Un pesce all’amo: e sono peonie

Le peonie del compleanno – di Stefania Bonanni

Quella che era loro è una casetta ad un piano, larga e bassa. Davanti il giardino “per figura”, dietro l’orto all’antica, con i fili per stendere i panni, la tavola rotonda di pietra in mezzo, il capanno per la legna e la pergola rivestita di grappoli d’uva, a settembre. Tutto perfetto.  Casa tinta di giallo, persiane verdi lucidissime, gerani rossi alle finestre. Una cura attenta e precisa, ma minuziosa,  piccola, invisibile a sguardi veloci.

La casa è  divisa in due parti esattamente uguali, in orizzontale. Due terrazzini confinanti uguali, due porte d’ingresso vicine ed identiche, lo stesso numero di finestre sulla facciata,  tre a destra, tre a sinistra. Due fratelli, gli abitanti. Mi hanno raccontato che si trasferirono qui appena sposati. Due famiglie nuove di zecca, una a destra, una a sinistra.  Si erano sposati a distanza di poco tempo, ma avevano fatto un’unica grande festa: nell’orto dietro alla casa gialla appena costruita. E ci hanno trascorso la vita, in quelle stanze vicine. Con i figli,  con i drammi, con le gioie, con le malattie delle mogli,  con i nipoti ogni tanto in visita.  Quando li ho conosciuti io, facendo un po’ di conti, dovevano avere circa settantacinque anni, più o meno. Vent’anni fa. Uno era un paio d’anni più  giovane dell’altro, ma non ho mai saputo chi. All’epoca viveva da solo quello delle stanze a sinistra, con la figlia vedova l’altro.

La mattina leggevano il giornale in terrazza, uno con un ombrellone bianco a protezione, l’altro con un panama in testa. I giornali erano due, ma sicuramente due copie della stessa testata. Commentavano, e l’argomento erano sempre le pensioni. Si sentiva un parlottare musicale, un sottofondo di mezze parole, che non era necessario neanche finire, tanto erano conosciute. Venivano lasciate così,  a nezz’aria, sospese, poi si depositavano da sole,  dopo aver fatto un giretto tra i fiori. Mai sentito alzare la voce, mai rumori molesti, tutto tenue, sfocato, vintage, acquerellato. Anche nella mia terrazza c’è il sole la mattina e se mi sedevo a leggere sentivo subito: “Buongiorno signora” a volte in simultanea da due fonti diverse,  e mi accorgevo di un accenno di inchino con la testa, in contemporanea, a destra ed a sinistra.

Indimenticabili, noi in famiglia li riprensiamo spesso, le volte nelle quali uscivano per sistemare le siepi. Noi si chiamavano “i nanetti”, non per la statura, per la somiglianza che avevano con quelli di Biancaneve, quando andavano verso la miniera canticchiando “oh oh oh, andiamo a lavorar.,” Quella stessa andatura veloce, fatta di passi corti, ma ondulati, come sulle punte. Poi, i vestiti destinati ai lavori in giardino!! Una meraviglia. Avevano salopettes beige piene di tasche, da ognuna delle quali spuntava un attrezzo. Si portavano dietro: martelli, metro di quelli rigidi che si piegano a segmenti, forbici piccole di metallo argentato, forbici medie con il manico rosso, forbici grosse  con la lama diritta, forbici più grosse ancora con la lama curva, forbicine, falcetti, naturalmente scaleo e panchetti, per arrivare in cima alla siepe. In un angolo, scope di saggina,  rastrelli, bidone per raccogliere gli scarti. Mettevano anche sul ciglio della strada un segnale triangolare giallo, per lavori in corso.  E cominciavano. Guardavano da lontano, poi si precipitavano su rametti ribelli o troppo cresciuti, e si era inondati di suissccc, zac, zac, strapp. Pensavo sempre ai parrucchieri, quando per tagliare i capelli reggono un ciuffo passandoci dentro con il pettine fine, per controllare sia lungo come il resto della chioma. Quando avevano terminato,  a volte i lavori proseguvano per più  giorni, guardavano da lontano che l’insieme fosse ordinato, mettevano le dita a formare un quadretto, e strizzavano gli occhi. Lavoravano su tutta la siepe che incornicia la strada, non solo sulla loro. Potavano anche la mia, pareggiavano, strappavano, pulivano. Sistemavano tutto il mondo che vedevano dalla terrazza. Noi eravamo infinitamente grati, del lavoro e dello spettacolo.

Una mattina, dalla terrazza, dopo aver salutato, si parlava di fiori ed io magnificai  la splendida pianta che vedevo dall’alto e che all’epoca pensavo fosse un insieme di molte piante, messe vicine. Fu subito chiaro che avevo toccato il tasto. Fu come pigiare un interruttore. Si tolse il cappello mostrando occhi commossi e mi fece cenno di scendere. Mi dette la mano e mi invito’ a seguirlo, mentre mi precedeva girando intorno alla grande aiuola della peonia. Una sola pianta, dall’alto sembrava un albero senza tronco, la chioma ricoperta di grossi fiori rosa. Di un rosa che pensavo introvabile,  finché non ho visto le cosce della mia nipotina Beatrice. La peonia è rosa, ma rosa sull’azzurro nei petali più esterni, quelli fini fini e semitrasparenti, rosa sul rosa in quelli subito dopo, diciamo nella seconda fila, rosa con sfumature rosso tenue nelle file che si accavallano verso il centro, rosa sul bianco via via che si stringono, rosa sul giallo verso il centro. E poi sono petali così tanti, così delicati, così fragili, che stanno stretti stretti, in abbracci senza spine, e formano un colore ancora diverso,  che è solo di quella pianta, e che è solo di quell’abbraccio stretto.

