M.Laura Tripodi ci segnala dalle parole crociate:
26 verticale: “scrivono con l’anima”
Soluzione: MATITE
M.Laura Tripodi ci segnala dalle parole crociate:
26 verticale: “scrivono con l’anima”
Soluzione: MATITE
Era un giorno di marzo – di Cecilia Trinci

Era una giornata di marzo, bella come questa, la prima volta che, per un progetto di lavoro, sono entrata in un carcere. Porto Azzurro col sole, la rocca, il cancello, la postazione di controllo dove lasciare la borsa, il cellulare, i documenti, qualsiasi altro collegamento con l’esterno. Non ero sola, avevo un accompagnatore che mi sosteneva nel percorso fino al di là del metal detector, del portone blindato che scattò con un potente clac dietro le nostre spalle. Chiusa. Ero chiusa anche io dentro quelle mura. Fumo di sigaretta, rumori metallici, mura strette. Gentilezza, curiosità, pudore. Sguardi. Distanza di sicurezza. In carcere è facile porgere umanità e riceverla. Se dai fiducia si spande intorno come caffè. Il progetto fu pieno di risultati. Loro, i detenuti del progetto, passarono un giorno ad ascoltarmi, imparando con grande facilità tutto quanto insegnavo. A tratti un sorvegliante controllava buttando rimproveri a caso. Niente internet. Niente cellulare. Niente contatti esterni. Gli affetti al di là delle mura, al di là del mare. Avevano sguardi attenti e io, in cambio, avevo solo parole e fiducia piena.
Ma quello che oggi mi ricordo è la disperazione che mi prese il giorno seguente, pensando esseri umani a vivere di continuo quel senso claustrofobico che avevo vissuto. Durante l’intervallo del pranzo io potei uscire sulle mura della rocca a mangiare un piccolo panino. Loro no, rimasero dentro. “Non possono uscire in questo periodo” mi rispose il tutor accompagnatore. Come non possono uscire? Nemmeno un pochino dentro questo sole immenso sul mare blu? No. Erano le regole. Loro rimasero accalcati a fumare ad una piccola finestra che dava in una corte interna e da cui si vedeva a poca distanza da poterlo quasi toccare, solo un muro bianco, altissimo. Neppure il cielo si vedeva. Il fumo di sigaretta acre non riusciva a dissiparsi mai. Era caldo in quelle celle piccole e chiuse ed era solo marzo. Fuori, indifferente, Il sole picchiava sulle pietre della rocca. Il mare blu si increspava appena sotto la brezza di marzo.
Ho sognato di volare – di Carmela De Pilla

Volare, quante volte ho sognato di volare.
Di giorno, di notte!
Quando ero bambina sognavo spesso di volare, era il modo più semplice per liberarmi da quella prigione che ingabbiava il mio corpo e la mia anima.
Mi incantavo davanti al volo armonioso delle farfalle che disegnavano nell’aria graziose coreografie e le seguivo con lo sguardo finchè non sparivano del tutto.
Vedevo anche il luogo dove si incontravano, ali colorate che dipingevano tele impalpabili contro l’azzurro accecante del cielo e io con loro danzavo spensierata e felice.
E invece no, non ero affatto felice!
Volevo scavalcarlo quel muro, divorare la porta di quel collegio che mi separava dai miei genitori emigrati in Germania quando io ero troppo piccola per capire.
Tra le mura di quel giardino altri bambini giocavano ronzandomi intorno e io confusa mi sceglievo un angolo solitario per leggere il libro delle fiabe, lo portavo sempre con me.
Mi piacevano le fiabe, mi facevano entrare in quel mondo immaginario dove tutto è possibile, anche essere felice e io diventavo Cenerentola che balla con il principe.
Di notte mi tenevano compagnia le stelle, prima di andare a letto le guardavo, ce n’era sempre una più luminosa, era la mia mamma che mi lanciava un bacio.
Non mi piaceva la fiaba di Peter Pan, perchè voleva scappare dai genitori per andare nell’isola che non c’è?
Lui che poteva gioire per una carezza o per un bacio voleva allontanarsi dalla sua mamma e dal suo babbo!
Solo quando fui più grandicella ne capii veramente il senso e ancora oggi è una delle fiabe che amo di più, in fondo io ci andavo spesso nell’isola che non c’è.
Mi ricordo….. – di Anna Meli

Se chiudo gli occhi risento le voci, i rumori, i profumi che hanno accompagnato quei momenti magici. Per quel che mi ricordo non ho masi pensato a quel che avrei fatto da grande. La vita scorreva in modo naturale; i problemi, anche se ci fossero stati, chi li vedeva? Avevo i miei genitori che mi volevano un gran bene, un nonno brontolone, ma buono e un fratello più grande otto anni di me che adoravo e a cui non perdevo occasione, come diceva lui, per appiccicarmi dietro.
I miei giochi erano palla avvelenata, saltare alla corda, nascondino e altri inventati lì per lì. Tutto andava bene pur di stare all’aria aperta con altri ragazzi. Non disdegnavo nessuna compagnia maschi o femmine che fossero e questo mi poneva in discussione con quest’ultime perché volevano fare gruppo a sé, cosa che non mi piaceva per niente.
Non c’era a quel tempo, la scuola materna e la mia mamma mi aveva mandato all’asilo delle suore; non avevo accettato i loro metodi e dopo una settimana ero nuovamente a casa. Che ci potevo fare se non le sopportavo con le loro imposizioni?
L’estate era per me la stagione più bella perché potevo star fuori quasi tutto il giorno. Nei campi il grano maturo biondeggiava e i contadini lo mietevano con le falci, ne facevano dei covoni e li lasciavano in mucchi in attesa del carro trainato dai buoi che passava a raccoglierli per portarli sull’aia del casolare dove abbarcato tutto insieme a forma di grossa cupola sarebbe rimasto in attesa del successiva battitura.
Mi ricordo della sensazione di sofferenza che provavo quando volevo anch’io correre scalza come i figli del contadino sugli steli recisi del grano. Che colazioni alle 10 all’ombra della querce grande: fagioli all’uccelletto, bruschetta e noci. Tornando a casa per il pranzo non avevo fame a la mamma si preoccupava. Io non potevo dirle il perché se no mi avrebbe rimproverata.
Finita l’Estate arrivava il I° Ottobre e tutti a Scuola! Mi ci trovavo bene. Le insegnanti erano brave e buone: in particolare ricordo la Signorina Marta, molto carina e di una sensibilità non comune dalla quale ero particolarmente affascinata (mi vengono quasi le lacrime nel ricordarla).
Anche Lei, un po’ come Cecilia, metteva l’aula al buio, poi faceva ascoltare della musica che avremmo dovuto trasformare in disegni. In quei momenti non tutti reagivano allo stesso modo, c’era anche chi ridacchiava, ma questo forse faceva parte del gioco e della voglia di vivere che non poteva esprimersi diversamente.
Poi arrivavano le feste di Natale, con il presepe, l’albero addobbato con palline, oggettini di vetro e una specie di neve che se entrava addosso ti grattavi per una settimana. E poi la Befana, misteriosa, con pochi ma graditi doni e la calza appesa al camino. Si faceva finta di dormire, ma si vedeva tutto!
C’è stata pace ed armonia nella mia infanzia, anche perché condivise con quasi tutte le famiglie del paese in cui ancora vivo.
Purtroppo si cresce, si invecchia, le cose si trasformano, non sono più le stesse, ma i ricordi – e ne ho tanti – rimangono fedeli amici della mia vita.
Quel viaggio di ritorno da Pec – di Laura Galgani

Quei giornalini del “Piccolo Missionario” li ricordo ancora: piccoli, formato “Topolino”, carta lucida, disegni in bianco e nero. Mi portavano a casa le avventure – proprio di questo si trattava – dei Padri Comboniani in Africa, minacciati da guerriglieri e criminali di varia specie nei villaggi delle Missioni cristiane; le vicende erano drammatiche, ma il lieto fine, dopo scontri, anche violenti, trattative e parole di pace, era assicurato.
Uno dei Padri era venuto al catechismo, mesi prima, e ci aveva raccontato un po’ di quel che succedeva laggiù, in quelle terre lontane piene di pericoli, dove loro andavano a portare cure, istruzione, infrastrutture, e naturalmente il Vangelo. Allora, avrò avuto 7 anni, non ero in grado di comprendere tutte le implicazioni politiche né i risvolti sociali e demografici delle opere missionarie, ma restai affascinata dallo spirito di sacrificio di quei Padri, e ben volentieri chiesi alla mamma di potermi abbonare al giornalino per sostenere le missioni.
Oggi quei giornalini mi sarebbero molto utili, perché vi avrei potuto studiare il movimento terroristico di Boko Haram “ante litteram”, come pure scoprirvi alcune delle cause dell’esplosione demografica nel continente africano, le dinamiche tribali che portano instabilità nelle zone agricole, lo sfruttamento delle risorse da parte dei Paesi ricchi, il difficile rapporto delle tribù con i governi centrali e così via. E invece di quei giornalini, ad un certo punto, ho perso completamente le tracce. Ma non dentro di me.
Per ritrovarne il segno bisogna fare un salto nel tempo di 7 anni in avanti, e uno nello spazio per arrivare da Firenze alla città di Pec, in quello che oggi è il Kosovo ma che nel 1978 era ancora la Yugoslavia di Tito. Mio padre, quell’anno, aveva deciso che la meta del nostro mese di vacanze estive in roulotte sarebbe stata la penisola balcanica, e ce la fece vedere tutta, da nord a sud. Il Ponte di Mostar, Sarajevo, Dubrovinik… ho visto quelli “veri”, non le ricostruzioni. Verso la metà del viaggio, non so perché – ma in realtà un bel perché c’era, eccome – ci volle portare persino laggiù, anzi prima lassù, scavalcando monti brulli e sassosi e poi coperti di boschi fitti e neri, per poi scendere giù, a Pec, in una conca polverosa che non prometteva niente di esaltante. Quando arrivammo il cielo era grigio, e come quello tutto intorno a noi: gli edifici alti e desolati, tutti uguali, di cemento e senza storia; le strade coperte di polvere e disseminate di spazzatura, da dove i sacchetti di plastica si sollevavano gonfiati dal vento nella speranza di ritrovare un po’ di vita. Di lato alle strade, sotto al marciapiede, scorrevano fogne a cielo aperto, scarichi di quella tristezza atavica e profonda che sembrava essersi impadronita delle persone e delle cose. Ricordo un vento insistente e fastidioso, che mi gettava polvere negli occhi e aumentava ancora di più l’irritazione e lo sconcerto che provavo. La grande piazza centrale era quasi deserta: due donne musulmane – forse le prime che vedevo col chador in vita mia – indossavano pantaloni alla turca ed erano avvolte dalla testa fino a metà gambe da dei grandi teli azzurrini; solo una piccola bottega era aperta e lì, da un artigiano apparentemente vecchio, dai capelli lunghi e scompigliati, magrissimo, comprammo due sgabellini piccoli piccoli, che abbiamo custodito come reliquie fino ad oggi, in ricordo di quel posto così desolato eppure così sacro. Ad interrompere quel silenzio polveroso arrivò un bambino che da solo tirava calci ad un pallone di cuoio semisgonfio, urlando “gooool” tutte le volte che la palla andava a rimbalzare contro un muro. Eravamo gli unici turisti, ovviamente. Vestiti in maniera assolutamente inopportuna per una città musulmana, con mia madre di sicuro in abitino striminzito corto abbondantemente sopra il ginocchio, braccia scoperte e capigliatura cotonata, mio padre e i miei due fratelli in pantaloncini corti, io non so ma avrò avuto i jeans e una maglietta… quelle poche persone ci guardavano con molto, molto sospetto, e la sensazione fu che prima avessimo tolto le tende e meglio sarebbe stato.
La brevità della nostra permanenza non riuscì però a rendere meno intense le mie sensazioni. Salii in macchina e una tristezza profonda mi assalì, mentre guardavo gli stessi casermoni tristi di cemento scorrermi accanto.
La bambina che ero… – di Rossella Gallori

