Il bilancio e la sponda

Sponda – di Gabriella Crisafulli

Tre anni fa, in un torrido agosto, mi sono trovata stesa a letto in una condizione di semi immobilità.

Ero sola.

Non potevo camminare, non riuscivo a badare a me stessa.

Molte cose che mi piacevano come passeggiare e andare in bicicletta, mi erano precluse.

È stato allora che, sentendomi in trappola, in un isolamento parossistico, l’ennesimo della mia vita, pensai alla scrittura come ad un salvagente, per galleggiare nel mare torbido nel quale mi trovavo.

Così, un paio di mesi dopo, fornita di stampelle, sono approdata ad Antella.

Alcune persone le conoscevo, ma i gruppi sono stati sempre il mio problema. Mi manca l’esperienza dell’infanzia.

Mi manca l’autoregolazione.

Mi sento sempre sulle spine.

Mi domando: “Quali sono le norme che valgono qui?”

Esaspero l’attenzione verso gli altri fin quasi ad essere percepita come affettata.

Sono passata attraverso ambienti, lingue, regole sociali, dogmi, … così differenti tra loro da avere alla base una grande confusione che mi rende insicura.

È molto diverso fare la fila nel negozio di alimentari a Palermo, a Milano, a Firenze …: nel Nord non si chiacchiera e le persone dietro di te sollecitano a sbrigarsi.

Una volta una collega mi disse che un suo alunno sudamericano quando era in silenzio, cantava.

Io mi sento quel bambino.

Quando si verifica un disguido patisco molto perché penso di essere responsabile.

Come si fa ad essere schietti?

E se dicendo la mia idea offendo?

Ma il gruppo nel quale mi ritrovavo era protetto.

Sul tavolo intorno al quale ci sedevamo venivano buttate le carte di una partita a poker senza perdite.

Si poteva “vedere”, “rilanciare”, “passare”, “fare buio”, “barare”, …

Il silenzio si alternava alle parole che viaggiavano da sedia a sedia, in un ping pong di sensazioni, emozioni, brividi, …

La stanza si riempiva di vissuti, pensieri, riflessioni, sentimenti, pene, emozioni, … che si insinuavano nella mia mente vuota e la ripopolavano.

Come semi in un giardino deserto.

A poco a poco nascevano piantine.

Mi appigliavo a questi fili tracciati da persona a persona, rammendavo tessuti lacerati, ne tessevo di nuovi.

Aprivo porte, finestre, cieli, ponti, …

Lentamente la mia paralisi affettiva si scioglieva al calore umano.

Mi piaceva scoprire la bellezza delle persone, la loro competenza manuale, cognitiva ed esistenziale.

“Oh, guarda – mi dicevo – si può fare così” e imparavo.

Passo dopo passo sono uscita di prigione, … quasi.

Ho iniziato un viaggio insieme ad altri.

Sono ancora in mezzo al guado, ma vedo l’altra sponda.

Bilancio

La scatola magica – di M.Laura Tripodi

Nei giorni passati, con il sole e le finestre aperte, ogni tanto  qualche ragazzo  intonava una canzone e subito dopo qualcun altro si univa. Oppure dalle case uscivano  musiche a tutto volume per condividere, per sentirsi  insieme, anche a distanza.

Eccolo  il momento. Credevo non sarebbe più arrivato.

E’ una  mattina di fine marzo, venerdì 27 per la precisione. Il vento  soffia come se fosse inverno e le finestre sono chiuse per non far passare l’aria fredda. Non ci sono rumori e  nemmeno  suoni.

Devo allacciare bene la cintura di sicurezza perché conosco la pericolosità del viaggio che sto per fare. Tutto a marcia indietro.

Cerco sensazioni, emozioni, ricordi, qualcosa che insomma mi faccia sentire viva in un momento di storia in cui ognuno è solo, ma tutti siamo accomunati. Come sempre, del resto, ma adesso è proprio evidente.

Con  un senso di tenerezza ripenso ai momenti in cui ho dovuto affrontare situazioni nuove.

Sempre pronta a sperimentare e nello stesso tempo sempre diffidente, insicura, paurosa. Come se il fatto di partecipare contenesse l’aspettativa di un  risultato vincente che mi riscattasse, che mi facesse emergere.

Affondare il coltello nel cuore.

Certo che la storia è costellata da grandi geni e mitici eroi. Ma si parla di migliaia di anni durante i quali milioni di persone comuni erano niente e hanno continuato a essere niente.

Se per niente si intende il non emergere alle glorie del ricordo e della storia.

In quella stanza del teatro io mi sono sentita a volte un’estranea.

Quella sera le luci erano spente. Baluginava un lieve alone attraverso un’imposta e sul tavolo tremolava una candelina.

