La foto 2 di Tina

Le figlie curiose – di Tina Conti

A chi assomigliavano quelle due ragazze non lo capiva certamente.

In che situazioni lo cacciavano ogni volta!

Lui , timido e silenzioso, amante del suo lavoro e del  paese, si trovava questa volta proprio nella condizione più  assurda.

La macchina, ferma e impantanata vicino al torrente, nessun punto di riferimento salvo quelle rotaie!

Da quante ore camminavano  non se lo ricordava neppure, per la fretta di uscire dalla macchina, con l’acqua  che si faceva sempre più minacciosa, si era dimenticato il giaccone e aveva afferrato una coperta.  

Si erano precipitati fuori, lui, già infreddolito.

Non era facile camminare sull’acciottolato, aveva i piedi doloranti, sentiva il bisogno del bastone che ormai usava più per   scoraggiare gli altri a fare richieste azzardate che per vera necessità.

Loro erano allegre e divertite, a lui mancava il fiato, si chiese perché aveva acconsentito a seguirle.

Nel laboratorio caldo e confortevole più della casa che amava e curava personalmente e non  permetteva a nessuno di pulire, la polvere si sarebbe infilata nei preziosi ingranaggi.

Lo aspettava il suo amato lavoro.

La sera prima aveva preparato le due rondelle del vecchio  quadrante nero e oro e le lancette della pendola tirolese erano state messe sotto la pressa, con i  colori a smalto aveva ricostruito i personaggi dell’orologio del municipio.

Era orgoglioso, con le foto del sindaco, le figure erano proprio vicine a quelli originali, la notte aveva sognato il padre, che orgoglioso lo abbracciava.

Pensava che sarebbero tornati a casa dopo poche ore.

Aveva fame e sentiva voglia del caldo latte  e caffè che si concedeva a meta’ pomeriggio, prima di andare a fare un giro per il paese, incontrava il fratello e gli amici, questo era il suo conforto, si sentiva parte di un mondo adatto a lui, osservava il tempo, le montagne, i boschi che cambiavano aspetto con le stagioni, respirava a pieni polmoni, questa era la sua vita.

Non avrebbe cambiato niente  delle sue abitudini, se non fosse stato per quelle due ragazze, agitate e inquiete, sempre alla ricerca di novità.

La foto 2 di Patrizia

Alba – di Patrizia Fusi

Mentre cammino su questa strada ferrata piena di ciottoli con la mia sorella gemella e il mio fratellone, stanchissimi perché è da ieri sera che camminiamo pieni di paura, il sole ci illumina.

Mi sento tanto triste e spaesata, mi chiedo che cosa ho di diverso dalla gente di questo paese.

Cosa ho deciso io di questa mia situazione.

E’ una colpa scappare dalla guerra?

E’ una colpa desiderare una vita migliore?

Quali giochi politici ci sono nelle guerre e nel tenere nell’ eterno sotto sviluppo molti paesi, mettendo la popolazione alla fame?

E’ una colpa volere scappare da tutto questo?

Eravamo una bella famiglia della media borghesia siriana, composta da padre madre, nonna e nonno, mio fratello grande e io e la mia sorella gemella, la vita scorreva serena fino a quando sono arrivati i primi attentati, la popolazione si è divisa in fazioni, si sono formate le milizie militari, sono iniziati la caccia all’avversario, le bombe che scoppiavano, il terrore che si sprigionava intorno a noi, tanti morti, tanto sangue, fame, paura.

La nostra famiglia si è procurata un bel po’ di soldi per farci scappare in Francia pensando che fosse un paese accogliente (egualité….fraternité).

Dopo un lungo viaggio pieno di difficoltà, ci siamo ritrovati a vivere nella grande bidonville di Sant Denis, da lì ci hanno fatto sgombrare.

Io e i miei fratelli abbiamo trovato accoglienza presso alcune associazione di volontari che danno assistenza a non profughi, ma sempre precari.

Con l’ aiuto dei volontari, per attirare l’attenzione delle persone e delle istituzioni sulla problematica dei rifugiati, abbiamo occupato pacificamente con delle tende la Place de la Republique, la piazza era piena di profughi, volontari, giornalisti.

Ci hanno fatto sgombrare con violenza.

Ho tanta malinconia dei miei famigliari, mi manca la mia vita precedente, ho paura per me e per i miei fratelli, sento l’incertezza del vivere, mi sento diversa, non capisco perché facciamo tanta paura, mi sento un po’ meglio sentendo vicino a me la mia sorellina e il mio fratellone mi sento protetta da lui.

Siamo un’altra volta in cammino, per dove?

Dov’è l’umanità?

Dov’è chi scatena le guerre?

Dov’è chi fabbrica le armi?

Dove sono chi mette alla fame i popoli? Dove io e miei fratelli e gli altri profughi potremo fermarci ed esseri accettati come esseri umani dal potere ma anche dalle persone comuni?

Foto 1 di Carla e Vanna (il finale)

L’interrogatorio – di Carla Faggi

Il commissario Grintolin piazzato a gambe divaricate davanti alla grande lavagna cercava di far quadrare la situazione. Troppi personaggi, troppe complicanze.

Ma lui era alla vecchia maniera, una lavagna, un gesso e tante caselle da far combaciare.

Allora vediamo, professore di francese, allieva prediletta, l’insofferente. Hanno un alibi tutt’e tre e poi che c’entrano con la vittima? Pensò grattandosi la folta chioma.

Però …aspetta un po’…Antonioooo! Controllami con il drone il percorso dell’indifferente per tutto il tempo che è rimasta sola…sbriiigati, per la misera!

E poi…vediamo un po’… c’è Danilo il narciso e Giovanni il depresso che hanno trovato il corpo della vittima…poi abbiamo Furio il morboso sadico e Ettore il sensibile che è il maggior indiziato…Francescooo! Convocami subito Ettore e l’insofferente…Suuubito ho detto!

Bene, bene , bene, il commissario mani dietro alla schiena andava avanti e indietro mugugnando, l’ispettore Scrupoloso Antonio registrava il tutto con il registratore ufficiale, la Psicologa Dottoressa Vann sedeva in fondo alla stanza.

L’ispettore iniziò l’interrogatorio urlando ai due: ambedue avevate un movente e nessuno dei due ha un alibi credibile…Ettore seduto a disagio e a testa bassa si alza di scatto e piagnucolando: come sarebbe a dire…io l’amavo…Silenziooo! Il rimbombo della voce cavernicola riportò Ettore a testa bassa timoroso ma non sembrò minimamente scuotere l’insofferente la quale mostrava indifferenza

e menefreghismo.

L’amavi eh? Ti piaceva ma lei niente, magari preferiva quel Danilo e tu preso dalla gelosia dopo il litigio avvenuto nel tuo appartamento l’hai fatta fuori…magari con la complice qui presente…controlleremo se ci sono tracce di dna della vittima nell’appartamento e…Ettore scoppiò in un pianto dirotto…non volevo, io l’amavo, è stata lei…tutta colpa sua …balbettò indicando l’insofferente, la quale si alzò di scatto : stai zitto imbecille! E’ stato lui , è stato lui, io non c’entro!

Pooortateli via! tuonò soddisfatto l’ispettore, arrestateli!

Bene, bene, bene, allora cara signorina dottoressa psicologa Vann che ne pensate? Abbiamo fatto un bel lavoro, potremmo andare a festeggiare questa sera a cena io e lei, propose Grintolin sorridendo per la prima volta e carezzandosi in tono soddisfatto il prominente ventre, naturalmente dopo aver apprezzato con un’occhiata gli aderenti jeans della dottoressa.

Emh, emh l’ispettore Scrupoloso Antonio non sembrò molto soddisfatto di ciò che aveva sentito, voleva intervenire, quando il telefono squillò e…commissario, commissario! Hanno trovato un cadavere in piazza sotto un lampione, bisogna intervenire subito! La dottoressa psicologa Vann ne approfittò per dileguarsi…

La foto 2 di Stefania (il finale)

Un minuto e venti secondi- di Stefania Bonanni

Credevano bastasse decidere, per costruirsi il destino. Ed erano le 19,30 di quella domenica di fine novembre. Si chiusero il portone alle spalle, uscivano per andare a cena. Durò un minuto, poi hanno saputo: durò un minuto e venti secondi. La casa gialla con la torretta si sbriciolo’ come un biscotto sotto le ruote di un trattore, ad una ad una cascarono tutte le case del corso .

Loro tre erano insieme, stavano bene, avevano maglie e coperte.  Sui binari non arrivavano macerie, tutte le altre strade erano impraticabili. Potevano camminare, era la vita quella che avevano davanti, e camminarono, insieme verso il sole.

La foto 1 di Mirella

4 PERSONAGGI IN CERCA, NON DI AUTORE CHE GIA’ CE L’HANNO, MA DI QUALCOS’ALTRO – di Mirella Calvelli

Alzarsi presto, all’alba, non era mai stato un problema per nessuno di loro. Sopratutto per soddisfare la loro curiosità, la loro passione per la fotografia.

Erano esperti nel scovare le giuste giuste angolazioni, anche se per raggiungerle dovevano arrampicarsi per chilometri su viottoli impervi, calarsi in dirupi , sgominando cespugli e macchie fittissime. Erano abituati.

Amavano, dopo tanta fatica, commentare all’unisono che quello era il posto più bello mai visto, che meritava tutta quella fatica.

