Un pesciolino letterario

Da Siddharta – di M.Laura Tripodi

Lo studio di Herman Hesse

Io ho pescato questo pesciolino, che in verità tanto piccolo non è.

Mi ha rapito il libro, riletto dopo tanti anni e in questo brano mi  sono riconosciuta.

Acqua che passa, acqua che canta e non si ferma mai.

Hermann Hesse

Siddharta

“Serenamente contemplava la corrente del fiume; mai un’acqua gli era piaciuta come questa, mai aveva sentito così forti e così belli la voce e il significato dell’acqua che passa. Gli pareva che il fiume avesse qualcosa di speciale da dirgli, qualcosa che egli non sapeva ancora, qualcosa che aspettava proprio lui. In quel fiume Siddharta s’era voluto annegare, in quel fiume oggi s’era annegato il vecchio, stanco, disperato Siddharta. Ma il nuovo Siddharta sentiva un amore profondo per quest’acqua fluente, e decise fra sé di non abbandonarla tanto presto.”

Il pesce nel pozzo

YNÈS – di Rossella Gallori

Dopo mesi da “ gatta di piombo” aveva deciso di fare qualche metro in campagna, allontanandosi da casa, gli unici esseri semiviventi che aveva visto ultimamente erano nell’ ordine: il frigo aperto ed ammiccante, il divano comodo e sprofondante…e la televisione, amica e nemica da sempre…

Indossò scarpe comode, non quelle da ginnastica  detestate fin da i primi anni di vita, ma le sue Clark color miele, poco adatte all’andar per campi, ma Ynès non sapeva, forse, manco più camminar bene, appesantita ed un po’ imbambolata, era arrivata alla soglia dei 70, senza manco saper come.

Il vecchio giubbotto, i jeans  strappucchiati ed amati………fiori sconosciuti, le indicavano la strada.

Dove e perché avesse perso l’ equilibrio, se lo domandava mentre precipitava nel buio cunicolo, forse i lacci delle scarpe, forse… il suo sguardo astigmatico ed un po’ vagante, forse… pensava ancora a lui…tre sassi stronzi  ed era volata nel nulla…

Fu così, che incastrata nella roccia, ringraziò di esser grassa…quel suo essere “ tanta” le aveva impedito di raggiungere il fondo…le mani sicuramente sbucciate, facevano un po’ male, sentiva l’ odore del sangue, lo avvertiva scivolare anche dalla tempia, un rivolo cAldo, che le scendeva sulla guancia, facendola sentire comunque viva …

Nel cadere aveva perso le scarpe, i piedi nudi sfioravano l’acqua, stranamente tiepida, voleva gridare, ma la gola era quasi chiusa, l’ odore forte di un qualcosa di sconosciuto, la paralizzava.

Decise di far funzionare quei pochi neuroni, che il catastrofico volo avevano ridotto a chicchi di caffe mal tostato.

Cercò di allungare le gambe, qualcosa le aveva sfiorato l’alluce, un piccolo morso la scosse, ma non la spaventò, anzi immaginò la famigliola di pescetti ciechi, danzare nell’acqua…

Doveva attingere ai ricordi, pescare nella sua memoria per sopportare il silenzio ed il buio, preludio, forse di una fine lenta ed anche un po’ stupida…

Fu da quel preciso momento che ritrovò un respiro regolare, ed una vista più nitida, nonostante gli occhiali fossero volati chissà dove.

Solo Ynès poteva star bene o quasi, incastrata in un pozzo, lontana da tutto e da tutti…alzò gli occhi al cielo e quel fazzoletto azzurro le dette speranza…ma tornò a guardare in basso, le sembrava di vedere meglio, i suoi occhi si erano abituati al buio, notò anche un foro nella roccia, vi si affacciò, rischiando di cadere ancor più giù, 15 cm di finestra nel nulla, un nulla pieno di ricordi, che la fece allontanare dalla paura…come una sfilata apparvero, nel magico imbuto i suoi ricordi belli: Sorrento con il babbo, i baci furtivi dei suoi fratelli, l’ approvazione della mamma, la fioraia bionda come il grano nonna,tata ed  amica, Lucca ed il buccellato, la schiacciata alla fiorentina, la prima minigonna, i tacchi a spillo, i primi si al buio, gli ultimi alla luce, i capelli color rame, le poesie di  Prevert lette in francese amate in italiano, le sue poesie scritte di notte, l’uovo di cioccolata vinto, quelle 36 rose rosse, il suo Paris compagno intimo e sfacciato, in quel buco le passavano i ricordi più belli, più caldi non sentiva più freddo…anzi…la sfilata continuava, senza un ordine cronologico, senza un filo logico…una pesca miracolosa : la casetta sua, l’ anello di suo padre, le foto di sua madre così bella e femminile, non provava più rancori, nel pozzo miracoloso…il viaggio  a Londra per lavoro, ma non troppo, Lampedusa, Pantelleria, più nuda che vestita…

