza, la Possibilità di Capire. E la mia nonna che metteva sulla tavola il suo “Famiglia Cristiana”, come a pareggiare, non si sa mai ci potessero essere cose un po’ spinte, o eretiche.., Mi piaceva tanto il teatrino, la nonna mi faceva proprio ridere. E correva in cucina, perché sempre c’era il sugo che si attaccava. “Allora l’è inutile sia andata alla prima messa, se poi questi scomunicati passano a far perdere tempo all’ora di desinare”. Perché il pranzo della domenica non era cosa da ridere. C’era la pasta a sugo, l’arrosto morto (questa cosa mi ha turbato per un po’, terrorizzata dalla possibilita’ che un giorno facessero quello “vivo)”, a volte c’era anche il dolce, ma solo se era la domenica giusta. La domenica delle palme c’erano le frittelle, come per San Giuseppe,  per carnevale la schiacciata alla Fiorentina,  a settembre la schiacciata con l’uva. Poi c’erano compleanni nei quali il festeggiato poteva chiedere il suo dolce preferito, per esempio l’Otto dicembre, per il mio babbo, la nonna faceva sempre i cenci. Pero’ guai  a pensare di fare le frittelle in altro momento… impossibile, diceva la nonna sarebbe andato a male l’impasto,  sarebbero venute così cattive da dover essere buttate. E per me sono rimaste scadenze, tradizioni,  scandiscono il tempo e le stagioni, aiutano a essere di nuovo li’, a raccontare a chi non c’è,  a parlare di chi ci ha voluto bene, festeggiandoci con un dolce. Il momento che mi piace mantenere e’ il pranzo della domenica. Capita di rado che di sia tutti insieme, ma io penso al “desinare” anche se siamo io e Paolo soli, e l’ho fatto sempre, e sono stata presa in giro. Ridevano molto quando mi affannavo a cucinare, e poi c’era chi arrivava piu’ tardi, chi andava via prima, chi non c’era….ed io comunque all’ ora di pranzo di domenica mettevo in tavola le lasagne e l’arrosto, e spero che l’abbiano imparato, che e’ importante festeggiare il cibo, la famiglia,  il tempo che passa e si ferma, nei gesti antichi. Credo di non aver davvero mai goduto di un cibo per se’ stesso, ma del momento di cui e’ stato pretesto. La cosa che più mi riporta la mia mamma è la schiacciata con l’uva, che mi è sempre piaciuta tanto, fatta come la faceva lei. Da bambina inappetente e che, oltre a non mangiare nulla, non mangiava dolci, la scoperta che quella schiacciata la mangiavo, fece si che diventasse una presenza assidua sulla nostra tavola. Non dimentichero’ mai, anche perché  lo riproduco sempre, quello che e’ il profumo del ramerino che soffrigge nell’olio con lo zucchero e gli anici, che ora si chiamano anici, ma un tempo si chiamavamo anaci.. Poi si impasta, poi ci si mette l’uva nera e si continua ad impastare,  ed i chicchi si schiacciano, esplodono, lacrimano gocce rosso scuro che colorano la pasta stesa cone una tela bianca , e si continua a riempire di chicchi, non devono restare macchie bianche….E poi con i palmi delle  mani si schiaccia, si spiaccica, si uniforma e compatta, non so se alla ricetta sia utile, di certo è un gran divertimento. Con Leo si sono trascorse ore piene di risate. Lui dice che l’uva si trasforma, diventa uvetta quando è  cotta,  e che quando aprirà  un ristorante, metterà la schiacciata nel menù. Quel profumo resinoso, insieme dolce e persistente, oleoso ma fresco, rimane sulla pelle. Dando un morso alla schiacciata, prima respiro fino a riempire la mente, riconosco e resuscito abbracci morbidi e stretti, amore soffritto, promesse di attimi eterni. Poi, il morso dolce aumenta la salivazione, è l’acquolina in bocca, nasce la lotta tra il desiderio di masticare piano e rendere giustizia ad ogni boccone, e la voglia di mangiare tutto e subito, fosse possibile in un boccone solo, nel tentativo di essere riempita in tutti gli angoli,  in tutte le curve, in tutti i nodi nei quali si corre il rischio che non arrivi. Pane e vino, alla fine è  quel pane e quel vino lì,  per me. Che ti rimane accanto e nutre, e non solo il corpo.

Spaghetti

SPAGHETTI AL RAGÙ – di Anna Meli

Foto di Aline Ponce da Pixabay

            Stiamo passando nuovamente un brutto periodo a causa del Corana virus. In questa forzata solitudine è piacevole e utile fra l’altro cucinare cose buone e dolci come le marmellate che serviranno per le crostate; infatti, mentre preparo le cotogne di Daniele, penso alle  domeniche trascorse con i miei familiari in allegria seduti a tavola. In quelle occasioni a grande richiesta era d’obbligo il ragù.

            La mattina, abbastanza presto, subito dopo la colazione, mettevo al fuoco un capiente tegame di coccio con dentro un trito di cipolla sedano e carota affogati in olio buono a soffriggere. Girando il mestolo lentamente, ne odoravo l’aroma  un po’ acre e ne osservavo il colore che via via si imbiondiva fino a divenire color nocciola intenso; era quello il momento di aggiungere la carne macinata seguita da un bel bicchiere di vino rosso e, una volta ritirato, la passata di pomodoro. Il ragù bolliva lentamente per un paio d’ore con l’aggiunta di poca acqua e via via cambiava colore: non più rosso acceso, ma di una tonalità più matura tendente al marrone. Il più era fatto: un assaggino mi assicurava che era venuto buono e saporito.

            Di lì a poco seduti intorno alla tavola si gustavano con piacere gli spaghetti al ragù della nonna e Cosimo, il più piccino, chiedeva “ Ma ce ne sono ancora? Non me li finite tutti, io ho molta fame”.

            Sono piccole gioie che in questo periodo fa piacere rivivere. Il buon cibo non solo soddisfa il gusto, ma ci regala momenti di semplice felicità (anche se penso con tristezza che non tocca a tutti).

Speriamo che questo maledetto virus se ne vada presto e ci insegni almeno qualcosa.