I bambini sono fiori, piccoli bocci da accudire, da annaffiare, per farli crescere, protetti, da serre chiamate case…ecco credo che in casa mia avessero perso l’ annaffiatoio…o si era rotto? O non c’era mai stato! O ancor peggio, non c’ era acqua?
Ma io, io, io, ero una bimba fortunata avevo un giardiniere, un giardiniere, solo per me.
Trotterellavo nel lungo corridoio, ad ogni piccolo ostacolo gridavo: babbooooo!!
Non avevo particolari doti, l’ aria sempre imbronciata, annoiata, interessata più alle voci, che ai giochi, ecco si, non sapevo giocare, avevo una scimmia di lana nera che trascinavo da una stanza all’ altra ed un orso di brutta pelliccia che si chiamava Bernardo, aspettavo, aspettavo e basta, in quella casa troppo grande, per un esseruccio come me, tra rumori e suoni crescevo, con il frastuono molesto della voce della nonna, il fruscio argentino ed invasivo della mamma….nell’ attesa del suono magico della sua voce, ed allora aprivo occhi, braccia e cuore…non volevo altro che lui, il mio giardiniere…ero il suo fiore più bello, credevo di avere petali stupendi, un colore unico, un fiore eterno…invece…invece..
Iniziò troppo presto il periodo della fuga, scappavo, da tutto e da tutti, cercando un nascondiglio, in quell’ attesa spasmodica che non portò a nulla, se non ad una solitudine, che divenne compagna…e non mi bastavano, fratelli, mamma….inghiottivo delusioni, abbandoni, veri e presunti, mi sdraiavo sul tappeto ai piedi del “nostro letto” facendo finta di essere un cane, che non riusciva ad abbaiare, aspettando che lui mi venisse a cercare ad accarezzare, che mi togliesse il guinzaglio, bruciasse la cuccia, mi prendesse in braccio e mi portasse via…..
Ecco la bimba che ero, una che aspettava, volevo solo ritornare sul lettone, per imparare a scrivere a leggere, con lui e per lui, per inventare storie di case belle affacciate sul mare, di bimbe intelligenti, sorridenti, di stoffe colorate utili per foderare anime, per avvolgere sogni… babbooooo !! Non rispondeva più nessuno, ed avevo “già dieci anni”, non solo “10 anni” qualcuno aveva deciso che ero grande…
E feci finta di esserlo, per quattro anni, vivevo allo stato brado, un cavallo ferito, che non sopportava sella, un oggetto non in vendita, che si poteva comprare con tre parole ed una voce che me ne ricordava un’altra.
Lasciai i sogni che non avevo ed andai a lavorare, mi accompagnò il babbo quel giorno…..anche se non c’era più da tempo….. fu la mia salvezza.
Ma che fine ha fatto quella bambina?
Volevo essere un sasso, ma volevo anche volare – di Stefania Bonanni

“Addolorata, indispettita, decisi che non avrei più studiato. Smisi di fare i compiti, non aprii il libro, e l’inverno passò mentre provavo a diventare sempre più estranea a me stessa.Cancellai certe abitudini che mi aveva imposto lui: leggere il giornale, guardare il telegiornale. Passai dal colore bianco o rosa al nero, neri gli occhi, nere le labbra, nero ogni capo d’abbigliamento. Fui svagata, sorda ai rimproveri degli insegnanti, indifferente ai piagnistei di mia madre. Invece di studiare, divorai romanzi, guardai film in tv, mi assordai con la musica. Soprattutto, restai in silenzio, poche parole e basta. Già normalmente non avevo amici, a parte antiche consuetudini. Ma anche loro furono ingoiare dalle tragedie. Restai del tutto sola, con la mia voce che girava a vuoto nella testa. Ridevo tra me e me, mi facevo smorfie. Passavo molto tempo per i sentieri che una volta avevo percorso con mia madre. Mi piaceva precipitare intontita nel tempo felice di una volta. Del resto, ero vecchia.”
Ho letto e riletto questa pagina molte volte, vorrei la conosceste. A qualunque età, qualunque sia il dramma, questi sentimenti penso siano universali, o perlomeno, sono quelli che mi hanno attraversato. Obiettivo, cambiare. A momenti desiderando diventare un sasso, in altri cercando di imparare ad andare avanti senza pensare, in altri cercando nel tempo passato un segnale di forza, di coraggio, e magari non trovarlo. Altri sono inspiegabilmente giorni leggeri, con il riso pronto ad apparire, anche senza senso, ed allora va tutto bene. Si può cambiare, si può non riuscire a cambiare, siamo disposti a tutto per continuare.
IL MEDICO E LA BAMBINA – di Elisabetta Brunelleschi

Una targhetta in marmo affissa accanto alla porta recitava: “ambulatorio eretto dal popolo per il popolo” .
Quando c’era bisogno del dottore, quello era l’ambulatorio più vicino, distava solo un chilometro da casa nostra. Gli altri, la Misericordia o la Croce Rossa, prevedevano percorsi di 4 e 5 Km.
L’avevano allestito in una stanza del Circolo de La Fonte. Ricordo poche persone silenziose sedute su sedie impagliate, tutte allineate in un corridoio lungo e buio, io che non potevo star ferma e la mamma che mi guardava male perché negli ambulatori si deve stare buoni, è maleducazione andare in qua e là! Il Signor Dottore non vuole la confusione, ci brontola!
Quando finalmente giungeva il nostro turno, compariva Emma che, con fare gentile, apriva la porta ed eccoci in una stanza ampia e luminosa.
L’Emma, un donnone di forse cinquantanni, con vesti chiare da infermiera, i capelli lisci e tirati all’indietro, faceva entrare i pazienti e poi se stava seduta da una parte a cucire, ricamava a punt’a smerlo un pezzetto di stoffa da me mai ben identificato. Poteva essere un colletto, il davanti di una camicetta o un banale fazzoletto.
Emma, l’ho scoperto da grande, non era un’infermiera, ma semplicemente una persona che da volontaria, faceva l’assistente al medico e poi apriva, chiudeva, puliva .
Dappertutto in quella stanza dominava il bianco, nel telo che copriva il lettino, nell’asciugamano che ciondolava accanto al lavandino e nel metallo dell’armadietto a vetri sui cui ripiani erano schierate bottigliette di disinfettanti, contenitori in smalto e scatole di sconosciute medicine.
Era proprio l’armadietto la prima cosa che guardavo, nel timore di scoprirci siringhe pronte per chissà quale iniezione!
Nel centro della parete di fronte alla porta c’era il tavolo del dottor S. il nostro medico. Un uomo sempre vestito con eleganza, alto, con un bel vocione simpatico.
Ci accoglieva sorridendo, chiedeva, spiegava con parole semplici, talvolta con battute anche salaci. Pur mantenendo l’autorevolezza di un dottore, si faceva capire da persone umili, che non avevano dimestichezza con i termini tecnici della scienza medica.
Da piccola rosicchiavo le bucce delle arance, la mamma gli domandò se mi potevano far male: – No, ma stai attenta, chissà laggiù chi le maneggia e cosa ci mettono sopra, le devi lavare bene bene!-
Una volta, io ero terrorizzata da alcuni nei che mi erano comparsi sulle mani, lui con fare paterno e un po’ scuotendo la testa disse: – Ma non sei morta ancora, e allora?-
Un’altra volta, ma ero già più grande, mi ammalai poco dopo essere stata dalla parrucchiera, venne a visitarmi e vedendo i miei capelli ben acconciati e constatando il mio stato (febbre alta, tosse e raffreddore) esclamò:- Anche con la peste bubbonica andate a farvi i capelli voi donne!-
E di fronte ai continui lamenti della mamma su intestino e stomaco che secondo lei non funzionavano, venne fuori con questa domanda: – Allora cos’è, non digerisci o non cachi?-
Lei fece tesoro di quella domanda e per un po’ il suo apparato digerente non dette problemi.
Era un medico di altri tempi, veniva a casa, visitava i malati, si fermava a salutare e chiacchierare. I pazienti lo rispettavano e seguivano le sue prescrizioni.
Non ne ho mai avuto paura. Le mani che palpavano la pancia dolorante erano morbide e calde, l’orecchio appoggiato sulla schiena per sentire i bronchi mi provocava solo un leggero solletico quando i capelli sfioravano la pelle. Mi disturbavano l’aprir bocca e l’abbassa-lingua ma durava un attimo!
Non drammatizzava le situazioni e questo era un bene per la mia mamma, che, non lo voleva dare a vedere, ma era ossessionata dalle malattie.
Invece per alcuni era lì il suo punto debole. Si raccontava di mali non riconosciuti, di diagnosi fatte con leggerezza, di pazienti che per queste ragioni si erano rivolti a altri dottori.
La mia famiglia non ha mai avuto da rimproverargli niente. È rimasto il nostro medico di famiglia, sino a quando, per raggiunti limiti d’età ha lasciato la professione.
Da moltissimi anni quell’ambulatorio luminoso e lindo non c’è più. Nel corso del tempo la stanza è stata utilizzata per le più svariate esigenze. Nei lontani anni Settanta del secolo scorso ha persino ospitato una sezione di scuola materna!
Ma oltre al ricordo dell’Emma e del dottore, resta dentro di me quel senso di rispetto e reverenza per il Signor Dottore che mi è stato inculcato negli anni dell’infanzia, mi accompagna in ogni contatto col mondo della sanità e mi porta a considerare medici e infermieri persone di un gradino più alto perché capaci di conoscere e curare quei misteri che spesso sono le malattie.
Volare non è facile eppure non impossibile – di Vanna Bigazzi