Ci sedemmo in terrazza e mi raccontò della peonia. L’aveva piantata sua moglie, quando avevano fatto la festa di nozze in giardino. Cinquant’anni prima, ma anche di più,  forse.  La signora si era poi ammalata e non era più uscita di camera. “Stava sempre seduta dietro quella finestra” mi disse lui: “vedeva solo la peonia “. Io mi commossi, ma nello stesso tempo fui contenta: contenta per chi aveva goduto della serena bellezza di un fiore, per lui che non coltivava solo la peonia,  girandole intorno, per me che ero stata testimone di un grande sentimento. Restai meravigliata e zitta. Non c’era altro da dire.

Qualche giorno dopo mi suonò il campanello con in mano un gran mazzo di peonie. “È  cambiato il tempo: se ci piove sopra i petali si ammaccano. Da oggi te li porterò ogni volta che ho paura si sciupino”. Naturalmente ringraziai, e dissi che era troppo, per me. Lui mi rispose che “i fiori sono di chi li guarda. Non fioriscono, per chi non li guarda”.

Da allora, tutti gli anni ho avuto in casa grandi mazzi di peonie.

Poi,  sono passati gli anni, morì il fratello di destra. Molto vecchio, improvvisamente, una sera al ritorno dalla casa del popolo dove andava a vedere giocare a carte. Non soffrì, pare,..l’altro però disse subito che non la conosceva la vita senza il fratello, e non ci furono possibilità..Si lasciò intristire e dopo pochi mesi lo seguì.

Dalla terrazza continuo ad essere contenta quando rifiorisce la peonia.

L’altra sera, per caso era il mio compleanno, ho trovato un mazzo di peonie davanti alla porta.

Poi mi sono sentita chiamare, dalla parte della terrazza. “Te le ho lasciate io, il nonno mi disse di ricordarmi…” Mi è  sembrato un buon compleanno.

Pesciolini di borragine

Pesciolini verdi fritti – di Tina Conti

Cercare delle belle foglie di borragine, lavatele, passatele velocemente in acqua bollente, ponetele su un canovaccio ad asciugare, fate un impasto con  tonno, capperi e stracchino. Spalmate le foglie di borragine e arrotolate. Cuocete a fuoco vivace in una padella con olio, fate raffreddare e dopo aver apparecchiato la tavola con bei colori di primavera, e messo sul tavolo un bicchiere con un mazzolino di margherite sedetevi, bevete un bicchiere di quello buono e gustate i pesciolini  verdi , si, sembrano proprio pesci! Insieme a delle patate bollite e un carciofo in pinzimonio. Il pane deve essere saporito e raffermo

A conclusione due biscottini di prato e un bicchierino di vin santo.

Dopo aver messo i piatti in lavastoviglie, cercatevi una canzone toscana di Marasco o di Narciso Parigi, ascoltatela, dopo fate una dormitina. Il gatto lasciatelo sul terrazzo sennò vi leccherà le mani a causa dell’ odore del tonno.

Un pesciolino letterario

Da Siddharta – di M.Laura Tripodi

Lo studio di Herman Hesse

Io ho pescato questo pesciolino, che in verità tanto piccolo non è.

Mi ha rapito il libro, riletto dopo tanti anni e in questo brano mi  sono riconosciuta.

Acqua che passa, acqua che canta e non si ferma mai.

Hermann Hesse

Siddharta

“Serenamente contemplava la corrente del fiume; mai un’acqua gli era piaciuta come questa, mai aveva sentito così forti e così belli la voce e il significato dell’acqua che passa. Gli pareva che il fiume avesse qualcosa di speciale da dirgli, qualcosa che egli non sapeva ancora, qualcosa che aspettava proprio lui. In quel fiume Siddharta s’era voluto annegare, in quel fiume oggi s’era annegato il vecchio, stanco, disperato Siddharta. Ma il nuovo Siddharta sentiva un amore profondo per quest’acqua fluente, e decise fra sé di non abbandonarla tanto presto.”

Il pesce nel pozzo

YNÈS – di Rossella Gallori

Dopo mesi da “ gatta di piombo” aveva deciso di fare qualche metro in campagna, allontanandosi da casa, gli unici esseri semiviventi che aveva visto ultimamente erano nell’ ordine: il frigo aperto ed ammiccante, il divano comodo e sprofondante…e la televisione, amica e nemica da sempre…

Indossò scarpe comode, non quelle da ginnastica  detestate fin da i primi anni di vita, ma le sue Clark color miele, poco adatte all’andar per campi, ma Ynès non sapeva, forse, manco più camminar bene, appesantita ed un po’ imbambolata, era arrivata alla soglia dei 70, senza manco saper come.

Il vecchio giubbotto, i jeans  strappucchiati ed amati………fiori sconosciuti, le indicavano la strada.

Dove e perché avesse perso l’ equilibrio, se lo domandava mentre precipitava nel buio cunicolo, forse i lacci delle scarpe, forse… il suo sguardo astigmatico ed un po’ vagante, forse… pensava ancora a lui…tre sassi stronzi  ed era volata nel nulla…

Fu così, che incastrata nella roccia, ringraziò di esser grassa…quel suo essere “ tanta” le aveva impedito di raggiungere il fondo…le mani sicuramente sbucciate, facevano un po’ male, sentiva l’ odore del sangue, lo avvertiva scivolare anche dalla tempia, un rivolo cAldo, che le scendeva sulla guancia, facendola sentire comunque viva …

Nel cadere aveva perso le scarpe, i piedi nudi sfioravano l’acqua, stranamente tiepida, voleva gridare, ma la gola era quasi chiusa, l’ odore forte di un qualcosa di sconosciuto, la paralizzava.