Sembrava una seduta spiritica e dentro di me ironizzavo su quella che mi sembrava un’assurda messa in scena.

Poi è passata una scatola che conteneva alcuni oggetti. Toccandoli sarebbe successa una magia.

Sempre più perplessa, quando è stato il mio turno,  ho tastato ad occhi chiusi.

Ora non sorridevo più. La mia sufficienza si era sciolta in una sensazione tenera di bambina che guardava affascinata un albero di natale risplendente di luci.

Ricordo ancora l’accelerazione dei battiti del mio cuore e il profumo del muschio del presepio, come se il tempo fosse stato catapultato in una dimensione diversa eppure profondamente conosciuta. Anche allora avevo ingranato la retromarcia.

Il tutto era stato scatenato da una collana di perle. Toccandola era riaffiorato il ricordo di un filo di palline rosse che il babbo avvolgeva meticolosamente intorno all’abete che odorava  ancora di bosco. E accanto c’era il presepe, magico, con i fiocchi di neve fatti con pezzettini di cotone e il muschio sparso qua e là, odoroso anche lui di freddo e semplicità, come solo le cose povere sanno ricordare.

Quando si sono riaccese le luci ognuno ha scritto sulle sensazioni che quella esperienza aveva evocato.

Nessun vincente, solo piccole persone accomunate dalla  diversità. Senza il pudore di volerla nascondere.

Ritrovare la propria dimensione. Coccolarla, capirla. Sopportarla, a volte.

E’ un esercizio difficile che non finisce mai. Forse il segreto sta proprio in questa consapevolezza.

Libera di avere paura

La chiave giù nel pozzo – di Gabriella Crisafulli

In questi giorni di quarantena sfoglio l’album della mia vita.

Dalla nascita ai diciassette anni, fra un trasloco ed un altro, su e giù per l’Italia, sono rimasta chiusa dentro pensieri, idee e relazioni, confinata nell’abitazione, all’interno del ristretto nucleo familiare.

Avevo una sorella, è vero, ma i suoi comportamenti erano molto diversi dai miei e non me li spiegavo.

Pur essendo quasi coetanee, non comunicavamo.

La narrazione di lei, fatta da mia madre, non corrispondeva a ciò che vedevo giorno dopo giorno.

In questo disallineamento tra visto, detto e percepito, la mia mente si paralizzava.

Lasciavo risuonare nelle orecchie quel che mi veniva ripetuto: è normale, è normale, è normale.

Non mi ponevo interrogativi.

Non ho usato la logica.

Solo oggi mi domando: ”Come mai veniva sostenuta quella versione dei fatti? Se fosse stata vera, non ci sarebbe stato bisogno di ribadirla.”

Ho fatto dell’amore e della fedeltà alle idee dei miei genitori un dogma.

All’interno di quel ristrettissimo spazio di movimento, di pensiero e di relazioni ero perfettamente sola.

Mi sono costruita un mondo di sogni, fantasie, speranze, illusioni, utopie, progetti.

Quando è arrivato Giovanni, ha aperto la porta, ha buttato la chiave nel pozzo e siamo scappati via.

Insieme abbiamo costruito un mondo nuovo.

Come Charlie Chaplin e Paulette Goddard in Tempi moderni.

La scena in cui Charlot sistema le assi della capanna mentre la ragazza apparecchia la tavola, ed il finale nel quale i due camminano orgogliosi e fieri, a braccetto, verso il loro futuro, sono sequenze della mia realtà.

Ma Giovanni è andato via.

È ricomparso il passato che mi ha travolto.

Mi sono rialzata.

La segregazione del Corona virus assomiglia molto a quella dei miei primi anni di vita e a quei cinque mesi vissuti in isolamento nel corso della mia prima gravidanza.

Ma c’è una differenza sostanziale: oggi sono libera.

Libera di avere paura.

È vero, non capisco cosa succede, non so cosa succederà.

Sono sospesa nel vuoto ma penso, ascolto, leggo, ragiono, respiro, canto, scrivo, … e ho paura.

Faccio i conti con me stessa.

Faccio ordine dentro e fuori di me.

Esamino uno ad uno fantasmi, incubi, ombre, spettri, apparenze, falsità e calunnie …

Li esamino, li ripiego, li conservo: un cassetto per ognuno.

Sono la riserva per le storie future.

Sono la riserva per i legami.

Adesso ho tutto il tempo.

Così posso filare e tessere sogni, fantasie, speranze … che mi seguono come uno sciame.

Penso a me, a chi conosco, alla gente, al mondo che verrà.

Provo ad imparare ad amarmi e a non avere più timore degli altri.

Non c’è più nessuno che mi picchia.

E cammino, come nella scena finale di Tempi moderni, sul sentiero della vita.