Bellissime queste “scintille” del secondo incontro con Cecilia, mi hanno veramente ispirato tanto, eccone il prodotto:
-Chi avremmo voluto diventare da grandi? Siamo riusciti a rispettare i nostri desideri, il nostro primo impulso?- Posso raccontare la mia esperienza che ancor oggi mi sorprende. Soffrendo da piccola delle discussioni familiari legate a divergenze fra i miei, in particolare riguardanti mia sorella, mi ponevo il problema di cosa potessi fare io, da grande, per alleggerire, se non proprio risolvere, certe tensioni. Quando le persone mi chiedevano cosa avrei voluto fare, ricordo che davo delle risposte che lasciavano un po’ perplessi gli interroganti o comunque non producevano in loro espressioni gioiose, di approvazione come in genere accade ed è giusto che accada. La mia risposta era questa: – vorrei aiutare le persone a capirsi fra loro, quando non ci riescono…- Gli interlocutori, dopo qualche secondo di riflessione, comunque accennavano un sorriso compiacente e con gli occhi che vagavano leggermente, senza focalizzare, non immediatamente abbozzavano un sorriso e, piegando leggermente la testa da un lato dicevano:- Ah, bene, hai visto… brava… ma si capiva che non avevano ben chiaro il concetto. Avrebbero preferito sentirsi rispondere:- il Dottore- oppure – l’infermiera o la mamma…- ma la risposta era diversa. Specifico che sono nata nel 1946 e all’epoca, per lo meno nei ceti medio-bassi, la Psicologia non era conosciuta, le faccende riguardanti i rapporti ed i problemi interpersonali, si discutevano con amici, confidenti, a volte parenti stretti ma non si andavano a raccontare i propri fatti in giro… Ripensando oggi a questi aneddoti, dico a me stessa-Forse io ho realizzato le mie aspirazioni, forse, come dice Cecilia, sarò riuscita, almeno in parte, ad “aprire le finestre agli altri, per dare un po’ di conforto…” Si vede quindi che nonostante i dissensi familiari, i miei interessi infantili non sono stati “bloccati” ma in qualche modo, non ricordo come e quando, saranno stati invece “innaffiati”. Certo è che sono stata sempre molto incoraggiata dai miei. Forse non mi sono state “tagliate le ali” ed è stata instillata in me, quella fede che mi ha permesso di “volare,” sia pur, devo dire, con sforzo personale elevato. Anche a me è piaciuta tanto la favola di Peter Pan, una delle mie fiabe preferite, specialmente quando ero un po’ più grandicella. Mi catturava e credo non potesse essere diversamente, il motivo dei bambini sperduti, rifugiati nell’Isola che non c’è. “ Peter Pan si era perso da piccolo, allontanandosi dai genitori e non voleva crescere, sicuro di stare bene come stava.” I bambini che non vogliono crescere sono coloro che non sono certi delle loro capacità di “volare.” “Avere fede vuol dire avere le ali, ogni bambino ha un’ isola che non c’è e ognuna è differente.” Solo i “non amati” hanno una grande difficoltà ad arrivarci, se mai ci arrivano. Questo tema mi ha molto colpita fin da piccola, che pur essendo stata una bambina amata, rimanevo impressionata dai racconti di mia madre sofferente per l’allontanamento dalla famiglia, in età infantile-adolescenziale, poiché mandata in collegio dopo la nascita del fratellino. Esercitando la mia professione, ho avuto casi di bambini e ragazzi con la “sindrome d’abbandono” e sinceramente questi sono i casi che più mi hanno pervaso. I motivi del loro grave disagio sono elencati in questa poesia che ho scritto non solo con la mente, come potrebbe sembrare in quanto abbastanza concettuosa, ma anche, direi molto, con il cuore:
MALAMATI,
COME CANCELLATI,
INVISIBILI
NON CI RICONOSCIAMO,
SENTIAMO
NELLA MUTA MORTE
IL GRIDO DELLA VITA,
L’UMANITA’ NEGATA,
LA VOCE:
“ANCH’IO SONO UNA CREATURA.”
Questi motivi ci sono tutti nel bambino abbandonato. Potrei enumerarli uno per uno ed analizzare questi sintomi, ci sarebbe tanto da dire… ma questo non è il momento giusto. Mi basta comunque enunciarli in modo tale che possano dar adito a riflessione, perché veramente lo meritano.
Dubbi che continuano: seconda parte – di Luca Di Volo

Vai. . ora che ho preso l’aìre. . chi mi ferma più…
Avevo lasciato un bambino di 10 anni, riempito solo di sentimenti e sensazioni. Completamente privo di idee, aspirazioni e progetti. Questi sarebbero venuti tardi. . molto più tardi.
Ma ora vorrei allargare lo zoom per descrivere l’ambiente formativo in cui è cresciuta tutta una generazione. Qui però devo fare una premessa: quelli che sono nati dieci anni dopo di me (cioè dal’51 in poi), stenteranno forse a credere a quello che dirò…dieci anni di progresso nell’educazione infantile sono un abisso. . per fortuna.
La guerra era finita da poco, anzi , da pochissimo tempo. In un paese ancora in macerie però rimanevano alcune vecchie idee , chissà, forse legate al mito della “romana ruvidezza” di stampo fascista, o al mito della razza, ancora vivo in certi ambienti. . Non lo so. Invece mi ricordo vividamente di qualche veneranda educatrice (o sedicente tale), che tutta immerlettata, sollevando il sopracciglio con l’occhialetto, dava “consigli” alle giovani mamme, come la mia. ”Il bambino non vuol mangiare qualcosa? Glielo rimetta davanti a pranzo e a cena. Vedrà che, spinto dalla fame, lo mangerà per forza…”
E mia madre, povera donna, visto che io non mangiavo nulla , provò anche questa…ma durò poco, appena nel pomeriggio buttò via la pasta al burro che non potevo soffrire e mi dette quello che mi piaceva . Meno male.
Altra sentenza di queste spartane educatrici: ”Il bambino fa i capricci? Per punizione non gli dia la frutta a fine pranzo. . ”Vi rendete conto? Però questo consiglio la mia mamma non ci pensò nemmeno a seguirlo, per mia fortuna.
Insomma , questo era l’ambiente educativo, ora farebbe inorridire qualunque pedagogo. . ve l’avevo detto che non mi avreste creduto.
E poi c’era il famoso “Carrozzone” che con il “Collegio”, faceva parte delle più tremende minacce concepibili. Questo “Carrozzone”, mutuato da Pinocchio (il “Carrozzone di Mangiafuoco), era quello che si portava via i bambini cattivi…Se avessero saputo il male che facevano quelle minacce, poveri genitori, non l’avrebbero certo fatte. Eppure anch’io fui minacciato così: detestavo i carciofi, ma quando mi dissero ”Mangiali o si chiama il Carrozzone”, li richiesi a gran voce. Ora so che questo “Carrozzone” era la minaccia del rifiuto della famiglia, della protezione . . una cosa terrificante. Stesso discorso per il”Collegio” (vedi Gian Burrasca).
Poi si cominciò ad andare a “dottrina” (così allora si chiamava il catechismo). E venne la parte peggiore. Già perché la minaccia non era più il Carrozzone o il Collegio, ora erano le fiamme dell’Inferno, nientemeno. Il Diavolo poteva nascondersi dappertutto, nell’unghia con un po’ di smalto, nella piccola traccia di rossetto. . per noi maschietti, se ci “toccavamo”. . e non si sapeva nemmeno cosa volesse dire.
Ed era il periodo in cui andavano di moda le “Novelle della Nonna”, una serie di racconti dove il Diavolo era l’interprete principale, scritti da una certa Parodi, che Dio l’abbia in gloria…
E noi si leggevano con un piacere sadomaso, felici di esserne terrorizzati. . o forse per esorcizzarli? Non lo so.
Ma tutto non era così ostile. In mezzo a tanti ricordi sgradevoli, so che sono rimaste alcune pietre preziose, scintille nel buio che forse sono state quelle che ci hanno fornito l’appoggio per andare incontro alla vita.
Per me: la Primavera che esplodeva quando si scioglievano le campane il Sabato Santo, la trepida attesa del Natale (per i regali, certo, ma non solo). Oppure quando mi capitò di avere il più raro esempio delle figurine degli animali. . Per chi può capirmi: il rarissimo “Syndetociste”, che ancora non so cosa diavolo fosse, ma era il numero 600 e con lui si completava la collezione.
Momenti di gioia incredibilmente potenti, e che da allora non ci sono più stati. Anzi. . , l’unica cosa che può ricordarli è la prima trepida scoperta del sesso che però è di molti gradini inferiore (e questo è per i benpensanti. . )
Ma ora è tempo di coronavirus. E mi chiedo se questo momento, così difficile, non possa fare in qualche modo rivivere i bambini che siamo stati, con le angosce ma anche le grandi gioie.
Mi propongo di ascoltare le campane il Sabato Santo, non si sa mai. .
E forse sarà possibile un’altra Resurrezione.
Il filo di Arianna – di Nadia Peruzzi