Decise di far funzionare quei pochi neuroni, che il catastrofico volo avevano ridotto a chicchi di caffe mal tostato.

Cercò di allungare le gambe, qualcosa le aveva sfiorato l’alluce, un piccolo morso la scosse, ma non la spaventò, anzi immaginò la famigliola di pescetti ciechi, danzare nell’acqua…

Doveva attingere ai ricordi, pescare nella sua memoria per sopportare il silenzio ed il buio, preludio, forse di una fine lenta ed anche un po’ stupida…

Fu da quel preciso momento che ritrovò un respiro regolare, ed una vista più nitida, nonostante gli occhiali fossero volati chissà dove.

Solo Ynès poteva star bene o quasi, incastrata in un pozzo, lontana da tutto e da tutti…alzò gli occhi al cielo e quel fazzoletto azzurro le dette speranza…ma tornò a guardare in basso, le sembrava di vedere meglio, i suoi occhi si erano abituati al buio, notò anche un foro nella roccia, vi si affacciò, rischiando di cadere ancor più giù, 15 cm di finestra nel nulla, un nulla pieno di ricordi, che la fece allontanare dalla paura…come una sfilata apparvero, nel magico imbuto i suoi ricordi belli: Sorrento con il babbo, i baci furtivi dei suoi fratelli, l’ approvazione della mamma, la fioraia bionda come il grano nonna,tata ed  amica, Lucca ed il buccellato, la schiacciata alla fiorentina, la prima minigonna, i tacchi a spillo, i primi si al buio, gli ultimi alla luce, i capelli color rame, le poesie di  Prevert lette in francese amate in italiano, le sue poesie scritte di notte, l’uovo di cioccolata vinto, quelle 36 rose rosse, il suo Paris compagno intimo e sfacciato, in quel buco le passavano i ricordi più belli, più caldi non sentiva più freddo…anzi…la sfilata continuava, senza un ordine cronologico, senza un filo logico…una pesca miracolosa : la casetta sua, l’ anello di suo padre, le foto di sua madre così bella e femminile, non provava più rancori, nel pozzo miracoloso…il viaggio  a Londra per lavoro, ma non troppo, Lampedusa, Pantelleria, più nuda che vestita…

Stava quasi per addormentarsi…quando il solito pesce le rimorse il piede…risvegliandola, udì per magia la voce di suo padre e quella canzone….bambina innamorata stanotte ti ho sognata…

Una voce parallela le strappò anche un sorriso e  sentì forte la voce argentina della mamma….e quella filastrocca che aveva sempre creduto una invenzione: il general Cadorna ha scritto alla regina….

Quella rovinosa caduta  aveva reso giustizia ai suoi ricordi buoni, nascosti in un buco muschioso a forse 10 metri sotto terra….

Ynès , Ynès Ynessss, strano la stavano cercando, qualcuno si era accorto della sua assenza…..arrivò dall’alto una grossa corda….era incerta se abboccare o restar pesce per sempre….

.

Pesci volanti

Stregatto – di Gabriella Crisafulli

In fondo ai giardini

sul cielo di prima sera

la luna sorride

solo per me

Stregatto

Torno

ad essere

Alice

Quarantena – di Gabriella Crisafulli

Mi muovo

come una gallina

Trascino

per compagna

una sorta

di stanca

follia

che mi tiene

in prigionia

Le taglierei

la testa

di netto

Zac

E mentre il capo

vola per aria

i piedi

zampettano

quaggiù.

Legami – di Gabriella Crisafulli

Scusami

sono dovuta

andare

non mi potevo

di nuovo

ammalare

Forse

sarà il caso

di avviare

una relazione

a distanza

Lanciare la lenza

Il tempo ritrovato – di Gabriella Crisafulli

Era seduta a terra, al centro del ring, le gambe divaricate, le mani a terra, il volto gonfio dai pugni incassati, mentre il sangue le colava dal naso e il corpo flaccido spillava sudore, creando una pozza fetida intorno a lei.

Era davanti a tutta quella gente mentre cercava di recuperare la testa.

Non l’aveva più o si era svuotata?

Di sicuro non ragionava.

Invece di stare lì a perdere tempo, si diceva che doveva produrre qualcosa, un pensiero qualunque, che la facesse fuggire. 

Il corpo le doleva da tutte le parti, tumefatto.

Ne aveva prese tante di botte, fin dall’infanzia, ma adesso non riusciva più a incassare.

Il dolore era così grande che non le venivano fuori le lacrime: doveva averle terminate tutte.

Che stupida, malgrado la lezione avuta, non aveva capito niente e si era affidata alla storia felice che i suoi raccontavano.

E poi, chi le avrebbe creduto?

Non c’erano testimoni.

Le maschere del dentro e del fuori erano molto diverse.

Ma non se ne rendeva conto.

Inoltre anche lei era stata al gioco che le veniva tacitamente imposto ed era diventata così brava che anche i suoi personaggi si alternavano in automatico.

All’improvviso, lì, su quell’orrido palcoscenico, si mise a ridere, a ridere, a ridere come una pazza, fino alle lacrime.

E finalmente pianse.

Ok, aveva perso ma poteva dire a se stessa di averci provato.

Per anni aveva tessuto, cucito, rammendato.

Si era aspettata miracoli.

Aveva preteso troppo.

Non poteva farcela contro l’incomprensibile e l’inconoscibile.