Stava quasi per addormentarsi…quando il solito pesce le rimorse il piede…risvegliandola, udì per magia la voce di suo padre e quella canzone….bambina innamorata stanotte ti ho sognata…

Una voce parallela le strappò anche un sorriso e  sentì forte la voce argentina della mamma….e quella filastrocca che aveva sempre creduto una invenzione: il general Cadorna ha scritto alla regina….

Quella rovinosa caduta  aveva reso giustizia ai suoi ricordi buoni, nascosti in un buco muschioso a forse 10 metri sotto terra….

Ynès , Ynès Ynessss, strano la stavano cercando, qualcuno si era accorto della sua assenza…..arrivò dall’alto una grossa corda….era incerta se abboccare o restar pesce per sempre….

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Pesci volanti

Stregatto – di Gabriella Crisafulli

In fondo ai giardini

sul cielo di prima sera

la luna sorride

solo per me

Stregatto

Torno

ad essere

Alice

Quarantena – di Gabriella Crisafulli

Mi muovo

come una gallina

Trascino

per compagna

una sorta

di stanca

follia

che mi tiene

in prigionia

Le taglierei

la testa

di netto

Zac

E mentre il capo

vola per aria

i piedi

zampettano

quaggiù.

Legami – di Gabriella Crisafulli

Scusami

sono dovuta

andare

non mi potevo

di nuovo

ammalare

Forse

sarà il caso

di avviare

una relazione

a distanza

Lanciare la lenza

Il tempo ritrovato – di Gabriella Crisafulli

Era seduta a terra, al centro del ring, le gambe divaricate, le mani a terra, il volto gonfio dai pugni incassati, mentre il sangue le colava dal naso e il corpo flaccido spillava sudore, creando una pozza fetida intorno a lei.

Era davanti a tutta quella gente mentre cercava di recuperare la testa.

Non l’aveva più o si era svuotata?

Di sicuro non ragionava.

Invece di stare lì a perdere tempo, si diceva che doveva produrre qualcosa, un pensiero qualunque, che la facesse fuggire. 

Il corpo le doleva da tutte le parti, tumefatto.

Ne aveva prese tante di botte, fin dall’infanzia, ma adesso non riusciva più a incassare.

Il dolore era così grande che non le venivano fuori le lacrime: doveva averle terminate tutte.

Che stupida, malgrado la lezione avuta, non aveva capito niente e si era affidata alla storia felice che i suoi raccontavano.

E poi, chi le avrebbe creduto?

Non c’erano testimoni.

Le maschere del dentro e del fuori erano molto diverse.

Ma non se ne rendeva conto.

Inoltre anche lei era stata al gioco che le veniva tacitamente imposto ed era diventata così brava che anche i suoi personaggi si alternavano in automatico.

All’improvviso, lì, su quell’orrido palcoscenico, si mise a ridere, a ridere, a ridere come una pazza, fino alle lacrime.

E finalmente pianse.

Ok, aveva perso ma poteva dire a se stessa di averci provato.

Per anni aveva tessuto, cucito, rammendato.

Si era aspettata miracoli.

Aveva preteso troppo.

Non poteva farcela contro l’incomprensibile e l’inconoscibile.

Già una volta si era cimentata con la sofferenza e non solo aveva fallito, ma aveva coinvolto malamente le proprie figlie.

Aveva lanciato la lenza in direzioni sbagliate.

Le piaceva fare la brava!

Ecco il risultato.

Raccolse ad uno ad uno i cocci dentro e fuori di lei.

Traghettò verso altri lidi.

Ma l’aspettava il lago del tempo.

Dilatato su di lei, l’avvolgeva, opprimeva e paralizzava: le sfuggiva fra le dita come sabbia nella clessidra e, giorno dopo giorno, lo perdeva.