Ci vorrebbe un filo di Arianna per andare indietro nei ricordi. Come sarebbe bello avere per le mani un grande rocchetto di filo multicolore da poter srotolare e ricavarne una pellicola in linea continua fra passato e presente.
Invece le immagini, pur vive, riemergono come tessere di mosaico spesso sconnesse e scoordinate fra loro.
Difficile trovare l’isola che non c’è di quando ero bambina. Ero un vortice di energia cinetica, rincorrevo più mondi e era complicato davvero stringerne uno come prevalente.
Ero quella, almeno così mi hanno raccontato, che a Roma dove abitavamo fino ai miei due anni e mezzo, aveva buttato dal 6° piano una scopa, per fortuna senza beccare nessuno in testa, e quella che di ritorno da un pomeriggio al caldo sole di Ostia si mise ostinatamente in mezzo alla cucina chiedendo ago e filo perché voleva cucire.
Eppure il mondo delle bambole e dei vestiti, si è scoperto dopo, non faceva proprio per me. Noioso lo stare seduta a vestirle e spogliarle. Noiose le bambine con cui avrei dovuto fare quel gioco. Ero da meccano, io. Ero un maschiaccio. La mia isola di allora era popolata di amici maschi con cui si giocava a biglie e tappini, o si faceva a gara a chi vinceva le figurine dei calciatori famosi tirandole il più possibile vicine alla facciata della chiesa. Il massimo dei massimi veniva fuori quando qualcuno bravo assemblava le assi delle cassette di frutta per tirarne fuori l’abbozzo di un go kart montato su cuscinetti ruotanti che facevano un baccano infernale.
Che corse e che botte prendevo e che gran sbucciature sui ginocchi mi ritrovavo, un giorno si e l’altro pure.
Esuberanza e fin troppa energia fecero si che arrivata in prima elementare, la maestra si vide costretta a darmi il compito di annaffiare i fiori del giardino. Non c’era verso di farmi star seduta per tutto il tempo delle lezioni. Fu una fase di passaggio e di compromesso che durò poco visto che man mano stavo imparando a gustare il tempo della quiete. In classe e fuori.
In molte di quelle tessere di mosaico ho in mano dei libri. I regali più ambiti quelli del giorno della Befana, era lei che li portava allora, erano loro. Ricordo come fosse ora la copia del Pinocchio della Giunti con la sua copertina blu e la gioia che provai appena lo vidi in bella mostra sulla cucina economica, sotto la cappa. Il burattino era a tutta pagina col suo vestitino verde.
Il gusto di sfogliare le pagine delle Novelle italiane di Calvino lo provai subito dopo. Fu un modo di entrare in contatto con questo strano e complesso paese attraverso le storie fantastiche che lo punteggiavano da Nord a Sud. Gobba, zoppa e collotorto non me la sono dimenticata più.
Era un accavallarsi di personaggi e storie in cui era facile perdersi. Un mondo in cui tutto era possibile, nulla scontato e sempre una scoperta di seguito all’altra.
Su tutti un eroe senza macchia e senza paura Robin Hood, che non aveva nulla dei super eroi di oggi, super accessoriati ma senza nemmeno una pallida idea della lotta di classe che cambia il mondo.
Invece li nel cuore della storia medioevale si prendeva ai ricchi per dare ai poveri e si imparava cosa voleva dire il giusto e l’ingiusto. Come si poteva fare a stare dalla parte dello Sceriffo di Nottingham? Non c’era verso. Era lui, il magico Robin alfiere di giustizia sociale e di redistribuzione di reddito ante litteram, a scaldare il cuore e a farlo battere come nessuno.
Il tempo della quiete di allora era senza la televisione e il suo intrattenimento. Bastava poco per inventarsi modi per intrattenerci . Spesso erano cose semplici, ma appaganti.
Andare a fare insalata nei campi con mia nonna si trasformava in una avventura che dava grandi soddisfazioni. Vuoi mettere imparare a riconoscere lattugaccio, cicerbite, rosolacci e tutto quello che poi finiva in saporite e variopinte insalate o in frittate spesse e profumate. Ad ogni piantina raccolta e messa nel cestino, si pregustava il dopo.
La raccolta degli anemoni era per i giorni festivi.
Con mamma e babbo. Era bello camminare per i campi in mezzo a quelle distese colorate di viola, rosso e bianco. C’era solo l’imbarazzo della scelta . Spesso era una gara a chi ne raccoglieva di più. Erano momenti felici in cui si assaporava con la dovuta lentezza ciò che la primavera incipiente recava con sé. Le prime rondini che rientravano nei nidi, le nuvole che col vento teso si perdevano in giochi di forme incredibili, le gemme che si aprivano con esplosioni di rosa e di bianco. Ci si accorgeva di tutto allora: eravamo meno distratti e sottoposti alla dittatura degli orologi e dei cellulari che, del resto erano di là da venire.
I sogni venivano fuori facili facili. Una volta correvi in un campo pieno di tulipani, un’altra rischiavi di cadere in un ruscello per arrivare a cogliere delle viole a mammola.
Peccato non ricordarseli a distanza i sogni.
Quasi come fossero bolle di sapone si accendono, prendono vita, decidono la loro direzione, poi. . di punto in bianco, di solito sul più bello, pof, scoppio, soprassalto e da sveglio dimentichi quasi tutto subito.
Ci sono sogni che non ho cancellato però. E so che erano a colori.
Erano popolati di guerrieri romani che se le davano di santa ragione in scene di massa che avevano dell’incredibile a ripensarle oggi. Erano i tempi dei Kolossal quelli. Spartacus, Ben Hur e tanti altri di cui in sogno riadattavo le pellicole prendendo pezzi ora dall’uno, ora dall’altro.
Ci sono i ricordi dei lunghi mesi al mare a Genova dai parenti. Il momento delle ferie del babbo e della mamma che passavamo in montagna sull’appennino ligure. Le gran camminate, alcune controvoglia in verità, sono ancora in un cassettino dei ricordi che fanno star bene, come la visione della catena delle Alpi oltre la foschia della pianura padana dopo un temporale estivo che ripuliva l’aria. Le vedevi risplendere con i loro abiti bianchi e lucentissimi quasi come ballerine della Scala allineate, compostamente maestose, prima di un loro esercizio.
Altri ricordi sono vestiti dell’ allegria e dei colori della vendemmia nei campi dietro casa che pullulavano allora di case di contadini .
Mi rivedo sul carro carico di ceste ricolme di uva, con le mani tutte appiccicose e la bocca segnata da baffi violacei per il troppo spiluccare di chicchi zuccherosi durante la raccolta.
Mi rivedo, tutta accaldata, nell’aia e poi al fresco della grande cucina col suo immenso camino. Sul tavolo, il bicchiere per i più piccoli riempito di acquerello. Come mi affrettavo a prendere il mio per paura che qualcun altro arrivasse a prenderlo per primo.
L’isola che non c’è , non c’è più da tanto tempo ormai o ha cambiato pelle irrimediabilmente non aveva bisogno di ali per volare. Aveva piedi ben piantati in terra, lavorava la terra, la madre terra punto di riferimento di tutte le cose.
Respirava semplicità ma era tutto meno che sempliciotta. Aveva il cervello fino dei contadini che hanno popolato le campagne della Toscana e quelle che ho potuto sperimentare da vicino qui ad Antella almeno fino alla prima metà degli anni 70.
Persone magnifiche spesso parche di parole ma con occhi che erano in grado di dire già tutto da soli.
Era bello quando il babbo e la mamma si fermavano a chiacchierare con loro durante qualche nostra passeggiata. Non capivo proprio tutto allora, ma percepivo che l’orizzonte di quei discorsi era ampio, si posava sul mondo, non stava chiuso dentro il limitare di quelle aie.
Certo al babbo e alla mamma che sapevano impegnati in politica parlavano dei loro problemi più spiccioli ma era solo il modo per avviare il discorso. Poi c’era il comune, il paese o quello che succedeva anche in paesi molto lontani dalla calma rasserenante di quella campagna.
Spesso non avevano fatto tanta scuola ma li ritrovavi a leggere L’Unità da cima a fondo al circolo, e erano disponibilissimi aprire le loro case in tempi di elezioni per riunire quante più famiglie vicine. Accompagnando mia mamma qualche volta in quelle immense cucine ho potuto incontrare anche una trentina di persone. E venivano tutti. Donne, uomini, giovani e vecchi!
Penso con commozione a quei momenti che considero importanti per la mia formazione.
Adesso capita che incontri alcuni di quei giovani che sono invecchiati e hanno fatto e fanno altro da tanti anni ormai . Le case quelle belle e solide case , quei poderi son passati ad altri, professionisti fiorentini per lo più, scarsamente interessati alla terra, molto più al quieto vivere di una villeggiatura goldoniana a due passi dalla loro professione cittadina.
Nulla è stato più lo stesso. Perso quel tessuto si è smarrito un bel pezzo di quella civiltà. Son rimaste le coltivazioni. Olivi e vigne sono sempre lì sembrano uguali a sé stessi di un tempo, ma non è così. Manca la vita che brulicava intorno a loro e quelle passioni anche civili che erano il bello delle nostre campagne .
Se penso che i prodotti che acquistavamo venivano quasi sempre da quei terreni e da quei poderi la nostalgia si fa rabbia. Il chilometro zero era una realtà allora e sapeva di buono. Adesso come in un gioco dell’oca dopo aver corso in lungo e in largo ci accorgiamo che il bello stava già li vicino casa. Ma dobbiamo ricostruirne le reti con nuove energie mentre la sapienza di un tempo si è liquefatta e dispersa insieme alle figure in carne ed ossa che sono state protagoniste di quella stagione.
Ne avevano viste di cotte e di crude e non avevano perso né fierezza, né tenacia. Solidi come i terreni che lavoravano, pochi fronzoli, consapevoli di aver fatto camminare la storia anche con le loro gambe e il loro ingegno. Ed era stata storia di cambiamento reale e positivo nella loro condizione di vita e in quella del paese intero.
Mi rendo conto che nel pensare all’isola che non c’è lo sguardo volge al passato.
Potrei scrivere chissà quanto se decidessi di mettere in fila anche altri pezzi di quelle tessere ballerine che il mosaico restituisce frammentate .
Sento che fa bene questo cercare rifugio nel passato.
È rilassante lasciarsi cullare dalla nostalgia affondandoci fino al collo come se fosse una vasca piena di schiuma profumata o il caldo ventre materno, o una placida distesa di acqua senza increspature.
Il virus sembra lontano e l’acqua con le sue trasparenze e il suo potere purificatore, si fa cura dei mille pensieri negativi che ci accompagnano in questi giorni grigi.
Per farmi forza cerco di dirmi che passerà e che forse in poco tempo avremo messo tutto nel cassetto di fondo dei pensieri e dei momenti cattivi, quelli che cerchi di spingere con tutta la forza che hai perché smettano di creare ansia.
Mentre provo a fermare sulla carta le diapositive a colori del tempo che ho attraversato, il Peter Pan che è dentro ognuno di noi prende vita, in un fruscio le ali si spiegano e si può volare. Fa bene guardare anche per poco tempo il mondo dall’alto. Sembra un’oasi di pace visto da lassù !
E’ stato allora che ho cominciato a sognare – di Stefania Bonanni

Ricordo tutto, e non importa se ricordo bene. Ho sempre pensato che quello che si sogna, quello che si pensa, quello che si legge, quello che si sente, conti come quello che succede. Sono stata bambina curiosa di parole, di storie improbabili, impossibili ancora meglio. Ho letto grandi libri quando forse non era il momento, ho mescolato paesi, epoche, avvenimenti, vite di donne eroiche, cristiani delle catacombe e partigiani della resistenza. Ho ripensato, shekerato come quando si mescolano colori, e non siamo sicuri del risultato. Ho sempre trovato, quando ho avuto bisogno, le parole che mi servivano. Come in un armadio pieno di vestiti, dove non è facile vedere alla prima occhiata quello che c’è dentro, ma si sa bene che troveremo un vestito giusto, magari inadatto alla situazione, con il quale ci sentiremo fuori luogo, ma che è quello, solo quello, che ci serviva oggi. E l’armadio può essere pienissimo, noi siamo sempre sicure che quel cappotto nuovo si farà un posto, un posto suo nei pensieri tuoi. Le parole belle. Ho armadi, cassettiere, comodini, pieni di parole belle. Che fanno capolino solo mentre scrivo, assolutamente sempre incapace di trovarne mentre parlo. Sempre stata così. Solo tra me e me, calo il secchio nel pozzo e pesco quello che mi serve. Quando parlo mi perdo negli occhi di chi mi parla, e mi sciolgo di tenerezza, o ci leggo quello che non mi piace, e allora mi ritiro, non voglio più usare belle riserve, o sono sopraffatta da lampi di astuzia, che mi è sconosciuta, o di sapienza pedante, che mi incute rispetto, ma mi annoia. E non uso le stesse parole, Non le cerco laggiù , rimango sempre a galla, ondeggio a morto, con gli occhi al cielo.Ma se scrivo, riesco a dire quello che volevo, quasi sempre.
Ricordo tutto. Mi ricordo gli odori, i colori, le sensazioni. Mi ricordo benissimo un periodo nel quale ero assolutamente certa fosse tutto immobile, all’in fuori di me. Non succedeva nulla. Mai nulla. Era estate. Era finita la scuola. Si, sarebbe poi cominciata di nuovo, ma di certo sarebbe stato un anno uguale a quello già trascorso. Non succedeva mai nulla. Le vacanze d’estate erano una pagina bianca. Tutto il giorno steso davanti, da riempire e da rispettare, cadenzato da segni della Croce, e orari. Orari per alzarsi al mattino. Scuoteva il letto, la nonna, biascicando Ave Marie fin dall’inizio del giorno. E ci faceva alzare, lavare, fare colazione. Poi, fuori. Nel campo, all’Arno, a chiamare Sandro, Fabio, Laura. Si rientrava a mezzogiorno, io e mia sorella. Ci si lavava, pettinava,, e si andava a tavola. Il babbo, a capo tavola, la mamma accanto a lui, la nonna a quell’altro capo tavola, quello vicino alla stufa, io e la Sonia accanto, su l’altro lato lungo della tavola rettangolare, con le gambe dipinte di bianco ed il marmo sul piano. Si mangiava in silenzio, la voce in sottofondo era il giornale radio, e proprio era vietato parlare, Si potevano perdere notizie importanti, succedevano cose nel mondo che da quaggiù non si aveva idea. Non erano pranzi sereni. Io non mangiavo mai, ma facevo finta, e loro facevano finta di credere mangiassi. Poi, e quello aspettavo, arrivava il riposo dopo pranzo. In camera, il caldo era denso, appiccicoso, ma la sensazione era di riposo fresco. La finestra che dava sull’orto era accostata, gli scuri di legno chiusi sui vetri per fare ombra, lo stoino di canne abbassato. Il copriletto rosa di tessuto damascato regalava un benvenuto fresco e scricchiolante, appena ci si appoggiava. E non importa ricordare che dopo cinque minuti era un lago di sudore, che quella stoffa non assorbiva. Il riverbero della luce di fuori filtrava a strisce dallo stoino di canne, amplificandosi sul muro. Le strisce in basso diventavano larghissime e nere, quelle più su erano sempre più fini e dorate, fino a scomparire proprio sotto il soffitto. Dal letto, la parete davanti agli occhi, si muoveva un mondo miracoloso. L’aria diventava visibile. La penombra e il sole mostravano gioielli dorati che svolazzavano luminosi riempiendo di brillanti spazi che sembravano deserti. Erano insetti, o farfalle, o polvere, o brillanti, o stelle, o microbi, o fantasie. Erano bellissimi. Non so quanto tempo sono rimasta a guardare, sommando tutti i giorni di tutte le estati da bambina, penso molte ore. Credo che questo mi abbia influenzato. Voglio pensare di aver sognato, da allora.
Sorridere e sopravvivere: l’angolo di Simone Bellini