Già una volta si era cimentata con la sofferenza e non solo aveva fallito, ma aveva coinvolto malamente le proprie figlie.

Aveva lanciato la lenza in direzioni sbagliate.

Le piaceva fare la brava!

Ecco il risultato.

Raccolse ad uno ad uno i cocci dentro e fuori di lei.

Traghettò verso altri lidi.

Ma l’aspettava il lago del tempo.

Dilatato su di lei, l’avvolgeva, opprimeva e paralizzava: le sfuggiva fra le dita come sabbia nella clessidra e, giorno dopo giorno, lo perdeva.

Tutto questo tempo ritrovato, dopo anni di penuria, si espandeva a tal punto da smarrirla e da farle perdere il senso.

Sapeva che doveva riavvolgere il filo, trovare il bandolo e oltrepassare il muro.

Ma il dolore l’asfaltava.

Attivava frustrazione e risentimento.

Il lago diventava palude.

Come venirne fuori?

Sentiva il desiderio di usare il suo tempo, di metterlo a frutto, di essere orgogliosa di sé, delle energie che le stavano rinascendo e delle sue capacità.

Ma pensare, e ancor più agire, era una sfida.

Una battaglia persa.

Il tempo si era spezzato, frammentato e adesso toccava a lei ricomporlo in un quadro che la gratificasse.

Doveva ritrovarne la cognizione, delimitarlo.

Chiudere il sipario del passato, spalancare la finestra dell’oggi che è e che sarà.

C’era da mettere dei confini, dei paletti di contenimento al suo esondare.

C’era da trasformare il caos in audacia, capire che era una possibilità remota ma non impossibile.

Ritrovare il sapore delle notti solitarie, le sensazioni sorprendenti che dilatano.

Non pretendere troppo ma aspettare, quieta, lo sviluppo del processo.

Perdonarsi le colpe.

Avere fiducia in sé.

Le mancava il cielo dei sogni felici.

Andò in giardino a guardare in su.

Senza mare

La lingua di mare sul Gargano – di Carmela De Pilla

Per Lucia era inconcepibile vivere senza il mare, era la lancetta che scandisce tempo, la forza che spinge a ritornare così fin da quando era adolescente ogni anno, nel solito mese di agosto approdava nella casa di famiglia che si affaccia sul mare.

Quel momento era per lei un libro incompiuto in cui scrivere ogni estate un nuovo capitolo e tutte le volte c’era da raccontare una nuova storia perché quel nido raccoglieva gli affetti di un’intera famiglia costretta dagli eventi a vivere in spazi e tempi lontani.

Ogni volta  che ritornava proiettava sul grande schermo una vecchia pellicola ripassando a rassegna i ricordi di una vita e ancora oggi nella grande sala c’è un pannello su un’intera parete che incornicia e racconta la storia di tutti attraversando generazioni diverse.

Si rivedeva sedicenne mentre giocava sulla spiaggia con i due fratelli, le corse, i tuffi, le lotte sulle spalle nell’acqua, le immersioni per prendere al largo i cannolicchi e il mare diventava testimone del loro affetto, della spensieratezza e voglia di libertà.

Rivedeva suo padre e sua madre ancora giovani mentre costruivano la casa poi nonni e ora assenti, le figlie e i nipoti  ancora bambini poi ragazzi e ora adulti e lei ogni anno diversa.

È una lingua di mare del Gargano questa situata difronte alle isole Tremiti e lo spettacolo che si presenta agli occhi in ogni attimo della giornata è sorprendente.

Qui , anche se siamo sull’Adriatico si può vedere magicamente il tramonto  e spesso Lucia si recava sulla grande terrazza per sorprendersi ogni volta di quel paesaggio sempre diverso.

L’immensità del mare si incontrava con quella del cielo in un bacio appassionato e il sole  scioglieva i suoi caldi colori in quella distesa, come su una grande tavolozza creava giochi di mirabili sfumature e lei si lasciava trasportare in quella straordinaria bellezza seguendo pensieri disordinati.

Lucia sentiva scorrere nelle sue vene lo stesso mare e la mattina presto mentre tutti ancora dormivano lei si recava sulla spiaggia a correre, col tempo si accontentò di fare lunghe camminate, arrivava fino al canale che unisce il lago di Lesina al mare e poi ritornava verso casa.

 Le piaceva lasciarsi sfiorare la pelle dalla brezza mattutina, guardava i gabbiani ancora assonnati e l’acqua trasparente che faceva intravedere le increspature della sabbia disegnate sul fondo dalle onde, ogni tanto un pescatore che tirava le reti a riva.

Quando il mare era calmo, arrivata al traguardo un po’ accaldata, si concedeva un bagno rigeneratore e si lasciava andare in quell’ intimità che c’era sempre stata tra lei e il mare così iniziava una nuova giornata sotto un cielo propiziatorio.

Un altrove per pescare

Pescare senza canna – di Luca Di Volo

Questa volta la scintilla parla di pesci guizzanti sullo sfondo di un vasto orizzonte . E per me il rischio è quello di farla cadere e spengersi con un frustrante pfff…e basta.

Mi spiego. Io non ho nessuna esperienza “pratica” di questa cosa, non so nulla di esche né di “mosche” usate per adescare guizzanti creature acquatiche.

Però la metafora tra la comparsa abbagliante dell’idea e il lampo argenteo della cattura mi colpisce.

Non mi rimane quindi che creare un non-luogo e un non-tempo dove anche chi non ne sa nulla in pratica possa provare le emozioni del tirare a riva un pesce-idea.