L’ultima impresa non annientava la precedente, ma la relegava ad una posizione meno eccellente, per poi essere retrocessa una volta che partivano per una nuova impresa.

Si, perchè di imprese si trattava, portarsi dietro tutto l’equipaggiamento, macchine fotografiche, grandangoli,  cavalletti, persino le luci. E nessuno di loro fiatava sugli sforzi o sull’inutilità di tutti quegli attrezzi, perchè non se lo sarebbero mai perdonato, se una volta raggiunta la meta, proprio uno di questi fosse stato  lasciato indietro, solo per fatica.

Tommaso, Pietro, Riccardo e Mimmo, questo era il quartetto delle spedizioni.

Si conoscevano dall’infanzia, qualcuno e qualcun’altro dall’adolescenza, per un susseguirsi di vicissitudini  che li aveva fatti incontrare, non  la scuola o lo sport, ma fratelli, amici comuni, sorelle fidanzate dell’uno o dell’altro, traslochi e disgrazie.

Tommaso, detto Tommy, era il più piccolo di età  e anche di statura. Era entrato in contatto con gli altri grazie alla zia Teresa, sorella di sua madre che lavorava nel negozio di frutta e verdura della famiglia di Pietro, detto il Lica. Soprannome che era stato di suo padre e alla sua morte avvenuta, purtroppo prematuramente ed improvvisa era divenuto il suo. Prima era per tutti Pietro il figliolo del Lica, ora Il Lica era lui.

Avevano trovato suo padre una mattina disteso nel retro bottega del  negozio di frutta e verdura , all’angolo del paese. Era stata sua madre a vederlo riverso sul pavimento, senza poter fare nulla, che non gridare e correre fuori nella piazza a chiamare aiuto. Un aiuto inutile, purtroppo. Un infarto, repentino di quelli terribili, che ti spaccano il cuore in due!!

Così aveva sentito dire Pietro, così tante volte, da farsi un’idea pressochè scioccante da film horror.

E forse saranno stati questi eventi che Pietro aveva deciso di iscriversi a medicina. Ma il negozio aveva bisogno anche delle sue braccia soprattutto al mattino per andare ai mercati generali.

Mica ci posso andare io Pietro a quell’ora. Diceva sua madre. E così, doveva alzarsi alle 4  per fare questa, commissione, la chiamava così sua madre.

 A lui non pareva proprio una commissione, buttarsi giù da letto a quell’ora nefasta. Partire con l’Apino, caricarsi come un mulo da soma e scaricare tutto in negozio.

Poi vestiva i panni dello studente universitario e partiva alla volta di Careggi con la sua vespina 50 bordeaux.

Tutti questi insetti da locomozione, uno da lavoro e l’altro da studio. Chissà quando ne avrebbe avuto uno per tutt’altro. mah!!

Ed era per questo che sua madre aveva cercato altre due braccia per poter aiutare e poi magari sostituire Pietro. Perchè, diceva sua madre, Il mio Pietro studia per fare il dottoreeee.

La signora Teresa che aiutava Agnese la madre di Pietro in negozio, aveva con garbo e timore suggerito il nipote della sorella, Tommaso, Tommy o Tommino.

Un gran bravo ragazzo, diceva la zia,  ma la fa penare la mia sorella, non studia e non si sa dove voglia andare a battere il capo!!

Vediamo se alzarsi alle 4 lo rimette un po’ in riga e cominci a dare un senso alla sua vita.

Era piccolo di statura Tommy, una massa di riccioli neri gli incorniciavano il viso. Il fisico minuto, ma atletico, non dovuto ad attività fisica precisa,  ma alla sua natura, tutto come suo padre!! Anche per la poca voglia di lavorare.

Si contrapponeva a Pietro, che invece era altissimo e si attorcigliava come un contorsionista, tutte le mattine per entrare nell’Apino.

Anche lui aveva dei bei riccioli, castani, con degli occhi verdi bellissimi. Il naso era un po’ troppo pronunciato e il suo fisico longilineo faceva da contraccolpo a lla sua altezza. Tutto era grande, anzi lungo, in lui. Non aveva parvenza di sportivo, anche se per molti anni aveva giocato nella squadra di basket, proprio grazie alla sua altezza. Era chiaro adesso fra la morte del padre,  la bottega e l’università aveva dovuto mollare il pallone e il canestro.  L’unico cestino che centrava era quello della carta straccia , mentre ripeteva anatomia patologica ad alta voce  ed ogni successo veniva premiato con un canestro!!

Riccardo, detto il Ricca era il più sportivo, era il più tecnologico, era l’ammaliatore della troupe!!

Riccardo sembrava avere tutto, era bello, con un fisico veramente atletico, costruito con tanti anni di sport, palestra, nuoto e jogging giornaliero.

Riccardo da piccolo era bellissimo, ma pacioccone, sicuramente sovrappeso. E questo, deficit, così lo considerava lui, lo aveva costretto una volta presa coscienza a dedicarsi allo sport. Giocando prima a calcio, poi iscrivendosi in piscina ed infine in palestra, dove aveva trovato il suo indirizzo atletico nella disciplina moj thai.

Riusciva bene in questa attività, grazie alla sua prestanza fisica, alla sua altezza e scioltezza. Era bello vederlo slanciare le gambe, girandosi in aria , in un avvitamento su se stesso. Era diventato nel 2017 campione italiano di Moj Thai e aveva dedicato questo titolo a suo nonno materno.

Non era portato per gli studi, sua madre aveva visto i sorci verdi con lui a scuola. Non amava studiare, non amava leggere ed era stato difficile finire il corso di studi.

Poi l’amore per la tecnologia e i vari giochi elettronici, lo avevano avvicinato a questo mondo, scoprendo un po’ alla volta la sua passione e aiutandolo come un terzo braccio o un terzo occhio a completare gli studi da studente serale.

Era stata faticosa questa escalation, ma aveva concluso, o meglio iniziato un cammino, che non lo faceva più sentire a disagio. Non era più quel piccolo che si vergognava e non si spogliava volentieri al mare. L’elefante nella cristalleria con tanto sforzo, presa di sé, si era trasformato in un bel ragazzo, piacente, spiritoso ed informato.

Il nome, Riccardo,  glielo aveva scelto sua madre , in primis per la nascita in luglio, e quindi sotto il segno del leone e per la speranza che divenisse un uomo dallo spirito impavido, un  Riccardo Cuor di Leone. E questo nome lo  calzava a pennello. Era un ragazzo estremamente generoso e premuroso.

Proprio perchè arrivava da un’infanzia e da un’ adolescenza nella quale  aveva sofferto, non solo per il suo aspetto fisico e per la fatica a concentrarsi, ma  anche a  causa della separazione dei suoi e sopratutto dell’abbandono del padre. Non era stato tutto negativo. Si era   forgiato e si era reso  un ragazzo sicuro ed affidabile, con la voglia di emergere in ogni attività che faceva.

Si era rasato  completamente i capelli quando cominciavano a crescere stentati, lasciando parti semi scoperte. In contrapposizione si era  fatto crescere una bella barba fluente, ben curata, con sfumature che andavano dal castano dorato al rosso. Era  stato un modo per crearsi la sua identità. Piaceva molto alle ragazze , non solo per il suo aspetto, ma per i suoi modi educati e gentili, senza essere effeminati. Era abituato a stare con la madre e la sorella e conosceva bene fino a dove e cosa poteva in loro presenza, ma anche assenza, fare.

 Fra le sue prime fiamme c’erano state Carlotta, la sorella minore di Mimmo, ed in seguito Chiara la cugina di Pietro, la sorella che non aveva mai avuto.

 L’ultimo, ma solo in ordine di descrizione,  Mimmo, ma il suo nome era Domenico, di origine siciliana, palermitana per la precisione.

Era arrivato piccolissimo al paese a seguito dei genitori, di tre fratelli più grandi e due sorelle più piccole. Gli ultimi due , invece, nasceranno  al paese, facendo in totale 8 bocche da sfamare. Il padre era muratore e anche al paese continuò la sua professione, la madre ovviamente aveva già un bel daffare a gestire tutto il clan. L’impegno della coppia  rese possibile, che tutti i ragazzi e le ragazze, nessuno escluso potessero studiare, se non fino all’università almeno alle superiori.

Comunque la numerosissima famiglia, aveva fatto scalpore al paese già non appena si era trasferita.

Ma tutte le chiacchiere iniziali finirono presto con l’esaurirsi, quando il paesello si accorse che la suddetta coppia faceva gli affari suoi e i suoi ragazzi, nel bene o nel male non creavano motivo di pettegolezzo, anzi dimostravano ognuno con le proprie caratteristiche e qualità di che pasta erano fatti. Mimmo, ad esempio era stato fra tutti quello un po’ più sfortunato, poiché all’età di 10 anni gli era stata scoperta una malattia rara autoimmune che aveva costretto lui e i suoi ad andare ogni mese al Gaslini di Genova per curarsi.

Oltre allo stress, alle spese e alla fatica, quegli anni volarono, e proprio in quel periodo difficile che Riccardo e Mimmo divennero amici, prima delle partenze per l’ospedale  fra paura e ansia e poi  durante i rientri a casa  che lo rendevano fragile e stanco. Ma pian piano Mimmo imparò a condividere il suo tempo con la malattia al suo fianco, inondato dall’amore dei suoi, che anche se avevano altri 7 a cui badare, si sa il più debole e bisognoso assorbiva tutte le  attenzioni e preoccupazioni.

