L’indagine – di Nadia Peruzzi

A volte ci volevano ore prima che parlassero.
Brutti ceffi, giovanotti col vestito buono e lo sguardo cattivo, donne che nei gesti e nelle espressioni trasudavano disagio, male di vivere, assenza di speranza.
A volte arrivavano ai processi senza avergli detto nemmeno una parola, anche se lui alla verità ci era arrivato lo stesso.
Quel giorno era alle prese con un ragazzo. Colto sul fatto poche ore prima.
Sfrontato, gli stava davanti con occhi ancora furenti ma spauriti nel profondo.
Aveva varcato una linea terribile. A lui il compito di cercare motivazioni possibili per un gesto così efferato e compiuto ai danni della sua stessa sorella.
Era sempre difficile seguire i percorsi delle anime in cerca di arrivare a denudare sé stesse, fino ad una sincera e completa confessione.
Aveva ancora a addosso l’odore della morte procurata e cercava con ogni mezzo di giustificare il suo atto.
“Non ci si mette con una zecca così, non è normale, non è naturale. Non si sa nemmeno bene cosa sia quel Ciro. Una ragazza che vuole diventare ragazzo .Un ragazzo a metà. Proprio uno così? Perché? L’avevo avvertito che doveva lasciar perdere mia sorella. Non volevo ucciderla, è stato un incidente.”
Faceva fatica a contenerlo adesso .Era un fiume in piena .Voleva lavarsi la coscienza.
Non erano più sentieri smozzicati ora verso destra, ora a sinistra o trame di uno strano ordito a spirale come un vortice che confondeva e faceva smarrire la via. Il labirinto oscuro in cui quell’anima si era perduta stava ora mostrando una via larga dove non c’era spazio per esitazioni. Puntava diritta verso l’uscita per iniziare a liberare la coscienza.
L’ispettore ascoltava, anche se sembrava pensare ad altro.
In quegli attimi, quando i vermi, il fango, il male del mondo veniva in superficie e si rivelava preferiva quasi ritrarsi per evitare che il buio di anime perse lo travolgesse trascinandolo con sé.
Si aiutava scarabocchiando su un taccuino sgualcito e logorato dagli anni.
Era un modo per cercare di rimanere aggrappato là dove il senso di civiltà aveva la meglio su sentimenti primordiali di vendetta e rancori atavici privi di qualsiasi raziocinio. Il suo modo per evitare l’abisso.
Era un mondo a parte. Quello che avrebbe dovuto essere contro quello che era realmente. Un luogo dove si sentiva al sicuro ,dove l’acqua era placida e chiara e il verminaio non si vedeva.
In quel posto lo sapeva, Ciro avrebbe potuto sentirsi ed essere Ciro, anche se la carta di identità lo scriveva ancora al femminile, avrebbe potuto amare ed essere riamato senza problemi .
Sentiva il ragazzo che continuava a parlare, mentre il collega scriveva il verbale.
Dovette chiudere gli occhi per riprendere il filo.
Rivide la ragazza morta a 20 anni. Rivide lui che colpiva Ciro a terra dopo lo speronamento, fino a mandarlo all’ospedale, mentre sua sorella giaceva morta.
Chiuse il suo quadernetto. Chiamò i colleghi perché lo portassero via. La confessione c’era stata a metà, non aveva smesso di cercare giustificazioni.
Come sempre in quei casi, arrivato a quel punto si sentiva in apnea.
Uscì e camminò per ore nella città deserta. Madre e matrigna al tempo stesso.
Si sentiva sfinito e col peso di tutto il male del mondo su ognuna delle sue ossa.
Non era mai facile liberarsi da quelle sensazioni terribili che a volte avevano la meglio sulla sua stessa lucidità. Fu peggio di sempre quella sera. Forse stava invecchiando e ne aveva viste e sentite troppe, ma l’abitudine no, non ce l’aveva fatta. Non era possibile e non voleva.
Mentre rincasava, dall’unica finestra con la luce accesa nella sua strada, sentì uscire la musica che aveva sempre il potere di calmarlo. Ne aveva proprio bisogno delle Quattro stagioni di Vivaldi col loro inno alla vita che scorre e si rinnova.
La melodia ancora si sentiva quando si affacciò alla sua terrazza per un’ultima occhiata alle stelle e per l’ultimo sorso di aria tiepida che già sapeva di primavera.
La mattina gli regalò uno sguardo meno cupo sul mondo e sugli esseri umani. Si vestì di quello, per tornare a lavoro.