Non so se capita anche a voi. . ma a me riesce, a volte di creare nella fantasia panorami e scenari che sembrano esistere realmente. Credo si chiami “sognare ad occhi aperti “e che più o meno tutti l’abbiano sperimentato.

Ma ora bisognava proprio che mi creassi un nuovo universo se volevo proseguire nella mia esplorazione.

Ed ecco il panorama…immaginatevi l’ansa di un grande fiume, largo e pigro. Si avvolge intorno ai due argini come una bella donna che si stira con un languido sospiro.

Il tardo pomeriggio estivo conduce un leggero zefiro che accarezza l’aria e appena scompiglia le folte chiome dei platani e degli olmi che si piegano in muta preghiera verso la corrente capricciosa, dove piccole onde sorgono e spariscono nel loro mutare: da ying a yang…e da yang a ying…senza tempo.

Io sono lì semidisteso  in un piccolo spazio di rena da cui traspaiono a filo d’acqua piccole luci che abbagliano  colpite da un sole ancora potente.

E scopro che quei lampi argentati non sono altro che pesciolini che saltano sulla superficie lottando contro corrente opponendosi al fiume che travolge.

Sento una sconfinata ammirazione per queste creature caparbie che si ostinano ad andare sulla via più difficile…

Come i nostri pensieri che spesso vagano senza ritegno verso spazi sconosciuti, attirati solo dalla bellezza di un ragionamento, fatto di pura estetica e contro ogni logica conosciuta.

E io mi stavo ponendo strane domande…. il fascino delle formule matematiche, degli antichi geroglifici…delle tavolette in cuneiforme…cos’hanno in comune? La risposta mi bruciò: oltre il senso, la traduzione, la decodifica, nessuno ha mai pensato che queste cose portano con sé un altro dono prezioso: la bellezza. Sì, prima di tutto queste espressioni sono BELLE; fatte di una bellezza arcana e svincolata da ogni aspetto PRATICO. Esse sono belle IN SE’ e PER SE’…

Attirano in un mondo totalmente “altro”, con categorie estranee ma familiari.

E, fatalmente, questo universo vuol farsi esplorare e trasportarci “altrove”, difficile resistere, bisogna partire.

Ed eccolo il mio bel pesciolino. . alla fine ne ho pescato uno anch’io.

Il pescatore

Il pescatore – di Nadia Peruzzi

L’aria era tiepida.  Il salice spargeva la sua ombra benefica.  L’attrezzatura c’era tutta, si trattava solo di mettersi a pescare.  Era stato faticoso arrivare fino a li, quel giorno, con tutta quella roba addosso e dopo quella fin troppo lunga limitazione di esercizio fisico che lo aveva infiacchito . 

Quell’angolo di paradiso ripagava dei chilometri fatti per arrivarci,  se lo diceva ogni volta, da anni,  appena poggiava tutto sul manto erboso e si metteva a guardare il fiume. 

L’acqua scorreva incedendo maestosa al centro del suo letto.   A riva,  nei punti in cui i rami del salice sembravano far tutt’uno con l’acqua la si sentiva gargottare placida mentre rilanciava lampi di verde smeraldo ogni volta che un refolo di vento spostava le fronde per lasciar passare i raggi del sole di maggio!

Era una giornata magnifica.  Nessuna nuvola, solo una brezza tesa su cui scivolavano profumi di fiori misti a quelli delle infiorescenze degli alberi non troppo distanti dal punto in cui si trovava. 

Quel giorno l’acqua era più pulita del solito.  Quasi cristallina.  Anche i pesci sembrava se ne fossero accorti.  Giocavano a rincorrersi divertendosi a far capolino di tanto in tanto. 

Non ne aveva visti mai così tanti in quel punto.   

Come se la lunga quarantena avesse fatto bene anche a loro.  Meno pescatori in giro, meno pericolo di esser catturati e di finire in padella, più possibilità di riprodursi e moltiplicarsi. 

Guardava la canna che avrebbe dovuto assemblare.  Era appoggiata sull’erba in attesa dei soliti gesti.  Amo, esca, lenza,  lancio.  Quasi un rito che aveva termine con lo zac del filo che si tendeva appena l’uncino cattivello si agganciava nella bocca dell’incauto pesce che sarebbe finito dopo non molto in bella mostra su una tavola imbandita. 

Si sentiva intorpidito nei gesti e nella volontà, quel giorno. 

La canna continuò a restare a terra. 

Dall’erba saliva un tepore che invitava a lasciarsi andare.  Non era la stanchezza della camminata era un languore misto ad una sana voglia di non far nulla di nulla in una placida giornata di primavera per godersela così com’era senza gesti eccessivi e movimenti di troppo. 

Dopo i tanti giorni passati a camminare su e giù per il corridoio di casa,  pensava che quel suo primo giorno di libertà riconquistata e all’aperto sarebbe stato condito di eccitazione frenetica. 

Invece no.   L’aria lo frastornava, il turbinio dell’acqua gli dava una sorta di capogiro.  Non era più abituato all’aria aperta, fu costretto a concludere. 

Si sdraiò accanto alla sua canna da pesca smontata, e si addormentò pressoché subito. 

Si ritrovò a sognare di un mondo popolato di una natura rigogliosa come non mai,  con tanta tanta acqua,  e di pesci giganti che giravano con immensi retini e enormi canne da pesca intenti a pescare i pescatori. 

Il rito era simile al suo :amo, esca, lenza, lancio. 

Solo che ogni volta era lui che si ritrovava quell’uncino in bocca.   Ogni volta,  allo strappo,  sentiva un gran male. 

Sentiva dei gran dolori da tutte le parti mentre lo trascinavano verso riva per stenderlo sull’erba. 