LA VITA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
RACCONTI DEL CONTAGIO
GIGLER – di Simone Bellini
Guarda che sole ! Che giornata splendida, di quelle che t’invogliano ad uscire in questi giorni di isolamento forzato.
In tempi normali non ci avremmo fatto caso, presi com’eravamo dal lavoro. Adesso che avremmo tutto il tempo, obbligati all’oblio lavorativo, non possiamo uscire, reclusi in casa !
Ma io No ! Ho la mia carta vincente , IL CANE !
Basta agitare il guinzaglio ed eccolo arrivare, scodinzolante, di corsa a quel richiamo familiare e liberatorio dalla monotomia casalinga.
Uscire, portare fuori il cane per i suoi bisogni è una delle pochissime libertà concesse. Allora viaaa!
Il portone, chiuso sbattendolo normalmente, sembra infrangere la barriera del suono in quel silenzio assordante.
Gigler ( il mio cane ) abbaia ad un gatto accovacciato sotto una macchina parcheggiata, ma si blocca quasi impaurito dal suo frgore amplificato da quell’aria rarefatta,insonorizzata, inquietante.
Attraversando il deserto cittadino arriviamo al prato, solito ritrovo dei cani che si portano dietro i loro padroni. Un’ oretta di chiacchere a debita distanza e poi il mesto rientro verso casa.
Mentre infilo la chiave nella toppa mi raggiunge la voce del coinquilino alla finestra:
– Hai fatto la giratina Gigler? Bello là fuori vero ? – poi rivolto a me – Me lo presti ? –
– Cosa ? –
– Il cane –
– Coome ? –
– Sii, ti prego, non ne posso più di stare quì dentro, sto diventando claustrofobico, voglio uscire, ti prego ! –
– Ma……!!! –
– Ti prego, ti prego, solo un’oretta !………..CINQUANTA EURO ! Ti dò cinquanta euro !!! Ti pregooo ! –
Da un’ altra finestra : – Ehi Simone, dopo tocca a me ! –
E’ passata una settimana,……ho preso altri sei cani al canile !
Gli affari vanno a gonfie vele !
” AFFITTO CANI DA PASSEGGIO : 1 ORA 50 EURO, 2 ORE 90 EURO “
Dubbi e scintille – di Luca Di Volo

Questa ulteriore “provocazione“ di Cecilia, (parlo dei “bambini che eravamo”), mi ha davvero sollevato un nugolo di scintille, tante che probabilmente non basta uno scritto singolo per vederle tutte..pazienza, vuol dire che ci saranno più puntate e se i nostri simpatici lettori e lettrici avranno voglia di guardarle …intanto io comincio.
Prima di tutto..prima di tutto..come direbbe Crozza, io temo di essere un caso patologico..già, perché della mia primissima infanzia non ricordo praticamente nulla. Solo qualche flash, qualche lampo nel buio..tranne qualche rarissima eccezione, un materiale da psicanalisti, mi sa.
Per esempio ho il ricordo , lucidissimo, di quando con una mia vicina coetanea giocavamo “ai dottori”..c’è poco da ridere, chissà quanti l’avranno fatto. Forse volevamo da grandi fare i medici? Non credo proprio, per quel che ne so, eravamo entrambi spinti da curiosità più terrene .. e ora mi rendo conto che questa mia amica è stata la prima donna nuda che ho visto nella mia vita.. e io per lei . Ah,se lo sapesse…ma forse lo sa..in seguito divenne una donna affascinante e corteggiatissima..e di me non ne ha più voluto sapere..beata innocenza..
Ma oltre a questo c’è poco materiale..io che tiro in testa ad un bambino un vagone di un treno di legno …dopo ho saputo che ero stato rimandato a casa come incorreggibile. Poi un premio a scuola..Poca roba.
E allora mi faccio anch’io una domanda: che bambino ero? Quello che giocava ai dottori, quello che tirava i trenini in testa..? Probabilmente tutti e due..
Io sono più vecchio di tutte le mie compagne (e di molto), ma ho l’impressione che a quel tempo, sotto le bombe, portati via in fretta e furia nella notte, non avessimo nemmeno avuto il tempo di elaborare qualcosa..Era pura e sempice sopravvivenza.
Quindi , devo andare piuttosto avanti nel tempo per percepire desideri, motivazioni, aspirazioni, come sarebbe interessante.
Cosa sognavo di diventare a 10 anni? Non lo so..non mi ponevo nessuna domanda..mi lasciavo vivere..La cosa più importante per me in quel periodo era l’album delle figurine degli animali…
Fu parecchio tempo dopo che cominciai ad essere più concreto…molto più tardi..
Ma qui si va per le lunghe..Dovrò scrivere un’altra puntata..Cecilia..è colpa tua. Troppe scintille hai sollevato..
La scatola magica – di Tina Conti

Ecco che mi ritrovo a preparare. Una nuova scatola. Questa volta è più piccola della prima e della seconda, il destinatario farà quattro anni a breve. La destinataria per esattezza, quella dolce cucciola a che non ha ancora imparato a difendersi e che sto allenando a mettere le mani a protezione e a fare la faccia arrabbiata quando si sente in pericolo. Per fortuna ho iniziato molto presto a pensarci cosi adesso che tutti i negozi sono chiusi è quasi completata e ben nascosta. Stamattina con sorpresa ho trovato nell’armadio delle tazze un sacchetto di caramelle al latte, cosi, le metterò nella scatolina di latta dentro la scatola. Credo che ormai siano le uniche rimaste in casa dopo i ripetuti furti si , avete capito bene, furti che non sono riuscita a evitare. Ma, torniamo alle scatole magiche come le chiamano i miei nipoti. Queste scatole magiche preparate con largo anticipo, contengono le cose più diverse, recuperate e cercate a seconda delle capacita e degli interessi del bambino, ma secondo me sarebbero gradite anche agli adulti ,specialmente in questa nuova situazione. Pezzetti di carta colorata, cartoncini delle varie confezioni di alimenti e oggetti, pezzi di stoffe ,nastri e spaghi, sonagli, colle, forbici, album colorati e carte diverse, colori, nonché un piccolo telefono brillantoso con i trucchi e un pennellino. Naturalmente per le bambine che miracolosamente ho potuto prendere ieri. Bene, riguardo ai furti , devo dire che a me le caramelle non piacciono, ma sono circondata da golosi incalliti. Ho sempre tenuto in bella vista le varie scatole di chicche per offrirle a ospiti e amici, adesso pero’, non sarà più cosi. Trovavo i vari contenitori sempre più vuoti ma non ci facevo caso. Fino a quando spostati a altezze sempre più alte, ho scoperto mucchietti di cartine argentate dentro i paralumi ,sotto le tovagliette dei tavoli abbiglie’, sotto le poltrone. Non ci sono posti sicuri mi sono detta, anche sopra l’armadietto dell’ingresso sono stati scovati e fatti fuori cioccolatini, fondenti e al latte alla menta, caramelle, gelatine. Eppure mi sembrava di essere molto attenta quando dopo il caffè, mi prendevo un cioccolatino e me lo gustavo in santa meditazione per addolcire le ore del pomeriggio, non tanto però da non essere scoperta e derubata. Bene, troverò nascondigli ancora più segreti, ma la lotta è dura. Non posso neppure fidarmi a tenere il piccolo contenitore dello zucchero sul tavolo perché , piccole manine depredano a tutto spiano. Sono il numero quattro e il numero cinque della brigata, loro sembravano i più innocenti ma, quando ho trovato il contenitore leccato fino in fondo ho capito. Niente più ingenuità, tenere la guardia alta, non è tempo di imprudenze.
Da piccola avevo una vera passione per Peter Pan. Mi affascinava la sua figurina volante, il vestitino assurdo tutto verde con cappellino a punta, l’ombra che gli si era staccata e che voleva farsi ricucire, i suoi viaggi notturni in volo verso la “seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino”… E poi le lotte contro i cattivi e la protezione verso il gruppo dei “bambini sperduti” rifugiati nell’Isola che non c’è.
Peter si era perso da piccolo, allontanandosi dai genitori e non voleva crescere, sicurissimo di stare bene come stava.
Peter Pan era…. il mio babbo che raccontava favole, che mi portava al cinema, che costruiva giochi e giocattoli. Era mio babbo che mi insegnava a sognare.
Peter Pan è un personaggio letterario creato dallo scrittore scozzese James Matthew Barrie (Kirriemuir, 9 maggio 1860 – Londra, 19 giugno 1937). Il personaggio appare per la prima volta nel 1902 e poi nei romanzi Peter Pan nei Giardini di Kensington (1906) e in Peter e Wendy (1911).
Queste le frasi più belle:
Il motivo per cui gli uccelli, a differenza degli esseri umani, sono in grado di volare, risiede nella loro fede incrollabile, perché avere fede vuol dire avere le ali.
Forse tutti noi saremmo in grado di volare se fossimo assolutamente certi della nostra capacità di farlo come l’ebbe, quella sera, il coraggioso Peter.
C’è un’Isola-che-non-c’è per ogni bambino, e sono tutte differenti.
Fra tutte le isole amene l’Isola-che-non-c’è è la più accogliente e varia; non immensa ed estesa, con spazi noiosi tra un’avventura e l’altra, ma tutta ben stipata. Quando ci giocate di giorno con sedie e tovaglia, non è un posto per niente pauroso, ma nei due minuti prima di andare a dormire, quasi quasi diventa vero. Ecco perché esistono le lucine da notte.
E l’ultima per salutarci:
Dovete fare pensieri dolci e meravigliosi. Saranno loro a sollevarvi in aria.
Questi giorni di marzo – di Tina Conti