Mimmo, amava giocare a calcio e fra una cura e l’altra dedicava tutto il suo tempo a rincorrere il pallone sul tappeto verde. Anche se era gracilino e a volte un po’ emaciato aveva la forza e la grinta  di un leoncino . I suoi tratti erano poco meridionali, lunghi capelli biondi e occhi scuri come due more. D’altronde il parco macchine in famiglia era il più arzigogolato, chi era biondo occhi verdi come la madre, chi moro con occhi scuri come il padre, ma c’era anche chi si diversificava  tra capelli scuri e occhi azzurri e via via , ognuno con i propri tratti, ma un’unica matrice.

La famiglia aveva imparato a giocare di squadra e tutti erano propensi verso l’altro e l’altro verso tutti in un gioco all’infinito e questo era il loro bello.

Riccardo era a suo agio in quella famiglia, dove tutti sembravano interessati a tutti e tutti a nessuno.

E lui fu accolto, come il n.11.

Mimmo riuscì a superare la fase critica dell’adolescenza e alla fine si ristabilì in maniera eccellente  da permettergli non solo di lavorare, diventando un bravo giardiniere e aprendo una sua ditta con tanto di operai, rigorosamente non di famiglia, se non in rari casi in cui lo staff famigliare  interveniva se di supporto o di  manovalanza c’era bisogno.

E questi sono i 4 ragazzi in cima alla collina, in un mattino di estate con le loro macchine fotografiche a tracolla a fotografare o cercare di fotografare un attimo, un istante che rimarrà nelle loro vite e non solo su un digitale o sulla carta patinata, dove amano trasportare i loro scatti migliori, ma nel profondo delle loro anime dove ognuno di loro vedrà qualcosa di sicuramente diverso dagli altri.

La foto 2 di Luca

Notte Rumena – di Luca Di Volo

Quella notte in quel paese, un paesino qualsiasi, adagiato in una boscosa valle dei Carpazi. . quella notte, dicevo,  si era scatenato l’inferno. .

Non bastava che dal principio dell’Estate il maledetto colera avesse infierito in tutta la vallata. Isolata com’era, non aveva diffuso la malattia. . ma nemmeno aveva avuto aiuti, Chissà, forse a Bucarest nemmeno lo sapevano, così sua maestà il colera si era preso più di tre quarti degli abitanti.

Ma quella notte. . in quella notte maledetta. . si erano scatenati i quattro cavalieri dell’Apocalisse…. ed avevano cominciato ad appiccare incendi un po’ dappertutto…

Quando Iacov e le sue due sorelle, Elena e Maria, si accorsero che questa volta la folla, ormai regredita ad uno stadio pre-umano, si stava dirigendo verso la loro casa…non esitarono un momento…coi vestiti che avevano addosso, misero alla rinfusa un po’ di viveri in una borsa e via…. Iacov fece appena in tempo ad afferrare al volo una specie di coperta, intuendo con impressionante chiarezza che quella sarebbe stata l’ultima occasione in cui avrebbero visto intera la loro casa adorata…

Ma non c’era posto per i rimpianti, la folla feroce muggiva come una legione  infernale e la lunga colonna di fuoco  si muoveva sinuosa e terribile, però sembrava guidata da una sorta di bestiale intelligenza . . il che faceva anche più paura. . se fosse stato possibile. .

Seguendo solo l’istinto, abolita ogni forma di pensiero superiore, Iacov, Elena e Maria, senza esitare,  trovarono un binario che riverberava sinistramente le fiamme…. E si misero subito a seguirlo, obbedendo all’istinto primitivo. . era pur sempre una strada . . e da qualche parte doveva portare…

Non era vero ……ci pensarono solo  quando, trafelati, dopo qualche ora di corsa disperata si erano fermati e i loro cervelli avevano ripreso un po’ di vita. Già…non era vero. . dal paese partivano solo due binari. . uno portava a Timisoara.  E lì avrebbero trovato qualcuno per aiutarli…ma l’altro. . l’altro era un binario morto. . In passato era servito per trasportare carbone dalle miniere, ma ora, finito il carbone, era stato dismesso…e non portava più da nessuna parte.

Fu Elena a parlare per prima,  profondamente religiosa, espresse così il suo parere “Non disperiamo. . dev’essere per forza quello perTimisoara…Dopo averci salvato dal colera e dalla folla assassina, non vorrete mica che il buon Dio ci abbandoni proprio ora?! Lui non agisce così…. . ”

“ E che ne sai tu?Che te lo dice a te?!”Iacov (e si vede) non poteva sopportare il fideismo iperreligioso della sorella. .

“E’ perché non hai la Fede…. ”

“Ma state zitti…. vi sembra sia questo il momento per le vostre dispute teologiche. . ?!”Maria. . contadina piena di buon senso…poco portata per i sofismi…li aveva interrotti subito. ”Non sappiamo ancora cosa ci aspetta…. Ma siamo ancora giovani…. forza…andiamo. . ”Altro che Iacov. . il vero uomo tra di loro era lei. .

E ripresero il cammino. Quei binari sembravano non aver mai fine. .

“O quanto c’è per arrivare a Timisoara…. qui sta per venire il buio. . ”

“Iacov risparmia il fiato e non fare domande cretine. . se lo sapessi ti pare sarei tanto preoccupata?!

Intanto il Sole accarezzava sfiorandolo l’orizzonte Ovest, abbagliante come non mai.

Bisognava approfittare di quell’ultima luce per andare il più possibile avanti…di notte era meglio fermarsi.

Fu in quel momento che si fece udire il suono di tanti campanelli, insieme ad uno stridio di ruote …un po’ fuori moda.  

Si voltarono: una sontuosa carrozza nera immensa, guidata da quattro cavalli neri…di un nero più che notturno, quasi con riflessi azzurrini. .

Stava arrivando velocissima e, con una gran frenata si fermò accanto a loro.

I tre fratelli erano rimasti imbambolati a bocca aperta come tre allocchi colpiti dalla luce…Non stavano pensando a nulla, con tutte le loro facoltà impietrite, quando da quell’anacronistico veicolo si spalancò uno sportello ed una mano bianca, bianchissima…fece loro cenno di avvicinarsi…

La figura del padrone della mano era difficilmente visibile nell’oscurità incombente, ma la voce risuonò dolce, sonora…angelica, si sarebbe detto.

“Ma dove credete di andare. . questo binario porta alle miniere abbandonate, non lo sapete? Laggiù c’è solo il nulla…. ”

“Veramente. . noi si pensava di andare a Timisoara…”Iacov per miracolo aveva ritrovato la parola. .

“Ma davvero…. Via…permettetemi di aiutarvi. . Io non sto andando a Timisoara, scenderò prima…ma vi ci porterà il mio cocchiere. . Forza, salite. . ”

In quel momento il cocchiere si era girato per guardarli…Elena si era stretta a Iacov…. distogliendo lo sguardo. . ”Iacov. . sei sicuro. . ma l’hai visto che razza di ghigna che ci ha questo figuro. . ?!”

“Ma non deve mica vincere un premio di bellezza…. ragazza mia…sei troppo impressionabile. . ” Faceva il fenomeno ma un po’ di tremarella quel viso l’aveva fatta venire anche a lui…

L’unica a rimanere impassibile era stata Maria. . solida mente contadina, piedi in terra e pedalare…Senza farsi pregare salì a bordo.

Gli altri la seguirono. . chiedendo educatamente “permesso. . permesso…scusi il disturbo. . ”si accomodarono su quei sedili, neri, naturalmente…ma morbidissimi, avvolgenti…Una vera delizia per chi camminava da ore…E poi lo spazio. . velluti, tendaggi. . rigorosamente tutti scurissimi, comunicavano una sorta di splendore barbarico…Un’opulenza quasi oltraggiosa…

 La carrozza avanzava nella notte senza ballonzolii, senza scosse. . sembrava volasse…

I tre spauriti passeggeri guardavano ogni tanto di sottecchi il generoso signore…. sì perché un “signore” lo era di sicuro…Lineamenti aristocratici. . naso fine. . quasi greco. . bocca un po’ tumida . . Aveva il labbro inferiore lievemente cadente che gli conferiva una strana espressione da eterno bambino crucciato.  I capelli, pochissimo visibili dietro l’alto tricorno…. Iacov, a proposito, aveva notato che il copricapo era un po’ troppo alto: sembrava non appoggiarsi direttamente sui capelli…ma forse la stanchezza lo faceva diventare strabico. . E poi c’erano gli occhi…che erano nerissimi…ma anche acuti…sembravano bucare l’interlocutore…forse avevano visto cose che…. Iacov scantonò dai suoi pensieri, era  la stanchezza…. gli faceva sempre venire in mente pensieri morbosi…

Però, nonostante la stanchezza, tentò un abbozzo di conversazione ”Lei, signore, non è di queste parti, vero? L’avrei visto di sicuro se per caso fosse passato nel nostro villaggio. . ”

“No no, io viaggio molto . . ma lì non ci sono ancora arrivato…”La voce era melodiosa, ma…. c’era un lieve sottinteso ironico? Nella piega della bocca…nel breve luccichio degli occhi…

Ma Iacov continuò…quella figura insolita e anacronistica  lo incuriosiva parecchio…” E dove si stava recando Vostra Signoria?. . . Forse le stiamo facendo perdere tempo”

“Ah, per me il tempo non conta molto. . si tranquillizzi…anzi mi fa piacere viaggiare in compagnia. . ”Di nuovo quel guizzo impercettibile degli angoli della bocca. . Dava l’impressione di godersela un mondo…A Maria ricordò l’immagine di un gatto col topo…

“Ma volevate sapere dove stavo andando. . ? Ve lo dirò…. stasera ci sarà una festa. . una grande festa…Peccato che voi mortali non possiate intervenire. . abbiamo finito gli inviti. . ”

Con la coda dell’occhio Iacov vide che Elena di nascosto si faceva in continuazione il segno della Croce…

“Noi…mortali?!”