Tutto questo tempo ritrovato, dopo anni di penuria, si espandeva a tal punto da smarrirla e da farle perdere il senso.

Sapeva che doveva riavvolgere il filo, trovare il bandolo e oltrepassare il muro.

Ma il dolore l’asfaltava.

Attivava frustrazione e risentimento.

Il lago diventava palude.

Come venirne fuori?

Sentiva il desiderio di usare il suo tempo, di metterlo a frutto, di essere orgogliosa di sé, delle energie che le stavano rinascendo e delle sue capacità.

Ma pensare, e ancor più agire, era una sfida.

Una battaglia persa.

Il tempo si era spezzato, frammentato e adesso toccava a lei ricomporlo in un quadro che la gratificasse.

Doveva ritrovarne la cognizione, delimitarlo.

Chiudere il sipario del passato, spalancare la finestra dell’oggi che è e che sarà.

C’era da mettere dei confini, dei paletti di contenimento al suo esondare.

C’era da trasformare il caos in audacia, capire che era una possibilità remota ma non impossibile.

Ritrovare il sapore delle notti solitarie, le sensazioni sorprendenti che dilatano.

Non pretendere troppo ma aspettare, quieta, lo sviluppo del processo.

Perdonarsi le colpe.

Avere fiducia in sé.

Le mancava il cielo dei sogni felici.

Andò in giardino a guardare in su.

Senza mare

La lingua di mare sul Gargano – di Carmela De Pilla

Per Lucia era inconcepibile vivere senza il mare, era la lancetta che scandisce tempo, la forza che spinge a ritornare così fin da quando era adolescente ogni anno, nel solito mese di agosto approdava nella casa di famiglia che si affaccia sul mare.

Quel momento era per lei un libro incompiuto in cui scrivere ogni estate un nuovo capitolo e tutte le volte c’era da raccontare una nuova storia perché quel nido raccoglieva gli affetti di un’intera famiglia costretta dagli eventi a vivere in spazi e tempi lontani.

Ogni volta  che ritornava proiettava sul grande schermo una vecchia pellicola ripassando a rassegna i ricordi di una vita e ancora oggi nella grande sala c’è un pannello su un’intera parete che incornicia e racconta la storia di tutti attraversando generazioni diverse.

Si rivedeva sedicenne mentre giocava sulla spiaggia con i due fratelli, le corse, i tuffi, le lotte sulle spalle nell’acqua, le immersioni per prendere al largo i cannolicchi e il mare diventava testimone del loro affetto, della spensieratezza e voglia di libertà.

Rivedeva suo padre e sua madre ancora giovani mentre costruivano la casa poi nonni e ora assenti, le figlie e i nipoti  ancora bambini poi ragazzi e ora adulti e lei ogni anno diversa.

È una lingua di mare del Gargano questa situata difronte alle isole Tremiti e lo spettacolo che si presenta agli occhi in ogni attimo della giornata è sorprendente.

Qui , anche se siamo sull’Adriatico si può vedere magicamente il tramonto  e spesso Lucia si recava sulla grande terrazza per sorprendersi ogni volta di quel paesaggio sempre diverso.

L’immensità del mare si incontrava con quella del cielo in un bacio appassionato e il sole  scioglieva i suoi caldi colori in quella distesa, come su una grande tavolozza creava giochi di mirabili sfumature e lei si lasciava trasportare in quella straordinaria bellezza seguendo pensieri disordinati.

Lucia sentiva scorrere nelle sue vene lo stesso mare e la mattina presto mentre tutti ancora dormivano lei si recava sulla spiaggia a correre, col tempo si accontentò di fare lunghe camminate, arrivava fino al canale che unisce il lago di Lesina al mare e poi ritornava verso casa.

 Le piaceva lasciarsi sfiorare la pelle dalla brezza mattutina, guardava i gabbiani ancora assonnati e l’acqua trasparente che faceva intravedere le increspature della sabbia disegnate sul fondo dalle onde, ogni tanto un pescatore che tirava le reti a riva.

Quando il mare era calmo, arrivata al traguardo un po’ accaldata, si concedeva un bagno rigeneratore e si lasciava andare in quell’ intimità che c’era sempre stata tra lei e il mare così iniziava una nuova giornata sotto un cielo propiziatorio.