Charlot è andato via.

Rimane la ragazza.

Cinque anni

Cari bambini

Vi incontro in video, sì, quasi ogni giorno. Riconosco i vostri visini tondi, allegri, ridenti. Mi si apre il cuore solo se dite ciao nonna e mi guardate dentro lo schermo piegandovi, per vedermi meglio nel collegamento strappato, a volte in pausa, come i nostri incontri. Prima della chiamata mi sento con un cappotto di piombo grigio senza futuro, ma basta lo squillo, l’avviso della video chiamata e già sorrido, già mi rassicuro che ci siete, che era tutto vero quello che abbiamo vissuto insieme. Cinque anni. Cinque solo stupendi incredibili anni, cinque anni di scoperte graduali di noi, del nostro bene in crescita, che gonfia e lievita, come uno di questi nostri timidi pani riscoperti in questi giorni,  da cuocere ogni tanto come un sollievo nel forno di casa. Cinque anni che parevano pochi e io che dicevo chissà se li vedrò alle medie, se arriverò a vederli grandi, se arriverò a vedere anche da adolescenti i loro capelli al vento così liberi e smaglianti quando corrono verso qualche obiettivo invisibile. Cinque anni diventati tanti giorni, uno di seguito all’altro, i giorni al mare sulle onde a ridere, i giorni dei compleanni e dei “Tanti guri a te”, i vostri, i nostri, i cin cin a tavola e le colazioni che ho condiviso  con voi partendo presto la mattina per raggiungervi al risveglio lassù su quei vostri monti che ora vi proteggono. E i giochi sotto la coperta che era la casa al riparo dal lupo e i baci e gli abbracci stretti e la “pampa” fuori, da prendere a pedate nel prato. Cinque incredibili anni, cinque perle smaglianti che brillano con tutta la loro forza imperiosa. Cinque splendidi scoppi di un amore che ha saputo accendere tutto il sapore più buono della vita.

nonna Cecilia

Questa prigione stretta

Prigionia – di Sandra Conticini

Non volevo entrare  in questa prigione… Mi sono ribellata fino all’ultimo… Per una  che non riesciva a stare in casa, trovava  tutti gli impegni  per uscire e stare insieme alle persone, è stata dura adeguarsi a questa realtà. Fino all’ultimo sono andata a passeggiare da sola, ma poi ho dovuto cedere, non ero in pace con me stessa. Mi sentivo osservata, provavo un senso di vergogna e di responsabilità verso gli altri.

Ho iniziato, anche se la voglia non era molta, con la pulizia della casa. Quando ho finito mi sono inventata un po’ di giardinaggio, ma non ho il pollice verde, chissà che non migliori! Con il passare dei giorni mi sono venute altre idee,  qualche telefonata, un po’ di lettura, qualche ricetta che volevo provare da tempo, un p’ di movimento, qualche lavoretto manuale. Le giornate sono passate svelte e spesso alla sera non ero riuscita a fare tutto quello che avevo in testa.

In queste settimane di clausura ho riscoperto che, quando si sta bene con noi stessi, possiamo essere in qualunque posto e, anche se la vita continuamente si diverte a metterci davanti a prove e difficoltà ci accorgiamo che, una volta superate siamo più forti e migliori.

Finestra aperta

La fuga del sacchetto – di Patrizia Fusi

Dalla finestra vedo la strada dove tre fratellini portano a passeggio il cane: il grande tiene a guinzaglio il grosso cane nero, il piccolo è seduto dentro il carrettino a forma di macchina, la bambina lo spinge, si fermano, il piccolo scende, si spostano un po’ avanti, il cane li costringe a cambiare rotta, torna indietro, si ferma, annusa l’erba del balzo, i bambini parlano fra loro e ridono (è una gioia vederli). Il cane riparte, dopo pochi passi altra fermata, odora con più intensità: ha trovato il posto giusto.

Il ragazzo grande mima il cane nei suoi movimenti, il piccolo da lontano si china un po’, per veder quello che esce, tutti ridono divertiti, la bambina apre un sacchettino verde e insegna al piccolo come metterlo avvolto alla mano.

Il vento dispettoso lo fa volare via, lo rincorrono, ma una folata di vento lo sposta nel giardino di sotto.

La bambina sparisce, eccola con un altro sacchetto, lo mette intorno alla mano, guarda lungo il balzo, non vede più dove il cane si è fermato, cerca il punto con il piccolo, lo vedono, lei si china con manina esperta e raccoglie il tutto e corrono via verso casa ridendo.

Il vento continua a far volare il piccolo sacchetto verde, lui sembra essere felice di esser scampato all’uso a cui era destinato. Folate di vento lo fanno danzare sul prato mentre il sole lo illumina.