“Beh non è colpa vostra…ognuno ha il suo posto…”

Iacov tacque. . il misterioso personaggio anche. Maria non aveva ancora pronuciato una parola. . Ma Elena era terrorizzata…Sussurrò a Iacov con voce rotta dai singhiozzi. . ”Vedi cosa succede ad essere egoisti? Se tu avessi prestato quelle dracme al povero Dimitri. . ora non saremmo qui…. ”

“Zitta zitta Elena…. tanto saremo tra poco a Timisoara. . ”

Ma Elena non si calmava. . ”ma l’hai capito CHI è…. ?!Sei tanto ateo da non capirlo?…è LUI, ti dico…LUI!!”

Intervenne il loro ospite   con un sorriso. . ”Fossi in lei caro Iacov . . non brontolerei sua sorella…potrebbe essere nel vero più di quel che lei può pensare. . ”

Maria a questo punto urlò. . ”il Diavolo…lei è il Diavolo…. !!!” E svenne….

“Per servirvi signori…. e se avete bisogno di altre prove. . guardate qui”. . con fare noncurante sollevò appena la coperta da viaggio con cui si copriva le gambe. . un attimo, ma fu sufficiente…quelle zampe di capra ispide di peli arruffati…quegli zoccoli caprini. . non potevano mentire. .

Tanto fu il terrore che anche Iacov e Elena svennero insieme…

Furono svegliati da un coro di voci allegre, stavano rallentando inoltrandosi fra una marea di gente festante. . alcuni in maschera, altri in abiti da gran sera…le signore, con abiti che mostravano forse più del dovuto erano rosse in viso e ridevano…ridevano…

Finalmente la carrozza si fermò.

Un uomo alto magnificamente vestito si fece incontro al Signore gridandogli ”Siate il benvenuto Vostra Grazia…voi Mylord onorate il nostro modesto ritrovo. . ”

Il loro compagno si alzò…

Allora andava davvero ad una festa…pensò Iacov…un po’ incongruamente…

Ma Sua Grazia si fermò sul predellino…”Amici”. . arringò la folla che gli si stringeva intorno…”Amici. . stasera ve ne dico una bella…vedete questi tre bifolchi qui con me? Ebbene… gli ho fatto credere di essere nientemeno che il Diavolo!!”

Una risata omerica coprì le sue ultime parole…Sghignazzando si rivolse ai tre malcapitati…. ”Guardate per che cosa vi siete terrorizzati…” Si tolse i finti gambali a forma di capra gettandoglieli sul sedile accanto…”Ma non vi ha insegnato nessuno che la preoccupazione più grande del Diavolo è convincervi che non esiste?!”

Maria e Iacov fulminarono Elena con lo sguardo…”Accidenti alla tua superstizione. . ci avevi fatto cascare anche me…”

E, rivolto a Sua Grazia, Iacov quasi si scusò. . ”Ci perdoni Eccellenza. . siamo poveri contadini ignoranti. . ma lei ci ha fatto quasi morire di spavento. . ”

“Questi zecchini vi ricompenseranno?!” E gettò loro una borsa tintinnante.

“Eccome. . ” E tutti e tre si precipitarono a baciargli le mani. . che lui ritirò disgustato.

Scese, finalmente, gridando al cocchiere “Nicolaij. . porta questi nostri amici a Timisoara…. E poi torna a prendermi. . ”

“Ma, eccellenza. . non dovevo andare nella “ri”…?!”

Un rombo di tuono. . ”Fai come ti dico”. . ma la voce tornò subito melliflua. . ”arrivederci cari amici . . e non vogliatemene se mi sono divertito un po’ con voi. . ” E si perse nella folla festante. .

La carrozza ripartì. . sempre col suo andare leggero senza scosse né sobbalzi.

Seduti comodamente sui morbidi cuscini, i tre fratelli  erano tranquilli, quasi felici. . come lo si è, di solito, dopo uno scampato pericolo. . la casa era assicurata. . problemi non ce n’erano e finalmente la mattina dopo avrebbero scorto le cupole di Timisoara. .

Sarebbero stati meno beati però, se avessero potuto captare i pensieri del conducente che erano invece questi…”Io Sua Maestà proprio a volte non lo capisco…ma che bisogno c’era di portare tre poveri disgraziati proprio alla festa della notte di Valpurga?! E lo sapeva benissimo che se un mortale avesse visto era condannato alla “rimessa”…. che non era un posto piacevole…qualcuno la chiamava anche “Inferno”. . un nome antiquato, però…

Con decisione improvvisa frenò bruscamente la carrozza facendo fare ai passeggeri un gran ruzzolone. .

Scese da cassetta, aprì lo sportello ingiungendo con modo brusco ”Scendete, per l’amor di…. ” quel nome non poteva pronunciarlo ma si sentiva bene l’urgenza nel tono…I tre protestavano. . si erano abituati alle comodità… ”Ma come. . qui, nel mezzo della notte?!”

“Ci sono cose peggiori …scendete, mettetevi a camminare…più svelti che potete…Poi, quasi rivolto a sé stesso… ”forse perderò il posto per quello che sto facendo. . bah. . tanto non mi piaceva. . “

Saltò di nuovo a cassetta e in meno di un attimo ripartì. .

Rimase la notte, i tre fratelli e le stelle che avevano capito tutto…

La foto 1 di Laura

I quattro dell’aurora – di Laura Galgani

Anche volendo scappare, ormai era troppo tardi.

Questo il pensiero fugace che attraversò la testa di Martina mentre Alberto, il suo compagno, le passava i pesanti pezzi dell’attrezzatura fotografica, per essere libero di montare lo stativo.

Il sole, che non aveva mai raggiunto più di 30 gradi sulla linea dell’orizzonte, era già in parabola discendente.

Nonostante il perfetto abbigliamento termico, Martina sentiva le estremità pungere, intorpidite dal freddo.

Era molto magra, ossuta quasi, e il vento riusciva ad infilarsi nei più piccoli interstizi fra la sua pelle e tutto ciò che aveva addosso, facendola rabbrividire.

“Ecco, ho fatto, passami la Canon.” Alberto, senza alzare lo sguardo dallo stativo, allungò una mano per afferrare il costoso apparecchio. Lei, per il freddo e la tensione, si intrecciò coi guanti fra la cerniera del giubbotto ed il laccio della macchina fotografica. “Allora, ti ci vuole tanto? “ quasi le urlò in faccia Alberto, stavolta guardandola dritto negli occhi, che a lei parvero rossi, non sapeva se per il vento o la rabbia.

Martina riuscì ad allungargli la Canon senza farla cadere. Aveva il terrore di rovinare quella costosissima attrezzatura. Poi si accoccolò vicino ad un cespuglio di erica color porpora e abbassò lo sguardo sulle rocce cupe. Due lacrime bagnarono un insetto che veloce transitava di lí rotolando una briciola del loro parco spuntino.

Stefano, il fotografo capogruppo che li aveva invitati a partecipare a quel viaggio nella Lapponia russa, dopo che l’anno precedente erano stati insieme nella parte finlandese, si era accorto della tensione fra i due, e girando la testa verso Martina le aveva rivolto un sorriso aperto e incoraggiante. Lei aveva percepito il suo sguardo e si era voltata verso di lui, lasciandosi sfiorare dal desiderio di Stefano di consolarla.

“Ragazzi, allora, tutti pronti? Dai, che il cielo è limpido, fra poco fa buio e abbiamo buone probabilità di vedere una aurora boreale super! “ Stefano era così, non si perdeva mai davanti alle difficoltà, pensava sempre che, se un progetto falliva, uno più grande avrebbe avuto successo.

Si sentiva un po’in colpa per gli aspetti deludenti e difficili di quel viaggio : la regione di Murmansk non era paragonabile ai paesaggi incantati della Lapponia norvegese e finlandese, e poi… non c’era nemmeno la neve!

Il suo “fedele” amico John, esageratamente barbuto e capellone, che lo accompagnava sempre nei suoi viaggi avventurosi, era un incontenibile buontempone e riusciva a far battute in dialetto torinese anche nei momenti in cui davvero non ci sarebbe stato niente da ridere. E menomale che poi le traduceva in italiano! Ne sparò una delle sue e anche Alberto rise, almeno per un attimo. Alberto era così, impegnato a far soldi nel quotidiano e a trarre il massimo profitto da una vacanza, anche se assurda come quella. Il che voleva dire scattare le foto più belle e originali di tutti per poi venderle a caro prezzo su Internet. La competizione con Stefano era accesissima, da anni ormai. Ma Stefano non se ne curava. Era profondamente convinto che ciascuno avesse il proprio destino e che la creatività non dovesse essere inquinata da secondi fini. Per questo lasciava credere ad Alberto di essere in gara con lui.

Il cielo si scurì, innumerevoli stelle cominciarono ad apparire, una dopo l’altra.