Ci saranno giardini curati e fioriti, alberi rigogliosi e potati a dovere, in campagna la natura è in piena gioia. Al mattino quando guardo fuori, gli uccelli sono in grande movimento.Si infilano nelle siepi a portare fili d’erba e scappano di nuovo volando rasoterra. Le capinere arrivano veloci a becchettare i semi davanti alla porta. Sono mattiniere , per sorprenderle mi devo appostare dietro il vetro. Io fuori mi sento come loro, spensierata, allegra, ignara. Ho piantato un nuovo albero, lavorato nell’orto, riordinato le parcelle che quest’anno son ben disegnate. Nel lavoro di rinnovo della recinzione sono riuscita a far partecipe mio marito e un suo amico, la struttura di nocciolo che ho comprato si armonizza con il cancellino in castagno che avevamo sistemato tempo addietro. Sono proprio orgogliosa del lavoro, posso raccogliere insalate, cicoria e cavoli piantati in autunno. Visto quanto tempo ho a disposizione ho interrato la patate germogliate aiutata dalla mia nipotina , non lo facevo da tempo ma visto che avevano messo gli occhi come ho detto a Tea e lo spazio è aumentato ci ho riprovato. Sembra tutto normale (fuori) ma nella mia mente passano le nuvole, quando ripenso alla situazione attuale.sento le notizie alla televisione vedo il lavoro dei medici e degli operatori sanitari. Quanto siamo vulnerabili noi che ci sentiamo immortali, oggi piove, le notizie da fuori portano tristezza e silenzio, ripensiamo alla nostra vita, cuciniamo, leggiamo, ascoltiamo una musica, ci aiutiamo ad avere coraggio.
PADRE E FIGLIO – di Elisabetta Brunelleschi

Stamani sono salita al Bigallo. Lassù c’è la casa dove sono nata. Da quando la mamma non c’è più io apro le finestre, sistemo, riordino, elimino, curo i fiori. Accanto c’è quella delle zie e anche lì gli stessi gesti tra antichi mobili e aiuole disordinate, fitte di fiori e di arbusti.
Sono entrata nel parcheggio semivuoto e in fondo, dove è più largo, vedo Franco con il figlio: stavano giocando a pallone. Il babbo era vestito come fosse nell’allenamento di un’importante squadra: maglietta tecnica a maniche lunghe, pantaloncini neri con sotto una calzamaglia grigia e ai piedi un paio di scarpette da vero calciatore. Dado aveva un toni blu, ma anche lui calzava le scarpette chiodate. Erano uno di fronte all’altro, dado il portiere e il babbo che lanciava il pallone mostrandogli come posizionare i piedi e le mani.
Chiusa l’auto mi sono avviata verso il cancello, mi ero ripromessa di sistemare i vasi, concimare, potare qua e là, togliere i rami secchi.
Ho lavorato per più di due ore accompagnata dai tonfi leggeri del pallone e dalle voci sommesse dei due giocatori.
Dopo un po’ non li ho più sentiti, scomparsi?
No, li ho visti riapparire in leggera corsetta intorno al parcheggio, parevano molleggiare sul prato verde di un campo regolamentare. C’era stato l’intervallo merenda. Poi il pallone ha iniziato di nuovo a balzare. A mezzogiorno sono saliti in casa.
Ci siamo salutati. Franco avrebbe preparato la pastasciutta. Gemma, la mamma, era al lavoro.
È stato un mattino di tranquillità, con il sole che lentamente si allungava a accarezzare i fiori già sbocciati, le gemme gonfie del diospero, le foglie tenere delle rose.
Dopo i divieti dell’ultimo DPCM che all’improvviso ci son caduti addosso, costringendo molti a rinunce e lasciando alcuni nel dubbio di cosa si poteva o non poteva fare, il Bigallo mi era parsa l’unica scelta possibile.
E lassù nel silenzio e nella pace, complici i divieti e le vacanze forzate, un padre e un figlio giocavano insieme.
Sarà alla fine questo il modo per sconfiggere i contagi?
Sara – di Vanna Bigazzi

“Come va Sara ?”
“Adesso un po’meglio ma sono stata male, anche dentro.”
“Come mai?”
“Mi sono sentita più sola e più triste del solito…neanche la mamma in questo periodo era presente, a causa di una cugina ricoverata. Ho pensato tanto, non potendo fare altro… ho pensato a quando ero piccola e trascorrevo le estati con i nonni, in campagna.”
“Stanno in campagna i tuoi nonni?”
“No, ma passavano le estati là, nel Mugello, in una casa vicina a quella di una famiglia contadina.”
“Ti divertivi in mezzo agli animali?”
“Si, mi sembrava di essere un’altra, più vera, più dentro la vita, più normale.”
“Cosa ti piaceva?”
“Il risveglio al mattino, prestissimo, al canto del gallo, gli odori buoni che entravano dalle persiane socchiuse: un’aria densa e fresca di erba,di stalla, di latte. Non so, un misto di profumi che mi faceva gioire. Ero contenta allora, di una contentezza che poi non ho più provato.”
“Ed i tuoi, venivano a trovarti?”
“Si, alcune volte ma sinceramente non mi importava molto di loro, ero contenta così, con i miei nonni, con la loro cagnetta Diana, molto brava nella caccia alla lepre, ma soprattutto perché potevo andare dalla Gina, la moglie di Pippo, il contadino che abitava poco distante da noi, nella colonica. La Gina mi piaceva tanto: aveva molte rughe nel volto ancora giovane, la pelle scura per il sole nei campi, occhi comprensivi ma soprattutto un sorriso molto dolce e sincero. Quando mi vedeva arrivare ed affacciarmi alla porta della sua casa, quasi sempre aperta, mi chiamava, mi invitava ad entrare e senza chiedermi niente, estraeva dalla madia un grosso filone di pane profumato, ne tagliava una fetta e mi preparava la merenda, quasi sempre pane, olio e sale oppure pane vino e zucchero. Mangiavo e la guardavo, lei silenziosa mi accarezzava i capelli.”
“Hai visuto bei momenti…”
“Si, non mi mancava nulla allora…”
“E poi?”
“Al rientro in città, tutto tornava ad essere vuoto, mi mancava il sorriso della Gina e a quei silenzi si sostituivano i chiacchiericci e gli schiamazzi delle amiche della mamma: donne che parlavano tanto senza dire niente, non come la Gina che nel suo silenzio mi parlava d’amore.”
La panchina – di Nadia Peruzzi

La panchina sembra nata insieme a loro. Forse l’han messa lì proprio per loro. Hanno finito di invecchiarci sopra parlando del più e del meno.
A volte circondati da ragazzi che si divertivano a farli arrabbiare con i loro scherzi innocenti.
Più spesso da adulti che potevano essere i loro figli.
Son sempre stati due compagnoni Gino e Michele per questo il gruppo che si riuniva attorno a loro, col passare del tempo, era diventato sempre più numeroso.
Sapevano raccontare storie tutti e due. Ognuna era un affresco su mondi di cui non sono rimaste che poche tracce.
Le baldorie sull’aia dopo la vendemmia e la mietitura.
Le case e i fienili, che erano stati rifugio dei partigiani che avevano aiutato durante la Resistenza.
La rinascita dopo la lunga notte del fascismo e della guerra e il cambiamento cui avevano assistito almeno fino ai primi anni 70.
Con i lavori dell’Autostrada erano arrivati anche nuovi amici, molti venivano dal Sud o dalle zone più depresse e povere della Toscana.
A ogni racconto brillavano gli occhi, ora all’uno, ora all’altro. Erano lampi di luce di una storia collettiva della quale si erano sentiti parte attiva.
Era arrivata fino a loro e alle loro famiglie e aveva contribuito a cambiare le loro condizioni di vita.
Poi era arrivato il periodo cupo, quello della confusione. Le vecchie certezze tramontate senza essere state sostituite da passioni altrettanto forti e da qualcosa di nuovo che fosse in grado di scaldare il cuore veramente.
Quella panchina verde con lo smalto sbollato e la ruggine che faceva capolino le aveva seguite tutte le loro peripezie.
Sembrava le avesse assorbite come una spugna per ritrasmetterle appena qualcun altro fosse riuscito a sedercisi.
Eccoli qui anche stamani nel giorno 1 della zona arancione applicata su scala nazionale. Mogi, sguardo basso, parole che faticano a uscire. Cosa inconsueta per loro così ciarlieri !
Ognuno aspetta che sia l’altro a partire. Ma non c’e’ gran voglia di commentare quello che li costringe a un arrivederci a chissà quando.
Gino, per evitare di scoppiare, decide di dare il via.
-“ Allora, hai sentito a che punto siamo? L’hai sentito Conte ieri sera?”
-“Macché, avevo gente a cena. M’ha detto qualcosa l’Argia stamattina, ma era più in confusione del solito e in verità un c’ho capito nulla”.
-“Gente a cena?O che s’è matto! Ora per un bel pezzo nisba, mi raccomando. Ognuno a casa sua e tutti tranquilli!Questo virus Corona sembra sia proprio una brutta bestia e bisogna vedere se stando in casa si riesce a sconfiggerlo! Sembra d’esser tornati al tempo di guerra, vero Michele?Ci bombardavano con bombe vere allora. Quante se n’è viste cascare e che paura con quei figliolini piccini che piangevano a ogni scoppio. Ora ci bombardano a suon di notizie e così tanto che i morti sembra di averli in casa”.
-“Davvero, sai?Io la televisione la tengo quasi sempre spenta se no l’Argia la si deprime e io la seguo a ruota”.
-“Sie, la mia Giovanna l’è dura come un macigno. Dalla mattina alla sera davanti alla tv. Quando si parla in casa la mi pare diventata un’epidemiologa anche lei”.
-Comunque, Gino anche per noi qui la si fa dura. S’ha una certa età e bisogna stare parecchio attenti. Il giardino oggi è vuoto o quasi e a me di stare a distanza di un metro e mezzo un mi va mica. Sento arrivare la solitudine a partire da un metro, figurati a di più. Le persone, tu lo sai, mi piace sfiorarle, sentire i profumi che si portano dietro. Anche se sono solo del lavoro che fanno sanno di buono, sanno di vita”.
-“Lo dici a me che io ho pure il vizio di toccarle al braccio mentre parlo. Ora non si può fare, vietatissimo!”
-“ La sala carte chiusa, non si può nemmeno andare a vedere da fuori le finestre tanto un c’e’ nessuno. Cinema chiuso. Al bar del Circolo, per prendere un caffé misurano la distanza di sicurezza e c’e’ il caso che ti facciano fare la coda anche fuori dal bar! Che vita è questa?”
-“E lo so. Per un po’ ci toccherà stare di più alla tv lo sai che barba. Poi con la Giovanna penserai mica che il telecomando mi tocchi a me. Quindi parecchie ficsion d’amore e poco sport sicuro!”
-“Speriamo passi presto sto can can. Mi sta già venendo l’ansia a pensare di non uscir di casa. A far la spesa ci manderò i mi figliolo, l’Argia altrimenti le son più le cose che la si dimentica che quelle che la porta a casa!Via, s’è fatta ora di pranzo. Bisogna ti lasci Gino. Ti abbraccerei volentieri, ma un si pole”.
-“Michele ho visto in tv come si fa. Ci si tocca gomito con gomito. E’permesso. Oppure stando bene attenti a non perdere l’equilibrio si può anche toccarsi piede con piede”.
-“Noi che se n’è passate tante una così ancora mai vista. Nemmeno durante l’Asiatica del ‘69. Via, peniamo poco a salutarci che se no mi vengono i lucciconi.
-“Guarda te un virus icché ci fa fare! L’è un cambio di abitudini di nulla! Panchina, mi raccomando aspettaci, tanto si dovrebbe tornare presto. Non tradirci nel frattempo. Due come noi non si trovano mica spesso”.
-“Ciao, Gino. Mi raccomando il telefonino tienilo a portata di mano che io senza sentirti almeno una volta al giorno mica ci so stare. ”
–
Come se fossimo fisicamente insieme ecco le nostre sensazioni relative alla scintilla “Cambiamento”. Grazie a tutti voi che avete l’obiettivo di un cambiamento partecipato e condiviso. A voi che date il senso dell’UNITA’ un grazie dal più profondo del cuore.
Cecilia