Si svegliò di soprassalto un po’ impaurito e parecchio indolenzito per l’umidità che l’erba gli aveva fatta penetrare nelle ossa. 

L’ultimo raggio di sole lambiva l’orizzonte e colorava l’acqua di fronte a lui di un rosa che si stava incupendo velocemente. 

Ripensò al sogno ma lo rivisse come fosse stato catapultato dentro una storia, figlia di un altro mondo!

Non l’aveva scritta lui .  Era lo specchio di un altro punto di vista a cui lui prima non aveva dedicato nemmeno un piccolo pensiero.   Non ci aveva fatto mai caso che tutto si potesse capovolgere così!

Dopo la grande paura causata dallo tsunami,  il senso di insicurezza che ne era derivato e ancora condizionava distanze e approcci con gli altri lentamente ci si stava rimettendo sulla via della normalità. 

La vita stava tornando a scorrere lungo i binari di un tempo!

Lui era a disagio,  ancora non era riuscito a liberarsi del tutto dalle macerie che la catastrofe aveva accumulato man mano nei suoi pensieri e dentro le corde più intime della sua anima. 

Aveva una certezza che cominciava a farsi strada nelle fin troppe incertezze con le quali si trovava a dover fare i conti. 

Nei binari di un tempo lui non ci voleva rientrare. 

Era sempre andato da solo a pescare per cercare la tranquillità che altrove non riusciva a trovare. 

Visto con altri occhi tutto questo gli appariva una via di fuga, costellata oltretutto di molti momenti di noia assoluta. 

Mentre lui era li ad aspettare per ore pesci che a volte nemmeno abboccavano la vita correva altrove. 

Aveva bisogno di contatti, di mani da stringere, di abbracci da dare e da ricevere,  di persone da ascoltare e da cui farsi sentire. 

Si stava facendo buio e questo lo costrinse a ripercorrere in fretta il sentiero che lo aveva portato fino a lì. 

La canna e tutto il resto erano rimasti abbandonati sul prato.  ”Faranno la gioia di un altro pescatore”, pensò. 

“Nella mia nuova vita a me non servono di certo.  Lascio che i pesci nuotino in santa pace.  Perché disturbarli?” 

Un pesce dal passato

Quando Lorenzo Salsi aveva voglia di fantasia:

“Salvia regina matta di misericordia/ vita d’un cieco…….” La beghina recitava con trasporto ma non avendo mai saputo il latino andava per sonorità. Salvia, Silvia? Boh! Le prime 3 lettere corrispondono all’inizio del mio cognome SAL. VIA mi da l’idea della prora, di quel modo di dire marinaresco che indica l’andar dritti, Proravia. Sal ….el sal de los mar ….. mi faccio paura.Salvia di Gerusalemme pianta non edibile per cucinare ma bellina a vedersi con le sue foglie color argento . Salvia e alloro….. uhmmmm …..fegatelli! Salvia parola morbida. Salvia parola veloce, forse per il “via”. Il mio animo la mia deformazione professionale escono prepotenti; no, via, dai! non posso parlar di piante troppo facile per me. Però che bella che è, che profumo. Ne ho una grande davanti la porta di cucina e manda un profumo che …..ma sie ….Paco Rabanne, Hermes, Givenchy, Armani ….tse! Mi siedo spesso a leggere, nella bella stagione, in giardino accanto alla Salvia sativa e godo del profumo e delle api e farfalle che si cibano del suo nettare e guarda caso la Salvia è proprio accanto al barbecue.

” Salvia regina ………”

Battito d’ali

L’inganno della trasparenza – di Chiara Bonechi

Come un appuntamento, la mattina verso le dieci lo vedo.

Salta sulla griglia dell’inferriata davanti alla finestra della camera che era di mio figlio e svolazzando batte nel vetro e cerca di entrare.

Non si accorge che la finestra è chiusa e quella trasparenza del vetro lo spinge a riprovare.

E’ un uccello piccolissimo, forse un fringuello, deliziosa creatura che non si arrende.

E io interrompo le mie faccende e mi incanto a guardarlo in questa impresa, la stessa di molte mattine, sempre alle dieci.

Lui piccolo e indifeso, non farebbe alcun male se lo facessi entrare ma io che amo gli animali ma ho sempre avuto difficoltà ad averli troppo vicino, non ho il coraggio di aprire la finestra, so che con un battito d’ali entrerebbe nella stanza e non saprei come fare a farlo uscire.

Ero giovane e da poco sposata, stavo facendo pulizie nella nostra bella camera, ricordo la finestra aperta, i profumi e i colori della primavera, quando improvvisamente una rondine si fiondò nella stanza.

Quell’uccello bellissimo che incanta mentre sfreccia nel cielo azzurro e garrisce e crea straordinari percorsi, nella camera, così vicino, mi sembrò enorme e ne ebbi paura.

Batteva svolazzando da una parete all’altra e l’unica via che sembrava non trovare era quella della finestra aperta.

Attimi che mi sono sembrati lunghissimi, la rondine chiaramente soffriva ma non riusciva a ritrovare la strada di casa.

Chiamai il vicino, fu lui a indirizzarla verso il suo cielo, lo fece con tranquillità, un atto veloce e facilissimo.

Ancora, che tanti anni sono passati da quella volta che la rondine invase la mia camera, rimango bloccata di fronte ad un delizioso fringuello che bussa e vuole entrare ingannato dalla trasparenza del vetro.

Aspetto che si arrenda, che capisca che non può entrare e voli via.

Mi accingo a pulire la griglia e il davanzale dopo che è volato, ci sono le sue tracce.