Martina era l’unica a non avere un mirino dentro cui cacciare lo sguardo, imprigionandolo. Era libera di lasciarlo vagare in quell’immensità che si tingeva pian piano di colori surreali: prima verde, poi arancione, spezzato da lampi di rosa e fasci di luce bianca. La danza dell’aurora boreale era iniziata. E mentre gli altri si davano da fare coi loro costosissimi macchinari lei si lasciava andare alla bellezza sovrumana di quel cielo.

Pianse, pianse con forza, volendo spremere dalle viscere dal cuore e dalla testa tutto ciò che fino a quel momento nella sua vita l’aveva oppressa: il doversi adeguare, l’essere remissiva, il mettersi da parte, il dire di sì per dovere.

Accolse quei bagliori come fiamme che bruciavano ciò che ormai era legna secca in lei. Si lasciò dilatare dall’energia possente che pioveva dal cielo e la liberava. Come un’araba fenice, in quella terra gelata trovò una nuova nascita. Fuoco, amore, passione. Non vi avrebbe più rinunciato.

Nel momento culminante dell’aurora Stefano lasciò la macchina fotografica e alzò le braccia al cielo, poi cadde in ginocchio piangendo di gratitudine.

Ci voleva un momento come quello per far trovare a ciascuno, dentro di sé, un atomo di verità…

La Foto 2 di Sandra

In cammino – di Sandra Conticini

Silvia aveva bisogno di prendere un periodo di riposo. La sua vita era stata segnata da un evento tremendo, non sapeva se sarebbe riuscita a superarlo. Sembrava che lui avesse un periodo tranquillo, stavano bene insieme, e lei lo avrebbe lasciato qualche giorno  per tornare al suo paese dove ad aspettarla c’erano i  genitori e gli suoi amici di sempre. .Durante il viaggio si messaggiarono spesso, ma la sera  lo chiamò  diverse volte al telefono, ma non  rispose. Chiamò i genitori, lo studentato dove  alloggiava, amici, nessuno aveva notizie di James. La notte fu un incubo che durò fino al mattino  quando arrivò la telefonata che James si era suicidato ingoiando  una scatola di barbiturici.

Per Silvia passarono giornate di disperazione e dopo diversi mesi decise di fare un pezzo del  Cammino di Santiago insieme a Laura. Iniziarono  da Lugo in Galizia e tutti i giorni facevano 20-25 chilometri, ed i piedi erano doloranti, non si erano allenate, e comunque trovavano altre persone  ferme con il mal di piedi, ma  c’era sempre qualcuno che aiutava o dava un consiglio per ripartire. I giorni passavano e la stanchezza si sentiva, Laura fu presa dallo sconforto e decise di tornare a casa lasciando Silvia sola che  non si scoraggiò, sulla strada trovava persone che le davano sicurezza e aiuto,  potevano fare la strada insieme. Era bello anche stare da soli ad ascoltare il silenzio, rilassarsi attraversando i prati verdi o passare dai boschi di eucalipto e sentirne il profumo. Stava bene, la natura l’aiutava a ritrovare se stessa ed ogni chilometro che faceva sentiva il  fardello che si era portata dietro  alleggerirsi. Aveva conosciuto tante persone: americani, neo zelandesi, spagnoli, francesi, insomma lì c’era davvero l’universo intero ed ognuno di loro aveva un motivo per fare quel percorso … si sentiva davvero felice. Un giorno  fu presa dal panico: si  ritrovò sui binari di una ferrovia dismessa, ma, per fortuna, incontrò Christopher, detto Chris, un ragazzo di Colonia che Silvia riconosceva dalla coperta marrone che portava sulle spalle, con il quale si erano ritrovati e persi diverse volte durante il cammino, così decisero di continuare insieme ed arrivarono a Santiago a ritirare la Compostela.

Era giunto il momento di salutarsi, ma  il destino diceva di fare il biglietto per la stessa città!

Così partirono in quella giornata di sole per Colonia.

La storia di Vanna e Carla continua……

La parola a Vanna Bigazzi……

 Anche se le tracce di dna rilevate nella duna e non sul corpo della ragazza, combaciavano con quelle del Professore di Francese, condotto subito alla Centrale, non significava che sicuramente avrebbe potuto essere lui il responsabile dell’omicidio. Del resto il Professore con l’allieva brancolavano in quella zona, aggrappandosi agli arbusti e avrebbero potuto non vedere il cadavere, sul far della sera… Per questo Grintolin non era convinto e voleva prove più schiaccianti. La Psicologa arrivò con un certo ritardo alla Centrale, scusandosi per un contrattempo accadutole proprio mentre stava venendo via dalla Casa di Cura “Sonni Tranquilli” (per le forti dosi di sonniferi somministrati ai pazienti onde, nottetempo, non disturbassero gli infermieri). La giovane Psicologa, che non rinunciava alla moda, si era recata in quel luogo con jeans troppo aderenti, causando l’inseguimento, da parte di un degente, lungo quei lunghi corridoi dell’antica struttura. Fortuitamente due del personale erano accorsi in suo aiuto ma poi la Psicologa, dovette subire le reprimende del Primario che la invitava ad indossare abiti più idonei. Frustrata, corse a casa ad acconciarsi dimessamente, dopo di che, velocemente, si diresse alla Stazione di Polizia. Grintolin era insofferente e pretese che anche lei iniziasse subito i colloqui con i due poveretti smarritisi durante un’escursione scolastica, oltretutto abbandonati dall’insofferente. L’interrogatorio-colloquio fu lungo ma neanche lei non riusciva a trovare  moventi validi per quell’uccisione. Non trascurò comunque di chiedere chi avesse trovato il cadavere ed espresse la necessità di parlare anche con i quattro scopritori. Casualmente, due giorni prima (data che, secondo il Medico Legale, poteva coincidere con la morte della ragazza) si era presentata alla Stazione di Polizia, una signora di mezz’ età per denunciare che al piano superiore della sua abitazione, aveva udito, in orario non sospetto, urla femminili e rumori assordanti. Pur essendo i due eventi del tutto scollegati, Grintolin mise in moto il suo connaturato, aggressivo, istinto investigativo e pretese che la signora osservasse, attraverso lo specchio spia, sia i due indagati che i quattro scopritori. A quel punto, con grande stupore, la signora riconobbe in Ettore, l’inquilino del piano di sopra.

Adesso, a Carla…         

La foto 2 di Carmela

Oltre la vita – di Carmela De Pilla

Ne parlavano tutti in paese della strada ferrata che univa Foggia a Napoli, si diceva che era stato inaugurato il treno elettrico proprio qualche mese prima, il 6 novembre 1931.
Alcuni uomini davanti all’unico bar del paese commentavano la straordinaria notizia:

  • Pensate che ho raggiunto Napoli in sole tre ore!
  • Madonna mia, se si va di questo passo tra qualche anno andremo sulla luna!
    Fu in quei giorni che Rachele si trovò con suo marito alla stazione di Foggia, si sentiva spaesata e impaurita e si avvinghiò al braccio dello sposo come un serpente per la gran paura di perdersi.
    Era bella Rachele, i suoi occhi neri più profondi del buio facevano intuire un’ intelligenza prespicace e acuta e la sua risata metteva ancora più in risalto gli zigomi ben pronunciati, segno di una raffinata bellezza in contrasto con la carnagione olivastra.
    Nel rione la chiamavano Lina la bella peròle sue amiche la invidiavano più che per la sua bellezza per quel fare un po’ folle che la faceva essere unica e diversa dalle altre.
    Quel giorno di luglio c’era una calura che toglieva il respiro, ci eravamo sedute sulla soglia di casa in attesa di un po’di fresco, lei, fradicia di sudore, in un attimo si slacciò il corpetto e la camicia per asciugarsi poi si sciolse le lunghe trecce e incominciò a dimenarsi con una naturale sensualità che molti si fermarono a guardarla, chi scandalizzato, chi affascinato da tanta grazia, poi con una risata fragorosa si alzò e scappò in casa.
    Era strana Lina, faceva cose inspiegabili, ma tutti ne rimanevano attratti e conquistati, ricordo quella volta che la ritrovarono verso il tramonto lungo la strada ferrata, affaticata e ricurva su se stessa con una coperta che ricopriva il suo corpo nudo.
    I suoi occhi vivaci e allegri erano spenti, i bei capelli neri erano arruffati e sporchi di fango e continuava a dire:
    -Ho lottato stanotte, ma ha vinto lui, devo andare oltre la vita, oltre la vita…
    Ero sconvolta nel vederla in quelle condizioni, era un’amica per me, le volevo bene così la sera l’andai a trovare, era ritornata la ragazza bella di una volta, ma era scomparso il suo sorriso contagioso e i suoi occhi vagavano nel vuoto.
    Mi misi a sedere accanto a lei e le presi le mani fredde, mi guardò e riuscì a dire solo poche parole:
    -Ho lottato con tutte le mie forze per per ritrovare quel poco di me stessa, ma non ce l’ho fatta, ha vinto lui, ora voglio andare oltre la vita,voglio la pace, voglio…voglio…
    -Chi ha vinto, chi?
    -Ha vinto lui…lui…il demonio, è stata una lunga battaglia , ma lui è più forte, devo cercarlo, correva lungo la strada ferrata, devo ritornare lì…
    In un attimo avevo capito che si era staccata da se stessa ed era entrata in un altro mondo, quello della follia.
    L’ho stretta a me, ho sentito le vibrazioni di paura e di smarrimento e in quel momento ho capito che l’avevo persa.
    -Il treno per Napoli è in partenza al binario due.
    Lina si strinse ancora di più al marito, salirono sul treno che portava a Nocera inferiore dove c’era l’ospedale psichiatrico da cui Lina non sarebbe più uscita.
    Oggi si direbbe “ disturbo bipolare” quello di cui era affetta Lina, ma negli anni trenta erano matti.