La parola di oggi: cambiamento – di Chiara Bonechi
Cambiamento è una parola grande, talmente grande che mi perdo a pensarla.
Mi guardo allo specchio, ogni giorno uguale all’altro, stessi occhi, stesso naso, stesse labbra ma i giorni si susseguono e il cambiamento si insinua silenziosamente, impercettibilmente sul volto.
E ti ritrovi cambiata.
Si insinua nella mente e nel cuore vivendo, quando gioie e dolori, serenità e preoccupazioni ti fanno diventare quello che sei.
“Non voglio cambiare, voglio continuare a fare come prima, stavo bene prima!”
E invece eccomi qua, da giorni in casa, con mio marito e mia figlia tornata dalla zona rossa, in isolamento fiduciario per fare la nostra parte nel frenare l’epidemia.
E’ bello ritrovarsi insieme, condividere ogni attimo, non siamo da soli ad affrontare l’emergenza, ci teniamo compagnia, abbiamo chi ci lascia pane, latte e acqua, il congelatore è pieno, le provviste non mancano.
Ma i giorni passano ed ecco che il cambiamento si fa sentire.
In tre sempre presenti, sempre insieme, nessuno che si muove per lavoro, per sport o per la spesa, non eravamo più abituati. Ognuno cerca i suoi spazi ma non ce ne sono abbastanza per tutti contemporaneamente, ognuno deve rinunciare a qualcosa, tocca a tutti.
E allora si prova a cambiare, anche in casa, certe nostre abitudini e provando mi accorgo che si può.
Non so da quanto tempo non andavo allo scaffale dei giochi da tavolo dei miei figli e ritrovo le scacchiere, le carte, le tombole. Non ho mai giocato a scacchi, nel pomeriggio mio marito mi insegnerà, è un’occasione per imparare, da non perdere.
Intanto attendiamo impegnati a vincere una partita importante, è in gioco la salute pubblica in questo momento, poi di nuovo un cambiamento.
Cambiamento – di Rossella Gallori
…MA LO HAI SENTITO CHE TOSSE C’HA PIERO?!?!
ME LO SUSSURRA BERCIANDO, PINA DAL TERRAZZO.
AVRÀ RIPRESO LA BRONCHITE, FARÀ LA FINE DELLA SIGNORA BERTI CHE SON 15 GIORNI CHE NON APRE LE FINESTRE.
Rifletto e mi pongo la domanda: ma come fa una che non ha sentito la sirena dell’ autoambulanza, al nostro portone, né ha visto le fiamme alte del colorificio a pochi metri da noi, ad aver sentito tossire Piero…ad aver visto finestre chiuse, così lontane da lei così miope ed anche qualcosa di più ?!?!
Sono i misteri semplici ed innocenti del posto dove abito, il vecchio parroco lo diceva sempre, tra il serio ed il faceto: Rovezzano ha tutti i difetti del paese ed i non pregi della città. Concordo, concordavo…poi arriva un inizio di marzo anomalo, con uno tsunami, che non mi fa cadere, ma traballare, traballare si, ed ho bisogno di appoggiarmi…a qualcosa a qualcuno, ecco arrivare lento il mio cambiamento, il mio modo diverso di guardar cose e persone…
E tutto cambia nel mio breve camminare, vivere, respirare, guardare la gente…le cose…
Suona la campana di San Michele e quello che prima mi sembrava fastidioso, diventa atteso ed indispensabile, e mi giro verso la chiesetta che poco frequento e sembra dirmi : oh se hai bisogno ci sono, sono ancora aperta, non so per quanto ma ci sono…male male preghi sul sagrato.
Esco, sperando di incontrare anche per un ciao, tutto bene, i bimbi? Si grazie tutto ok! E …son contenta, di questi incontri, che una volta definivo banali, non avevo voglia di guardar negli occhi la gente, ora inforco occhiali da lontano per coglier meglio le espressioni, le cose.
E per miracolo dopo più di quaranta anni, mi sento cittadina di un posto dove non sono nata, ma che mi appartiene, con un parco bello, verde ed accogliente, una piazzetta con un monumento ai caduti, dove un bersagliere sembra correre più verso il barretto di Roberto, più che verso la vittoria l’ ho sempre definito “spennacchiato” ora mi sembra fiero, utile ai miei occhi.
E quell’Arno minaccioso, che ora diventa rifugio, libertà…
..no non sono cambiata io, magari, sarebbe un miracolo, abbandonare paure, brutti ricordi, lutti e questo difendermi sempre, faticoso ed inutile, perseguitata da fantasmi dei quali a volte non ricordo neppure il nome,no non sono cambiata purtroppo,
ma guardo in modo diverso ciò che ho sempre visto e non ho mai guardato…e camminando scopro affetti veri, cuori semplici, e scorgo i loro sorrisi il loro porgersi a me.
La posta, la farmacia, la bottega che profuma di mortadella, il tabaccaio, l’edicola…
Una realtà che mi andava stretta ed ora mi va giusta quasi mi avanza…come casa mia, con il telefono che squilla spesso, ed è molto meglio del silenzio forzato, perché io senza parole mi sento più sola.
Cambio posto sul divano, guardo quei soprammobili inadatti al poco spazio che ho : un giorno” fo “un pulito e butto via tutto….l’ ho sempre pensato….ma oggi, oggi no! Riguardo il cerbiatto di ceramica, che tutti trovano orribile e lo trovo quasi bello, lo scopro polveroso ed un po’ me ne vergogno, lo spolvero con quasi affetto ed egoisticamente penso a me ed al mio modo diverso di guardar le cose…tutte le cose.
Cambiamento – di Carmela De Pilla
Certe immagini, certe parole vissute rimangono con te per sempre, ti accompagnano e ti cullano soprattutto nei momenti difficili, sostenendone tutto il peso.
Mi piace ricordare mia madre e mio padre vissuti in un tempo e in un luogo in cui tutto era difficile, perfino il respiro rimaneva contagiato dal peso della vita.
Ma riuscivano a resistere a tutte le intemperie, il vento li travolgeva, li buttava per terra e loro…loro si rialzavano e ricominciavano a camminare.
Non erano i soli, tutti portavano sulle spalle il proprio fardello, ma riuscivano a riprendere il cammino a volte con sofferenza e rabbia, ma spesso con un sorriso .
E continuavano.
Lo chiamavano destino, fato, rassegnazione, cambiamento, adattamento.
E continuavano.
Oggi la chiamano “ resilienza “, che parola importante,mette quasi soggezione! Ma che vorrà dire?
“ Capacità della materia che riesce ad adattarsi ai cambiamenti…in psicologia, capacità dell’individuo di adattarsi in maniera positiva ad una condizione negativa e traumatica.” Così cita il vocabolario.
Ma pensa un po’, i nostri genitori erano resilienti senza nemmeno saperlo!
Certo, lo facevano per necessità, ma si adattavano ai cambiamenti con naturalezza, con quella flessibilità che permette di resistere, di continuare a camminare.
Ecco, mi viene in mente questo pensando a ciò che sta succedendo oggi.
#iorestoacasa si estende a tutta Italia.
Così dice l’ultimo decreto.
Sembrava un’influenza un po’ più grave e invece la velocità con cui il virus contagia migliaia di persone ora è davvero preoccupante, i numeri ci raccontano una situazione che fa paura e allora è necessario cambiare, modificare le nostre abitudini.
Cambiare completamente rotta.
Non soltanto per il coronavirus, ma per la vita, non si può più aspettare, bisogna cambiare ora.
Cambiare per rimettere a posto i sentimenti, le relazioni, gli affetti.
Cambiare per ridare alla terra ciò che le spetta di diritto.
Cambiare per ridare valore alla vita, non al denaro.
CAMBIAMENTO – di Sandra Conticini
I cambiamenti positivi mi destabilizzano, figuriamoci quelli negativi!
E’ difficile che vada a cercare i cambiamenti positivi, mentre quelli negativi arrivano da sé in un momento e, con loro, il cambiamento al quale ti devi adeguare.
La routine mi da sicurezza, forse a causa dell’educazione e del modo di vivere della mia famiglia. Non sono una persona che sogna, mi accontenterei di pace, serenità e leggerezza, ma sembrano tre cose troppo ambiziose e difficili da avere. Comunque, con il passare del tempo, riesco a sentirmi un po più tranquilla e far finta di non vedere certi problemi che sono meno importanti. Prima, invece, tutto aveva la stessa importanza, credo perchè mi dovevo riabituare ad una vita molto diversa da come l’avevo impostata.
Anche nel mondo esterno ci sono cambiamenti di tutti i tipi che mettono molta ansia. Quello che prima sembrava positivo ora si ritorce contro. Negli anni 60 nacque la plastica. Che bella invenzione, si diceva. Ora i mari, sono sommersi da buste, bottiglie, i pesci muoiono, ma anche le montagne non scherzano, si trova plastica dappertutto, grazie alla maleducazione del genere umano.
Il clima sta cambiando grazie al buco nell’ozono e la natura sbaglia le stagioni perchè le temperature aumentano, le piogge sono troppe o troppo poche. Il freddo non viene e quando viene è tardi e brucia i raccolti. Ora anche i virus mutano, i nostri fisici non hanno anticorpi e quindi ci mettono in ginocchio, fisicamente, psicologicamente ed economicamente.
Per tutti questi cambiamenti, ed anche altri, ci mettono a dura prova e dobbiamo tirare fuori il nostro coraggio, e la voglia di vivere non deve mancare per continuare ad andare avanti.
Cambiamento – di Patrizia Fusi
Lavorare da casa per me e un ritorno al passato, a vent’anni già lo facevo, non mi piaceva perché la casa mi distraeva e avevo meno contatti con le persone.
Oggi pomeriggio sono virtualmente con tutti voi e cerco di scrivere.
Mi sono lasciata prendere però da alcune distrazioni casalinghe: ho teso i panni.
La lavatrice è in funzione: il rumore di sottofondo ha sostituito il rumore di fogli girati, il leggero fruscio delle penne che scorrono sui fogli bianchi riempendoli di storie interessanti. Immagino i vostri volti.
Come si cambia per necessità e per ricominciare, giocare con le parole scrivendo le mie emozioni col sottofondo della canzone di Fiorella Mannoia, mi si riempiono gli occhi di lacrime per l’incertezza del domani per tutti noi a livello di nazione e individuale delle famiglie. Sono e saranno momenti duri. E’ come tornare bambini e dovere rimparare a camminare, credo e spero che dopo nulla sarà come prima, spero che tutti insieme ce la faremo.
