Le peonie del compleanno – di Stefania Bonanni

Quella che era loro è una casetta ad un piano, larga e bassa. Davanti il giardino “per figura”, dietro l’orto all’antica, con i fili per stendere i panni, la tavola rotonda di pietra in mezzo, il capanno per la legna e la pergola rivestita di grappoli d’uva, a settembre. Tutto perfetto. Casa tinta di giallo, persiane verdi lucidissime, gerani rossi alle finestre. Una cura attenta e precisa, ma minuziosa, piccola, invisibile a sguardi veloci.
La casa è divisa in due parti esattamente uguali, in orizzontale. Due terrazzini confinanti uguali, due porte d’ingresso vicine ed identiche, lo stesso numero di finestre sulla facciata, tre a destra, tre a sinistra. Due fratelli, gli abitanti. Mi hanno raccontato che si trasferirono qui appena sposati. Due famiglie nuove di zecca, una a destra, una a sinistra. Si erano sposati a distanza di poco tempo, ma avevano fatto un’unica grande festa: nell’orto dietro alla casa gialla appena costruita. E ci hanno trascorso la vita, in quelle stanze vicine. Con i figli, con i drammi, con le gioie, con le malattie delle mogli, con i nipoti ogni tanto in visita. Quando li ho conosciuti io, facendo un po’ di conti, dovevano avere circa settantacinque anni, più o meno. Vent’anni fa. Uno era un paio d’anni più giovane dell’altro, ma non ho mai saputo chi. All’epoca viveva da solo quello delle stanze a sinistra, con la figlia vedova l’altro.
La mattina leggevano il giornale in terrazza, uno con un ombrellone bianco a protezione, l’altro con un panama in testa. I giornali erano due, ma sicuramente due copie della stessa testata. Commentavano, e l’argomento erano sempre le pensioni. Si sentiva un parlottare musicale, un sottofondo di mezze parole, che non era necessario neanche finire, tanto erano conosciute. Venivano lasciate così, a nezz’aria, sospese, poi si depositavano da sole, dopo aver fatto un giretto tra i fiori. Mai sentito alzare la voce, mai rumori molesti, tutto tenue, sfocato, vintage, acquerellato. Anche nella mia terrazza c’è il sole la mattina e se mi sedevo a leggere sentivo subito: “Buongiorno signora” a volte in simultanea da due fonti diverse, e mi accorgevo di un accenno di inchino con la testa, in contemporanea, a destra ed a sinistra.
Indimenticabili, noi in famiglia li riprensiamo spesso, le volte nelle quali uscivano per sistemare le siepi. Noi si chiamavano “i nanetti”, non per la statura, per la somiglianza che avevano con quelli di Biancaneve, quando andavano verso la miniera canticchiando “oh oh oh, andiamo a lavorar.,” Quella stessa andatura veloce, fatta di passi corti, ma ondulati, come sulle punte. Poi, i vestiti destinati ai lavori in giardino!! Una meraviglia. Avevano salopettes beige piene di tasche, da ognuna delle quali spuntava un attrezzo. Si portavano dietro: martelli, metro di quelli rigidi che si piegano a segmenti, forbici piccole di metallo argentato, forbici medie con il manico rosso, forbici grosse con la lama diritta, forbici più grosse ancora con la lama curva, forbicine, falcetti, naturalmente scaleo e panchetti, per arrivare in cima alla siepe. In un angolo, scope di saggina, rastrelli, bidone per raccogliere gli scarti. Mettevano anche sul ciglio della strada un segnale triangolare giallo, per lavori in corso. E cominciavano. Guardavano da lontano, poi si precipitavano su rametti ribelli o troppo cresciuti, e si era inondati di suissccc, zac, zac, strapp. Pensavo sempre ai parrucchieri, quando per tagliare i capelli reggono un ciuffo passandoci dentro con il pettine fine, per controllare sia lungo come il resto della chioma. Quando avevano terminato, a volte i lavori proseguvano per più giorni, guardavano da lontano che l’insieme fosse ordinato, mettevano le dita a formare un quadretto, e strizzavano gli occhi. Lavoravano su tutta la siepe che incornicia la strada, non solo sulla loro. Potavano anche la mia, pareggiavano, strappavano, pulivano. Sistemavano tutto il mondo che vedevano dalla terrazza. Noi eravamo infinitamente grati, del lavoro e dello spettacolo.
Una mattina, dalla terrazza, dopo aver salutato, si parlava di fiori ed io magnificai la splendida pianta che vedevo dall’alto e che all’epoca pensavo fosse un insieme di molte piante, messe vicine. Fu subito chiaro che avevo toccato il tasto. Fu come pigiare un interruttore. Si tolse il cappello mostrando occhi commossi e mi fece cenno di scendere. Mi dette la mano e mi invito’ a seguirlo, mentre mi precedeva girando intorno alla grande aiuola della peonia. Una sola pianta, dall’alto sembrava un albero senza tronco, la chioma ricoperta di grossi fiori rosa. Di un rosa che pensavo introvabile, finché non ho visto le cosce della mia nipotina Beatrice. La peonia è rosa, ma rosa sull’azzurro nei petali più esterni, quelli fini fini e semitrasparenti, rosa sul rosa in quelli subito dopo, diciamo nella seconda fila, rosa con sfumature rosso tenue nelle file che si accavallano verso il centro, rosa sul bianco via via che si stringono, rosa sul giallo verso il centro. E poi sono petali così tanti, così delicati, così fragili, che stanno stretti stretti, in abbracci senza spine, e formano un colore ancora diverso, che è solo di quella pianta, e che è solo di quell’abbraccio stretto.
Ci sedemmo in terrazza e mi raccontò della peonia. L’aveva piantata sua moglie, quando avevano fatto la festa di nozze in giardino. Cinquant’anni prima, ma anche di più, forse. La signora si era poi ammalata e non era più uscita di camera. “Stava sempre seduta dietro quella finestra” mi disse lui: “vedeva solo la peonia “. Io mi commossi, ma nello stesso tempo fui contenta: contenta per chi aveva goduto della serena bellezza di un fiore, per lui che non coltivava solo la peonia, girandole intorno, per me che ero stata testimone di un grande sentimento. Restai meravigliata e zitta. Non c’era altro da dire.
Qualche giorno dopo mi suonò il campanello con in mano un gran mazzo di peonie. “È cambiato il tempo: se ci piove sopra i petali si ammaccano. Da oggi te li porterò ogni volta che ho paura si sciupino”. Naturalmente ringraziai, e dissi che era troppo, per me. Lui mi rispose che “i fiori sono di chi li guarda. Non fioriscono, per chi non li guarda”.
Da allora, tutti gli anni ho avuto in casa grandi mazzi di peonie.
Poi, sono passati gli anni, morì il fratello di destra. Molto vecchio, improvvisamente, una sera al ritorno dalla casa del popolo dove andava a vedere giocare a carte. Non soffrì, pare,..l’altro però disse subito che non la conosceva la vita senza il fratello, e non ci furono possibilità..Si lasciò intristire e dopo pochi mesi lo seguì.
Dalla terrazza continuo ad essere contenta quando rifiorisce la peonia.
L’altra sera, per caso era il mio compleanno, ho trovato un mazzo di peonie davanti alla porta.
Poi mi sono sentita chiamare, dalla parte della terrazza. “Te le ho lasciate io, il nonno mi disse di ricordarmi…” Mi è sembrato un buon compleanno.