La foto 2 di Nadia

Febbre dell’oro – di Nadia Peruzzi

Erano tre squinternati. Si erano incontrati per questo. Parecchi giochi elettronici fino ad uscirne stralunati, parecchia birra, qualche fumo per vincere monotonia e tristezza.

Fin troppa frequentazione dei social per compensare il senso di inquietudine e solitudine che li attanagliava.

Essere disoccupati ai tempi del Covid era il peggio del peggio, così si affogavano dentro quella mercanzia per vedere se almeno evitavano di pensare alla loro condizione di ultimi senza speranza.

Studi, fra tutti, il minimo indispensabile. A malapena sapevano leggere e scrivere. Erano la merce più ambita per coloro che costruivano le bufale più incredibili o pubblicizzavano sistemi per far soldi facili facili In tutta velocità e senza fatica.

Prede per chi , annoiato dal troppo benessere o da una vita piatta e senza senso passava il suo tempo a inventarsi scherzi per vedere quanti pesci abboccassero all’amo.

Johnny, Agata e Fermin erano proprio quel tipo di pesce che ogni pescatore nel web spera di trovare per farsi due risate alle spalle altrui. Se poi ad abboccare fossero stati così  tanti da costringere giornali e tv a parlarne, la notorietà era pure assicurata.  

In fondo anche questo era quel pizzico di mors tua, vita mea su cui un intero sistema si basava fin dalla notte dei tempi. Loro ci giocavano solo un po’ per divertirsi da morire.

Ad Aldo venne l’idea di creare il gruppo “Febbre dell’oro” sul social che andava per la maggiore.

I MI PIACE fioccarono da subito.  Successo assicurato, si disse.

La foto di aggancio era quella di una zona collinare vicino alla ferrovia che corre lungo la val Bormida. Una breve nota e qualche intervista ad altri buontemponi che partecipavano alla tresca e il gioco era fatto.

In bella evidenza la scoperta di un filone aurifero portato alla luce dai lavori effettuati in quella zona per il consolidamento della massicciata della ferrovia. Le foto di alcune pepite di varia grandezza completavano il quadro. Per aggiungere credibilità al tutto si diceva che il gruppo social era stato creato per dare la possibilità alle persone più volenterose e piene di iniziativa di assicurarsi una parte di quella ricchezza venuta fuori in modo così inatteso e casuale, da essere alla portata di tutti.  

Bastava un po’ di voglia di fare e pochi strumenti per scavare e setacciare terreno e ciascuno poteva portarsi a casa il suo pezzetto di assicurazione per il futuro.

Agata si iscrisse fra i primi al gruppo.  Fermin e Johnny la seguirono il giorno dopo.

Fissarono per l’alba del giorno dopo ancora. Con l’inclinazione dei raggi del sole dell’inizio del giorno, avrebbero avuto buon gioco a scovare le pepite e forse anche il filone lungo la ferrovia.

Partirono a notte fonda. Le prime luci dell’alba li trovarono a farsi largo in mezzo a decine di altre macchine per trovare un posto per parcheggiare. Era stato complicato come nei pressi del Campo volo quando erano andati per il concerto di Vasco.

Fecero a gomitate per prendere la testa dell’incredibile fila indiana che si era già creata, e cominciarono a cercare lungo la ferrovia.

Erano buffi da vedere. Fermin con quel suo poncho pieno di buchi eredità di sua nonna Carmencita. In famiglia lo consideravano da sempre un talismano e in quella giornata epica non poteva lasciarlo a casa.

Agata con la sua mise da Lara Croft di periferia comprensiva di mimetica e di segni alla Rambo stampati sul viso,  aveva il suo aspetto più classico da imitazione di un macho di infimo ordine.

Johnny con le sue scarpe dalle suole bucate era quello messo peggio. Esalava disperazione da tutti i pori e per questo era quello che aveva abboccato con più convinzione a quel modo facile facile di tirar su un po’ di quattrini.

La foto l’aveva scattata Adelina,  la ragazza schiva  e legnosa che stava sempre appiccicata a Johnny e lo seguiva in ogni scorribanda.

Camminarono per ore avanti e indietro.

Sotto il sole infernale del mezzodì che fece sudare maledettamente il povero Fermin sotto quella coperta che sapeva di gatto morto e di naftalina di bassa qualità.

Sotto l’acquazzone sferzante che li colse nel pomeriggio e che diradò la stragrande maggioranza della folla dietro di loro.

Il far della sera li trovò sfiancati ed affamati seduti su un masso ai lati della ferrovia. Si reggevano la testa sconsolati dalla tanta fatica per il nulla che avevano trovato fino a quel momento. Eppure non erano disposti a mollare.

Erano stati solo sfortunati. Era dipeso da loro che non avevano cercato bene, che non sapevano nemmeno sfruttare le facili opportunità che si presentavano perché erano tutto sommato solo dei gran falliti. Erano degli incapaci. Scarti umani senza speranza di riscatto alcuno.

Il bip sul cellulare di Agata ruppe la quiete della serata che avanzava con la luce delle prime stelle.

Era arrivata una notifica dal social.  Lessero. Era del gruppo “Febbre dell’oro”. Con occhi sgranati videro l’edizione pomeridiana del giornale locale che a tutta pagina , e a tutta foto del buontempone che ne era stato l’artefice, parlava dello scherzo organizzato dall’amministratore del gruppo.

Lessero delle gran risate che si erano fatti mentre dipingevano con una vernice dorata qualche sasso di fiume, della meraviglia nel vedere quanti babbei erano riusciti a smuovere dietro a quell’araba fenice da due soldi.  Parole sferzanti e scherno elevato all’ennesima potenza, ecco quello che lessero.

Johnny, Agata, Fermin e Adelina si guardarono smarriti. Si scoprirono beffati.

Il loro credere a tutto però aveva anche un vantaggio. Era lo specchio deformante del non credere in niente, del non avere punti di riferimento da usare come linea di autodifesa.

Si aggrapparono a questo.  E dunque interpretarono quello che stavano leggendo come NON vero.  Una bufala della bufala. Troppo incredibile perché potesse esser vero!

Ripresero a camminare lungo la ferrovia guidati dalla luce della luna e dei radi lampioni.

Faceva  un freddo da cani e Fermin ebbe bisogno di stringersi nel suo poncho per trarne calore.

Gli occhi fissi in terra per veder apparire l’oro luccicante che non c’era. Nessuna intenzione di lasciare il campo ad altri.

Continuarono a cercare.  Per ore e ore e ore.

La foto 2 di Simone

DIGITAL TRAIN di Simone Bellini

– Ciao, sono tornato ! –

Metto il giubbotto sull’attaccapanni, mentre lo scalpiccio a quattro zampe arriva correndo per festeggiare il mio ritorno, saltando e abbaiando come se non mi vedesse da più di un mese.

– Meno male ci sei tu ad accogliermi così. Imparate gente, imparate! –

-Guarda, già che ci sei vai a dire qualcosa a tuo figlio, è fisso al computer a guardare quella robaccia violenta, pericolosamente stupida degli sport estremi. Quando esce poi, si ritrova con quegli amici che fanno “Parkour”, si mettono a saltare da un palazzo all’altro, per far salire l’adrenalina.-

 -Ah, adesso è “mio” figlio, non tuo ?! Poi cosa gli dico ? Togliti da quello schermo ! Esci un po’, ma non saltare sui tetti ! Quando torno a casa sono stanco, ho bisogno di staccare per un attimo di pace, invece no, vengo subito assalito da te ! –

– O bellinooo ! Lavoro anch’io, sono stanca anch’io ! L’attimo di pace non me lo posso permettere ! La mattina quando parto, nostro figlio è già al computer e ce lo ritrovo, intontito, quando torno. Ora vai a dirgli qualcosa, fai il padre una volta tanto ! –

– O Cristo ! Sono tornati tutti e due ! Come sempre litigano per chi deve venire a rompermi i coglioni ! CAPITANO,  non li sopporto più, cosa devo fare, dammi i tuoi ordini, che io possa eseguirli come sempre ! –

– Signorino, sto venendo da te, spengi il computer prima che te lo spenga io ! –

Apro la porta di botto, il computer è ancora acceso ma la stanza è vuota. Guardo da tutte le parti, ma di Marco nemmeno l’ombra ! La finestra sul giardino è aperta ! –

– Anna,”tuo” figlio non c’è, è andato via passando dalla finestra,

 quiddiavolo ! .-

– Come non c’è ?- correndo in camera – è scappato di nuovo a combinare guai ! Questo maledetto computer ha preso il nostro posto !…….Mio Dio ….NOOoo…. guarda cosa c’è scritto !!!-

BLUE WHALE ( balena blu ) ORDINA : C’è UNTRENO IN ARRIVO, LE ROTAIE TI ASPETTANO !