Ma un senso di amarezza mi invade, sono colpevole di perpetuare l’inganno.

Pesciolini

PESCIOLINI FRITTI – di Elisabetta Brunelleschi

Nerina e Turi trascorrevano le vacanze in un ridente paese disteso sulle pendici di quei monti siciliani affacciati sul mar Jonio.

Ogni estate Don Paolo e Donna Elvira, i genitori di Turi, li accoglievano con gioia e per loro preparavano tutte le possibili specialità locali: pasta con le melanzane, ricotta fresca, formaggio fritto, pane appena sfornato, pesce alla griglia, stoccafisso alla messinese, agnello al forno, …

Turi e Nerina scendevano al mattino verso il mare. Distendevano gli asciugamani sulla spiaggia ciottolosa e dopo essersi inebriati di sole, si tuffavano tra le onde appena increspate.

Talvolta Nerina rinunciava al bagno e se ne restava ferma, coi piedi a mollo vicino alla riva a guardare i numerosi pesciolini che quasi le sfioravano le gambe. Guizzi luminosi che si divertiva a immaginare negli abissi più profondi, sfuggiti alle reti dei pescatori!

Nei dopocena salivano in piazza con Don Paolo, lì c’era l’unico modesto bar del paese e intorno ai pochi tavolini s’intrattenevano con i compaesani.

Nelle loro conversazioni Turi riviveva l’infanzia e la giovinezza trascorse su quei monti. Nerina porgeva l’orecchio curiosa di tutto, ma rimaneva in silenzio. Parlavano in dialetto e anche se anno dopo anno quella lingua sconosciuta le era a poco a poco divenuta familiare, non riusciva a proferire verbo, capiva, ma non parlava.

Una sera Jachino, detto “il professore”, era il maestro del paese e lo si onorava con quel titolo, si rivolse a Don Paolo chiedendo:

-Ma una frittura di pesce fresco, da quanto non ve la mangiate?-

-Eh, magari! Quello sale una volta la settimana e chissà da quanto li tiene nella cesta!-

Il quello evocato da Don Paolo altri non era che Tano, il pesciaiolo che il giovedì mattina parcheggiava in piazza la ‘Lambretta’ e richiamava le donne al grido di “pesce dello Stretto, stamani costardelle fresche“.

Molti dubitavano della freschezza, ma il pesce veniva ugualmente acquistato, non c’era altro e alla fine era commestibile!

– Ce ne andiamo giù a Lumera – continuò Jachino – faremo assaggiare a vostra nuora del vero pesce. Lassù al Nord , che ne trovano!-

– Pescati freschi e buttati in padella-

Poi si rivolse a Nerina:

– Il vero pesce fresco, lo riconoscete mentre frigge!-

Continuarono a parlottare sino a notte fonda, pensando alla frittura e alla notte giusta per andare a pescare, perché era col buio che si potevano catturare i pesciolini migliori!

Un sabato pomeriggio della settimana seguente, scesero tutti a Lumera: Turi e Nerina, Don Paolo e Donna Elvira, Jachino con la moglie Donna Carmelina e i quattro figli: Mimmo, Santino, Sara e Francesca.

A Lumera Jachino aveva una casetta a due piani. Sul retro c’era un giardino recintato da un alto muro con sul fondo una porticina che si apriva direttamente sulla spiaggia 

Dopo il tramonto l’intera comitiva varcò la porticina e si portò sulla riva del mare, qui li attendeva Nino, il pescatore amico di famiglia, che aveva già gettato la rete.

I sassi della spiaggia bruciavano ancora del sole del giorno. Un raggio di luna luccicante si allungava sull’acqua.

Santino mostrò la rete. Poi a un cenno di Nino tutti, anche Nerina, iniziarono a tirare e a tirare, finché la fitta maglia emerse gonfia del guizzare di pesci mescolati a lunghe strisce di alghe nerastre.

Pian piano distesero la rete e Nino da esperto pescatore, scelse a uno a uno i pesci e nominandoli con incomprensibili termini dialettali, alcuni li buttava in un secchio e altri li rilanciava nel mare.

Don Paolo si complimentava. Nerina e Turi seduti sulla chiglia di una barca osservavano la scena. E lei intanto pensava: ‘Ecco qua i pesciolini guizzanti al mattino che finiscono in padella la sera’

Alla fine della cernita il secchio si riempì di argentee creature. Gli uomini ripulirono bene le reti  che riavvolte con cura, furono sistemate in un angolo del giardino.

Dopo poco la compagnia era seduta attorno al tavolo di cucina apparecchiato con melanzane e peperoni arrosti e poi abbondanza di pomidori, cipolla, olive e pane di semola.

Le donne avevano messo sul fornello un’enorme padella di ferro. E i pesci, lavati e asciugati furono delicatamente adagiati nell’olio che già sfrigolava.

– Ecco vedete- declamava Jachino – questi non se stanno immobili come bastoncini. Guardate come fanno!-

-Sono freschi, solo i pesci appena pescati si avvitano così mentre friggono- Gli fece eco Nino.

Era vero i pesci si torcevano come serpentelli striscianti nell’erba.

Con un largo mestolo donna Carmelina li tirava su e li deponeva nei vassoi dove era stato steso un foglio di carta gialla.

La frittura fu servita bella calda e in silenzio ognuno si servì.

Nerina mangiava lentamente, stando attenta a togliere e scartare lische, code, teste, …

Turi invece li acchiappava con due dita per la coda e se li infilava in bocca tutt’interi. Nerina lo osservava quasi spaventata, temeva gli restasse in gola qualche spina!