La matita della vita – di Anna Meli
Anche oggi, come ogni mattina mi sono alzata e ho spalancato la finestra. Il solito bel panorama che si stende sulla campagna, si è presentato ai miei occhi. Ho respirato profondamente l’aria frizzante. Giornata meravigliosa! Il sole abbracciava tutto, mentre le prime api selvatiche succhiavano nettare dai fiori rosa del susino-ciliegio e la tartaruga, uscita dal letargo invernale, muoveva la sua testa da serpente alla ricerca di qualche erbetta.
Tutto veramente bello! Tutto uguale!…No! Tutto cambia come le stagioni, come il tempo, come la vita; a volte con un progredire lento ma continuo, a volte improvvisamente. Fin dal primo vagito e come se una matita tracciasse una linea progressiva, inframmezzata da eventi lieti, difficoltà, paure, esperienze varie che finiscono per essere la storia di ognuno di noi, fatta di continui cambiamenti fisici e psicologici.
Fin da piccola ho sempre mal sopportato le imposizioni anche se erano giuste. Ci voleva solo la santa pazienza di mio padre per farmele capire ed accettare. E poi… poi mio padre venuto a mancare improvvisamente in giovane età e, se fino ad allora, avevo vissuto serena ed appagata, questo cambiamento fu per me traumatico. Andai avanti, male per un periodo, poi la vita riprese i suoi spazi e il suo camminare. La matita continuò a tracciare la sua linea incontrando nel percorso eventi diversi, belli e meno belli a volte tragici, sempre però condivisi in famiglia e anche da amici e conoscenti.
Sono arrivata ad oggi ormai anziana e anche un po’ stanca, ma non ho perso la voglia di reagire. La notizia di questo virus infernale sta cambiando le mie abitudini più belle. Dovrei stare chiusa in casa, non prendermi cura dei miei amati nipoti, non fare la vita di sempre! Capisco tutto, ma non ce la faccio proprio a stare in clausura!
Ieri, imponendomi le regole che continuamente i media ci trasmettono, sono uscita per una passeggiata e ho incontrato alcuni amici e siamo stati bene insieme. Abbiamo incontrato tante altre persone. Le stradine che portano in aperta campagna erano invase da gruppi colorati e chiacchierini, osservanti delle regole sulla distanza. Mi sono sentita sollevata.
Tornata a casa al tramonto, non ho acceso la TV e mi sono riposata pensando che tutto passa, tutto cambia e si evolve. Passerà anche il virus che non riuscirà ad annullare la voglia di stare insieme e vivere in armonia.
Cambiamento – di Nadia Peruzzi
LA FORMICA E LA CICALA AI TEMPI DEL CORONA VIRUS. (UN CAMBIAMENTO E’ POSSIBILE, ANZI SALUTARE!)
Ce la ricordiamo tutti la storia della formica operosa e della cicala svogliata e gaudente fino a oltre il limite della irresponsabilità.
Ci hanno imbastito sopra nei secoli dei secoli codici di comportamento, moniti, indicazioni da seguire.
Fino da bambini siamo stati istruiti a vedere tutto e solo il bello nella formica irreggimentata, infaticabile, stakanovista, esatta metafora di una catena di montaggio assoluta e impareggiabile.
In fondo non è così che man mano e in varia forma hanno agito per condizionare anche gli esseri umani, sempre più ridotti a ingranaggio di un sistema che corre corre corre e mette da parte gli interrogativi complicati come: “per fare che” , ”a vantaggio di chi”, ”con quali costi individuali e collettivi”?
La cicala da sempre additata come esempio negativo. Una che se ne strabatte della fila indiana fitta fitta orientata verso quell’unico obbiettivo accumulare accumulare accumulare . Lavoro , lavoro , lavoro in nome di un programma genetico privo di una reale volontà al di là del dinamismo finalizzato alla fatica materiale.
Te la immagini da sola , la cicala, in panciolle mentre laggiù in basso le formichine si muovono all’unisono e a testa bassa e con un passo marziale da sturmtruppen schematiche, senza guizzi di volontà individuale.
L’avessero, come potrebbero pensarsi solo e unicamente in funzione del lavoro? Vero che c’e’ l’inverno, vero che si deve stivare il più possibile per la sopravvivenza in vista dei tempi morti o bui.
Ma vivere un po’ nel frattempo , non sarebbe cosa buona?
E le formiche , pur se intruppate a centinaia siamo sicuri che nel loro intimo non provino anche loro la loro dose di solitudine, talora peggiore di quella della cicala che canta da sola? Sentirsi soli in mezzo a centinaia sa di esclusione da un gruppo , quasi confina con l’eresia il fatto di provare sentimenti che rischiano di ostacolare il ritmo a cui ciascun pezzo della catena accumula le scorte per l’inverno che arriverà!
In questo eccesso operoso e senza limiti i tempi non rischiano di tingersi di buio anche prima che l’inverno faccia capolino?
Il tempo di dare una sbirciatina al cielo per vedere che colore abbia e che forma prendano le nuvole mentre si rincorrono spinte dal vento vogliamo considerarlo un disvalore?
Un libro? Come lo collochiamo un libro in tutto questo?
Se faccio andare l’immaginazione e tornando alla nostra storia , nel mondo delle formiche lo spazio per un libro non c’è. Nemmeno quello di osservare la bellezza dei fiori che nascono nei prati che ribollono già di primavera.
La cicala ce la vedo invece con un libro in mano! In fondo è un’artista del bel canto estivo. E’ vero che è un po’ strafottente , ma un’artista prima o poi con un libro i conti ce li fa .
Non può eccedere nei suoi atteggiamenti tuttavia, altrimenti la stagione cattiva rischia di trovarla impreparata.
Nemmeno la formica dovrebbe farlo però.
Rischia di non vivere o vivere male, persa in quell’esercito in fila indiana che lavora lavora lavora solo in vista di accumulare per l’inverno.
A differenza di quando ero bambina , penso che la cicala in fondo abbia le sue ottime ragioni .
Se ci fosse una linea di comunicazione fra formiche e cicale potrebbero giocarsela con una trattativa pacifica in cui le une imparano un po’ dalle altre e contaminandosi potrebbero decidere di smussare schemi e rigidità inveterate e ataviche per scegliere la via del giusto mezzo .
Cambiare per migliorarsi può risultare benefico per le une e per le altre e nel cambiamento la formica potrebbe pure decidersi ad aiutare la cicala in una solidarietà che nella storia originale non si trova.
Non hai lavorato e hai cantato : muori e che me ne frega !!
Cosa c’entra il coronavirus in tutto questo?
C’entra eccome.
Si continua a girare come trottole senza sapere di portarselo dentro , secondo i codici informativi del mondo in cui viviamo e le ore del giorno rischiano di mancare.
Il dinamismo in eccesso come unica spinta per progredire diventato agente di contagio , di quale portata reale ancora non è dato sapere.
Ci sentiamo tutti un po’ costretti nelle regole di comportamento che dicono siano utili a isolare e circoscrivere l’effetto moltiplicatore del virus.
Costretti al cambiamento anche se non l’avevamo preventivato, messo nel conto, figurarsi poi per un evento simile.
Cambiare per proteggersi e proteggere gli altri.
Ne potrebbe venir fuori anche qualcosa di buono una volta che ciascuno ripensa sé stesso in funzione degli altri . Che poi sono tutti quelli con cui entra o può entrare in contatto.
Lo smarrimento e il timore che ciascuno di noi prova, anche se cerchiamo di tenerli nei cassetti di fondo della nostra coscienza, potrebbero lentamente tornare a farsi meno pesanti.
Possiamo uscire da tutto questo uguali a prima o diversi.
Se passata la nuttata e la tempesta ci ritrovassimo di nuovo dentro alla corsa e alla competizione sfrenata che non lascia tempo se non per un ego ipertrofico che ragiona solo in termini di vittoria e sconfitta, e come unica misura di sé nel mondo la corsa per la corsa , ne usciremmo male e con la testa girata all’indietro .
I segnali del precipizio collettivo ci sono anche oltre il virus attuale che ci mette in ansia e ci fa penare.
Cambiare riscoprendo la lentezza , la gioia di non dipendere del correre delle lancette dell’orologio, la libertà ritrovata dalla dittatura dello smartphone che canalizza tutta l’attenzione che in altri tempi avremmo dedicato ad altro e ad altri, è qualcosa che sarebbe salutare riuscire a mettere in pratica .
Il cambiare per non morire questa volta rischia di essere non più solo una frase che si adopera come metafora della necessità di non sclerotizzarsi dentro un bozzolo , per quanto rassicurante e protettivo lo si possa considerare.
Cambiare per non morire è più che altro una necessità per tutti. Sarà opportuno coglierla questa volta , prima che finisca il tempo per poterlo fare!
Incontro virtuale con “Le Matite per scrivere il cielo”.
Cambiamento è anche ripercorrere certi ricordi alla luce di nuove sensazioni.
E’ anche guardarsi tra di noi con un cuore più limpido.
E’ anche riascoltare canzoni note con il cuore diverso.
Ecco la musica e le parole di Fiorella Mannoia: “come si cambia per non morire”……
Cambiamento è anche spostare l’obiettivo da noi stessi a chi ci sta intorno. dai nostri progetti a quello che il destino ci mette di fronte.
Cambiamento può essere anche imparare ad usare le parole con maggiore attenzione.
Queste dunque le scintille di oggi, di questo martedì 10 marzo 2020. Un giorno dei tanti del nostro delirio epocale.
Inviate i vostri video o messaggi vocali sul gruppo w.a. oppure inviate scritti per mail
lamatitaperscrivereilcielo@gmail.com
A presto!