Una pausa di magia – La casa sulla collina

Il momento perfetto – di Lucia Bettoni

(foto di Lucia Bettoni)

La casa sulla collina si specchiava nel piccolo lago, alle sue spalle il bosco.
Dalle finestre un largo orizzonte, un meraviglioso pezzetto di terra che era tutto il mio mondo.
Non avevo niente, non c’era nessuno, ero sola, ero libera.
Ero libera di inventare, libera di creare, di pensare, di costruire, di immaginare, di essere tutto quello di cui avevo bisogno.
Avevo bisogno di parlare, di comunicare, di condividere, avevo bisogno di ascolto.
Non c’erano persone, non c’era nessun essere umano che potesse accogliere le mie parole.
C’era una piccola strada, la strada del bosco.
Ogni giorno la percorrevo, meglio alla sera, quando il giorno stava per finire, quando la luce si colorava di rosa e un leggero venticello muoveva l’erba e i capelli, il momento perfetto.
C’è un momento perfetto per parlare con gli alberi: bisogna aspettare, bisogna allargare il petto, alzare la testa, guardare il cielo, bisogna sentirsi albero e sentire la linfa scorrere nelle vene. Allora e solo allora tutto è semplice, l’albero è lì pronto ad accogliere ad ascoltare a dare.
Io portavo sempre con me dei piccoli doni per lui: un pezzetto di stoffa, una pallina, una piuma di fagiano, due caramelle, un disegno…
Ogni giorno il tronco diventava più colorato, più’ bello, più vivo.
Io mi sentivo a casa e allora parlavo, raccontavo, ascoltavo, chiedevo… e “lui”
non mi ha mai lasciata un giorno senza risposte.

foto di Lucia Bettoni

Foto 2 di Stefania (antefatto)

Prima della fuga – di Stefania Bonanni

Dice che i neonati sono tutti belli. Lui fu la dimostrazione che non è vero. Nacque brutto Nicola : la testa quadrata, la faccia schiacciata, il naso grosso, sembrava la testa di un adulto appiccicata su un corpicino estraneo. Ma la caratteristica più impressionante era il colore.  Era tutto bianco, percorso dappertutto da sottilissimi fili rossi, anche nel bianco degli occhi. Questo rosso rendeva il bianco arancione. Un bambino grosso e di colore strano,in un paese dove nascevano quasi tutti neri neri. Quando mise i  capelli, Nicola, li mise rossi.  Rossi chiari, radi riccioli sull”arancione, anche quelli. Quando restava al sole diventava rosso lucido,  si gonfiava e poi si sbucciava. Evitare che questo succedesse fu negli anni l’unico motivo che lo facesse alzare dal posto sulla panchina in piazza. Perché la vita la passava sulla panchina, anzi, per meglio dire, la vedeva passare dalla panchina in piazza. Era andato a scuola, certo, fino alle medie.  Poi basta, le superiori nel paese non c’erano, avrebbe dovuto prendere  l’autobus, alzarsi presto la mattina, tornare tardi a pranzo….troppe seccature. La scuola non gli interessava, parlavano di cose passate, di lingue straniere, di calcoli con numeri con le virgole.  A lui tutto questo non serviva. Lui era figlio unico, e la sua famiglia viveva nella casa piu’ bella del corso,quella gialla con la torretta. Non gli mancava nulla, non aveva nessuna intenzione di faticare. Stava seduto in piazza e quando qualcuno giocava a pallone,qualche tiro lo faceva anche lui, se il pallone gli arrivava sui piedi. Non si muoveva,  mon aveva ragioni sufficienti. Nulla gli interessava davvero, la cosa più importante era non fare nulla. “Spalla tonda” lo chiamavano, e anche peggio,  ma neanche questo lo interessava. Nulla lo turbo’, per anni. Fino ad una domenica, in Chiesa. Nella fila davanti pregava Maria, la compagna di scuola, la bambina con i capelli ribelli e i denti storti, quella che non divideva mai la merenda con nessuno, per nulla simpatica. Non la vedeva da tempo, non passeggiava in piazza lei. Quella domenica aveva un vestito blu di una stoffa lucida e fine che, nel movimento che Maria fece per inginocchiarsi sulla panca davanti, le si incollo’ addosso, alla biancheria, e si accorcio’ sulle cosce mostrando una carne cosi’ bianca e segreta, che Nicola non seppe più levarsi dai pensieri. Si guardava le mani, e pensava come sarebbe stato toccarle le cosce, se fosse possibile affondarci i polpastrelli, se quella carne bianca fosse soda, o morbida e burrosa. E poi fantasticava di fargliele aprire, le cosce, e poi di girarla, di guardarla tutta, e la immaginava bianca, morbida, e sudava, sudava, era diventata una fissazione. Fu costretto ad ammettere che era disposto a fare qualunque cosa, per avvicinare Maria. Non andava più neanche in piazza,  e sua madre si preoccupo’. Lo chiamo’ in cucina, lo fece sedere , e gli chiese cosa gli fosse successo, come mai non usciva piu’. Nicola divento” più rosso ancora, così tanto che la mamma si impauri’, e gli appoggio’ sulla fronte un fazzoletto bagnato, per calmarlo. Lui  parlo’ piano, ma disse tutte di fila una quantita’ di parole che non aveva mai pronunciato, in tale numero. Disse che aveva visto Maria e non riusciva a pensare ad altro. Disse che era sicuro fosse amore e che doveva per forza fare qualcosa, altrimenti sarebbe impazzito. La mamma resto’ in silenzio per un po’, non sapeva da che parte cominciare. Poi si fece coraggio e disse che prima o poi doveva succedere, che sarebbero andati a parlare con i genitori di Maria. “Certo, continuo’, tu Nicola non hai ne’ arte, ne’parte…chissa’ cosa ci diranno”  “Mamma, ma noi abbiamo là casa…tutti sarebbero contenti di vivere nella più bella casa del corso”…”Speriamo, Nicola, speriamo” Andarono a parlare in casa di Maria, e la mamma ebbe per tutto il tempo il terrore che dicessero che era troppo brutto,Nicola. Maria era la loro terza figlia, la piu’ buona e silenziosa. Brava a fare le cose in casa,  giudiziosa e tranquilla. Cantava sempre, era una gioia averla per casa. Sarebbe stata brava anche a scuola,  se non ci fosse stato bisogno di una mano, in casa e nel campo. Sposare le sorelle, dare loro la dote, li aveva lasciati senza risorse.  Maria non aveva dote, non ancora. La mamma di Nicola prese la palla al balzo.  Racconto’ che il figlio era buono come il pane e che aveva bisogno di una brava ragazza che lo aiutasse a farsi una posizione. Che non era un fannullone, erano solo mancate le occasioni. Poi, naturalmente, disse che avrebbe ereditato quel po’po’ di casa con la torretta che era la piu’ bella del corso e che la famiglia che Nicola si fosse fatto sarebbe stata al sicuro per sempre. “Non c’è nulla di meglio del mattone, nella vita. Riparo e  sicurezza, altro che andare a lavorare come schiavi a giro per il mondo!!” L’impressione fu che i genitori di Maria l’avessero gia’ considerata, la casa. Quando il padre parlo”, disse che i giovani si potevano frequentare, per conoscersi. Maria, entrata nella stanza a quel punto dell’incontro, disse che si fidava del giudizio dei genitori, e che avrebbe deciso quando avesse conosciuto meglio Nicola. Poi , quando la mamma di Nicola se ne fu andata, disse di essere indecisa, che il giovanotto era proprio brutto. Il padre e la madre, all’unisono, urlarono che con la bellezza non si mangia, che sono altre le cose che contano. Maria confermo’ che avrebbe conosciuto meglio Nicola. La prima volta che lui la passo’ a prendere, fu per camminarle a fianco mentre si dirigevano verso la piazza. Lui era molto emozionato, rosso da morire, sul punto di commuoversi ogni volta che incrociavano qualcuno. Sembrava uno che viveva un sogno, e Maria si senti’ una fata, in grado di regalargli la felicita’. Fu questo pensiero e la tenerezza che lui le dimostrava, cosi’ lontana dai modi  beceri di altri ragazzi del paese, a far si’ che stesse volentieri in sua compagnia, sempre di piu’.  Lui era premuroso e molto attento . Le teneva la mano come avrebbe tenuto una rosa. Quando finalmente si accarezzarono, e poi si amarono,  fu così dolce e tenero, cosi’ consapevole di aver colto un fiore, che dettero vita ad un momento che avrebbe illuminato la vita di tutti e due, anche al ricordo. Si amarono molto . Lui voleva solo lei.  Lei voleva vivere con lui nella casa gialla, e voleva dei figli,  dal loro amore. Nacque Serena, e Maria non aveva neanche una volta pensato potesse essere di strano colore. Infatti la bambina era bellissima. Quando mise i capelli, fu evidente fossero di un meraviglioso , raro, rosso scuro, tiziano. Crebbe come un fiore,  senza mai causare problemi, vicina a genitori che l’amavano e la curavano come un diamante, in una casa solida e sicura, la più bella del corso. Fu per lei che Maria comincio’ a chiedere a Nicola di pensare, per la figlia, ad una vita diversa,  in una citta’ dove ci fossero scuole ed universita’, dove avrebbe potuto avere molti amici e possibilità. Il progetto prevedeva la vendita della casa, e Nicola rimandava, rimandava. Che furia c’è? Diceva sempre. Non scappa mica, la casa gialla con la torretta che è sempre la piu’ bella del corso.