Mimmo, accorgendosi dei suoi scrupoli, ridendo le disse:

-Questi sono buoni così!-

E guardandola si ficcò in bocca due pesci interi dei più grossi. 

-Lassù al Nord non ne trovate!- Esclamò Jachino gustando gli ultimi rimasti nei vassoi.

Dopo cena si spostarono nel giardino. Donna Carmelina, la moglie di Jachino, aveva preparato una meravigliosa granita al caffè. Se la gustarono, intervallando le cucchiaiate con i complimenti alla cuoca perché una granita come quella pochi la sapevano fare!

Si arrivò così al termine della cena. Si salutarono con calore, ripetendo reciproci ringraziamenti e augurandosi all’infinito la buonanotte.

Jachino e famiglia rimasero a Lumera; Nerina, Turi, Don Paolo e Donna Elvira ripresero la via del paese.

Giunsero lassù a mezzanotte passata, l’aria era tiepida e il cielo brillava di stelle.

Camminarono dal parcheggio alla casa, ascoltando, nel silenzio della notte,  il risuonare dei passi sul selciato.

Qualche finestra era ancora illuminata, una sagoma scura si affacciò cauta da un balcone.

– Buonasera Angiolina!- salutò Don Paolo

– Ah! compare, siete voi!-

– E chi volevi che fosse! Andatevene a letto.-

– Buonanotte Angiola!- dissero poi tutti in coro.

-Siamo controllati- continuò a bassa voce Turi e ridendo varcarono la porta di casa.

Un pensiero sul fondo

Mi manca – di Patrizia Fusi

Il CVID-19 mi ha fatto scoprire un confine fuori e dentro di me.

Guardare dalle finestre la vita che scorre fuori, gli alberi che vanno avanti con il loro germogliare.

 Il prato con le margherite che quando c’è il sole hanno le corolle aperte.

 L’airone cenerino che sfreccia veloce su gli alberi del borro.

 Un germano reale con il suo piumaggio colorato, sparisce veloce alla mi vista.

Anche dentro di me ho sentito un limite, pesantezza, l’ho guadata, mi sono resa conto di cosa mi manca, cosa era questa pesantezza.

Mi manca prendermi cura dei mie cari.

Mi manca la loro presenza fisica, il parlarci, sentire le loro voci.

Mi mancano i miei amici, conoscenti, vicini, lo scambiarsi poche frasi.

Mi manca la biblioteca, con tutta quella gioventù silenziosa, ma piena di vita.

Mi mancano i nostri martedì.

Mi manca il piacere di galleggiare nell’acqua il sentimi accarezzare, il muovermi in quel mondo liquido e trasparente.

Mi mancano le passeggiate nella campagna, il rumore che fa l’acqua che scorre nel borro, il brusio che l’autostrada mandava a valle, passeggiate fatte da sola, ma non sola.

Sono undici anni che abito da sola, quasi mai mi era pesato.

Ora sento il peso di questo, il non sentire il suono di una voce che parla con te.

Mi manca il sentirmi dire, lo vuoi il caffè?

Faccio un complimento alla gattina e lei mi risponde con un miagolìo.

Il mio orecchio a volte nel silenzio che mi circonda, ruba i rumori dagli altri appartamenti ed è come vivere un po’ con loro.

Questo limite imposto dalla quarantena finirà, apprezzerò ancora di più tutti gli affetti che ho e tutto quello che mi circonda.

Pescare una storia

Pescare una lei e un lui – di Carla Faggi

Ho pescato una lei ed un lui di tanto tempo fa.

Lei si era innamorata solo perchè era il ragazzo di un’altra.

Lui non capì perchè, ma si innamorò subito dei suoi grandi occhi scuri.

Lei lo guardava come fosse l’unico al mondo, nessuna prima d’ora lo aveva mai fatto. Eppure aveva avuto molte ragazze, alle medie e anche ora che era al liceo ne aveva una.

Ma lei era speciale e lo faceva sentire speciale.

Mollò tutto e si buttò a capofitto nella loro storia.

Dire, fare, baciare, lettera e testamento erano solo per loro.

Ma lei amava la conquista non l’amore, e presto si stancò.

Lo lasciò con una banale scusa per perdersi in altre interminabili conquiste.

Lui rimase lì ad aspettare, ed aspettò tanto, tanto tempo.

Passarono gli anni ed arriva il marzo 2020.

Spippolando, cercando su facebook amici lontani, lui la trova, lei lo trova.

Ricordi, rimpianti, chissà come sarebbe stato se…

Pescare dentro l’anima

Liberazione della follia – di Vanna Bigazzi

Questa è la mia idea sotterranea: l’animo leggero e flessibile raccoglie idee sane. La scintilla, questa volta, è stata il tuffo della follia in morbide acque, dove non le è consentito albergarvi e il pesce, in questo caso, è la libertà che guarisce.

Dove abiti follia?

Ti cerco e tu mi evadi,

ti temo, ma sei molto lontana.

Certo, attenueresti i miei dolori,

ma tu non mi sei amica,

mi porti dei rancori.

Troppo flessibile è il mio centro,

più non sa raggiungere i confini,

solo grossi muri puoi incontrare.

In me calpesti terreno sconosciuto,

in me tu approdi in regioni straniere,

troppo tenero e spugnoso è il mio tessuto,

frutto ne sono gli anni di lavoro.

Potrei solo cullarti ed abbracciarti

e impedirti quell’urto sugli scogli,

dove salda potresti radicare.

Placati dunque follia, in un morbido letto

e poi apri l’ali in vasti cieli aperti,

cercando, pallida, propizie libertà.