La foto 2 di Anna

IN CAMMINO – di Anna Meli

            Il sole spunta radioso ad oriente illuminando un binario dove tre viandanti camminano, poco distanti l’uno dall’altro. Procedono in silenzio, la mente altrove. Non hanno bagaglio, i loro volti sono tristi segnati dal vissuto di cose orrende.

            Ogni tanto a turno si voltano indietro ad osservare qualcosa che non c’è, ma che potrebbe apparire ed hanno paura. Si indovina che stanno fuggendo.

            I loro nomi, Karim (generoso), Aisha (viva), Farah (felicità) dovrebbero nascondere, secondo la tradizione siriana, l’impronta del loro destino e ciò li invita ad andare avanti con fiducia.

Non sono diversi da noi nelle sembianze. Lui, di media altezza, ha un viso magro e abbronzato con grandi occhi di un marrone verdastro che brillano di pagliuzze dorate e porta sulla giacca che si intravede appena, una coperta a mo’ di poncho. Le altre due, leggermente più piccole, vista la somiglianza, sembrano essere le sorelle: hanno gli stessi bellissimi occhi e vestono all’europea.

            Sono siriani fuggiti da un campo profughi dove non avevano nessuna speranza per una vita migliore. Arrivati fin lì con passaggi di fortuna, aiutati da persone solidali che li hanno talvolta ospitati, non possiedono niente, non sanno minimamente dove si trovano, aggrappati ad una speranza che si fa sempre più incerta.

            Il binario è la loro salvezza perché seguendolo contano di arrivare in una città qualsiasi, mescolarsi fra la gente, trovare un lavoro e ricostruire la loro vita lontano dalla guerra e dalle rovine dei bombardamenti. Soffrono, sognano, sperano. Il cammino sarà lungo, ma il fatto di essere uniti  nella ricerca di una vita normale li aiuterà a realizzare i propri sogni.

            Il sole illumina il loro cammino e scalda i loro cuori.


Foto 2 di Luca

Misterioso terzetto… – di Luca Di Volo

Dicono che quando ci si sente falliti in qualcosa, la meglio è riprovarci subito..e infatti..

Ora mi dovrei confrontare con la foto numero 2. E  confessare subito che a me, a differenza di tante altre Muse, quella foto non mi comunica quasi nulla..

Oddìo..si vede benissimo che quei tre stanno fuggendo….E da che cosa?!

O non potrebbero essere semplicemente a passeggio?! È vero..camminare affiancati ad una rotaia non è il posto migliore per fare una gita..ma i gusti son gusti…

E poi, visto che la foto è messa lì per provocare, quel binario è reale…o solo il simbolo di una falsa sicurezza; di un percorso che poi non porta a nulla?!La disperante coperta con cui a malapena si copre l’unico (unico?) uomo dell’immagine suggerisce, anzi, quasi “obbliga” a pensare a qualcosa abbandonato in fretta e furia..sotto la minaccia di qualcosa di terribile..Una persecuzione?! Ma..in tal caso costeggiare una linea ferroviaria sarebbe il modo più sicuro per farsi beccare subito..

E poi c’è quel sole abbagliante..alba o tramonto? Siamo noi a decidere..e io invece non riesco a scegliere una risposta..tanto per dire…

Insomma..non mi torna nulla e quella foto rimane un enigma….

E di storie sopra neanche a parlarne…

Chissà..magari dopo un buon sonno mi verrà fuori qualcosa…Per ora mi limito a fare i complimenti alle mie compagne per la fantasia e l’abilità con cui riescono a darle corpo.

Forse un giorno ci riuscirò anch’io..

Foto 1 di Cecilia

L’alba del grifone – di Cecilia Trinci

(stare al gioco)

Aveva fatto fatica a farsi accettare dal gruppo. Una ragazza, secondo gli altri tre,  non può sopportare tutta quella fatica, ore e ore all’aperto, portando macchinari pesanti, senza soste, senza cibo a orari fissi….alla fine sarebbe stata un peso, prima o poi. Ma Elena aveva talmente insistito che alla fine era riuscita a partire con loro. E’ vero, doveva ammettere che non era stata proprio una passeggiata e quel bosco era talmente pieno di rovi come mai aveva visto. Sanguinava, qua e là. Ma stava zitta. Cercava solo di non perdere il contatto con Edoardo. Edo, come tutti lo chiamavano era instancabile, sembrava un camoscio su quelle salite sassose, e sembrava che lo zaino enorme che non posava mai fosse leggerissimo. Eppure Edo era l’unico che le rivolgeva quelle pochissime parole che ogni tanto pronunciava.

“Hai sete?” le disse mentre il sole era già sparito sulla baia

Lei  si limitò a scuotere il capo anche se avrebbe desiderato ardentemente almeno un caffè lungo e dolcissimo. La gamba dove i pantaloni si erano strappati sanguinava ma di certo non si sarebbe fermata.

Il gruppo era diretto sulla cima, senza eccezioni.

Yuri era il primo della fila. Sembrava fosse in preda a una visione, a una passione accecante, non si sapeva per cosa, ancora non aveva neppure spiegato il suo progetto tutto intero, a tratti spariva dalla vista, nel buio che ormai aveva ingoiato la collina. Simone lo seguiva, più lento, massiccio, osservava tutta la scena ogni volta che cambiava o che la luce si faceva diversa. Scriveva veloce su un blocchetto a brevi tratti indecifrabili, senza paura di rimanere indietro si prendeva il tempo necessario per osservare, per imprimere nella memoria tutto quello che vedeva, oppure per controllare il percorso su una mappa accartocciata che teneva in tasca. Aveva al collo la macchina fotografica e un grosso binocolo che ogni tanto si portava agli occhi puntando sempre giù, in basso, verso il mare. Finchè ci fu luce. Poi di colpo il buio li avvolse e il gruppo dovette fermarsi.

Edo propose una sosta per dormire.

Yuri scalpitava, cominciò ad accusare il gruppo di aver camminato troppo lentamente. Così non avrebbero rispettato la tabella di marcia. Dovevano arrivare in cima prima che il sole fosse troppo alto per cogliere quell’unico esemplare di grifone albino così raro.

Edo promise che il giorno dopo, all’alba, avrebbero recuperato.

Simone, intanto, senza ascoltarli, aveva scelto il luogo migliore per accamparsi. C’erano delle piccole vallette nel terreno che li avrebbero riparati. Yuri si calmò quando Simone aveva già steso i sacchi a pelo e recuperato i viveri  dallo zaino. Li distribuì, in parti uguali. Raccolse legna per fare un piccolo fuoco. Non faceva freddo, ma la luce del falò li avrebbe rincuorati. E così fu.

Scelsero ognuno la propria valletta per dormire, nel proprio sacco a pelo.

Forse fu un caso che Edo scelse quella più vicina a Elena, lasciandola all’interno tra lui e un grosso masso che sputava ancora il calore del sole.

Nessuno dormì all’inizio. Le stelle erano troppo vicine e brillavano così tanto da togliere il fiato.

La stanchezza poi piano piano chiuse gli occhi a tutti quasi contemporaneamente. Le parole si spensero sulla brace ancora rossa: calcoli, chilometri, immagini assolutamente inedite da riprendere. Ce l’avrebbero fatta. Yuri non avrebbe mai accettato di tornare a valle senza le foto del grifone.

Appena il cielo schiarì in un azzurro appena appena pallido, le ombre si rimisero in cammino, senza essersi del tutto ripresi dalla fatica del giorno prima.

Elena avrebbe voluto un pettine, una doccia calda, ma si strinse nel giubbotto e cominciò a camminare spedita. Edo la precedeva e dietro saliva Simone, con i suoi passi decisi, le lunghe falcate.

Yuri era sempre avanti a tutti, nervoso, con la macchina pronta a scattare.

“Attenti ragazzi siamo in vista del grifone, non fatevelo scappare e fate piano, non respirate neppure!!!

Ho promesso la foto, deve essere mia”!

I passi procedevano verso il cielo sempre più chiaro, le ali di corvi veleggiavano sulle loro teste chine, squarci di voragini si aprivano improvvise tra le loro scarpe.

Il sole saliva, Yuri si stringeva in un ghigno stanco, incapunito e brusco. Senza preavviso ordinò a Elena di aspettarli lì. Loro avrebbero proseguito più spediti e al ritorno l’avrebbero ripresa nel gruppo. Era troppo lenta e ritardava l’andatura. Senza aspettare repliche Yuri sparì verso la vetta, seguito dai passi sornioni di Simone. Edoardo finse di sistemarsi lo zaino, di allacciarsi le scarpe, si fermò poco più avanti, a fotografare il mare che si apriva in una vasta baia sorridente di luce.

Elena si fermò, smarrita più che incredula e si sentì perduta. Tutta quella fatica inutile e l’abbandono dei suoi compagni sul traguardo. Accarezzò la macchina fotografica appesa al collo più che altro per avere compagnia e si guardò intorno, verso le rocce rosate.

Fu da lì che partì il volo. Un volo improvviso, radente, esplosivo, ali ferme sostenute dal vento della vetta, becco in avanti a ferire l’aria, a puntare un traguardo. Un giovane grifone albino potente, immenso, attraversò l’aria sopra la testa di lei. Sembrò che si fermasse un attimo, sembrò che si mettesse in posa per la foto unica, stupenda che Elena riuscì a rubare alle sue ali tese. Sembrò fermarsi……ma forse era solo il vento che trattenne un attimo il grifone, prima che sparisse giù, nel dirupo, verso il mare blu.