Di recente stavo leggendo un libro su come riconoscere i talenti nei bambini. Mentre leggevo, ho pensato a Cecilia che dice siamo titolari di talenti, ma non ci crediamo, forse, ce lo dice per incoraggiarci visto che, alla nostra età, ci siamo messi a fare cose a cui non pensavamo. Potrebbe essere che lei abbia capito subito il senso di quel libro cosa che a me non è capitato ancora. Rileggendolo forse, troverò il bandolo della matassa. Ritornando ai talenti dei bambini, e guardando nella platea che mi circonda, mi sono accorta che quella che sembrava una gattamorta ciucciadito e strusciona,è una vera artigiana, cocciuta e difficile da convincere: le passano per la testa idee che deve realizzare a tutti I costi, senza limiti di tempo, materiale o stanchezza. Come la capisco pero’, spesso succede anche a me. Sarà quello il suo talento? voler costruire borse, scatole, un lampadario per il compleanno dello zio,o una borsa per la nonna? Si, alla luce di queste riflessioni ho provato a rivedermi bambina, per capire se avevo dei talenti e dove sono andati a finire. Avendo fratelli maschi, ero sempre con le ginocchia sbucciate spettinata,a fare giochi con la mota ,i sassi e,legni. Nella carrozzina portavo la mia gallina preferita, accuratamente vestita con un fazzoletto che le teneva ferme le ali. Mi raccontano che non avevo voluto aprire la bocca al nuovo medico e ero stata spedita in ospedale per sospetta difterite. Si, mi chiamavano Zoe ,facevo coppia con Arturo mio fratello, i personaggi di un fumetto di allora. Quello che poteva fare Arturo ero capace di farlo anch’io! In un litigio con una bambina le strappai una ciocca di capelli, non vi dico che fama mi feci. Un giorno a scuola, vidi il teatro delle marionette fatto da un ragazzo che si chiamava Ettore, era albino, rimasi cosi affascinata che poi nella mia professione ho amato costruire burattini e realizzare piccoli spettacoli. Un giorno a carnevale, salii sul palco in parrocchia e intrepretai la Marchesa delle Carabattole che avevo imparato al doposcuola. Fu un successo insperato, per anni si ricordarono di me. Ero anche abile nei lavori manuali, imitando mio fratello usavo il seghetto per creare giochi e personaggi col traforo, avrei potuto fare il falegname.? Mi ricordo che la mia maestra, bella donna vestita alla francese, con una piccola crocchia sulla testa e il rossetto deciso, non particolarmente disponibile nei miei confronti ,forse perché poco vezzosa, si inteneriva tutta quando scrivevo storie fantasiose e divertenti che, regolarmente, faceva leggere al medico scolastico con grande orgoglio. Un giorno mi regalo’ una scatola di matite colorate (Stabilo) per premiarmi del mio impegno per il disegno. Allora, posso dire che i germi di quello che mi sarebbe piaciuto fare c’erano già? Oppure che sono stata fortunata a nascere in questo mondo che mi ha capita e lasciata libera di diventare quello che ero?
Mi è capitato di leggere questa frase di Oscar Wilde: “Il guardare una cosa è ben diverso dal vederla. Non si vede una cosa finché non se ne vede la bellezza”.
Mi è piaciuta e l’ho copiata. A mano, con la mia calligrafia stronca e indecifrabile, piccola e grande secondo l’umore, su un foglio che tengo a portata di mano a fianco del computer, dove annoto un po’ di tutto quello che mi capita, dagli indirizzi della spesa a domicilio, alle poesie che qualcuno segnala, ai siti che potrebbero tornare comodi e ai numeri di telefono di cui dimentico di scrivere i proprietari. La potreste trovare lì, scritta in un inchiostro marrone, con frasi spezzate e abbreviate, subito sotto la trascrizione di un vocale w.a. che mi interessa. Accanto c’è il mio registratore digitale. Ora fermo in questi giorni di clausura, ma di solito mio compagno di avventura perché mi aiuta a fermare quello che accade, gli incontri e le parole che ci siamo detti. Parole che volano, restano in sospensione appena un po’ e poi spariscono leggere, dimenticate, pronte per ripartire per una prossima volta perché loro, le parole, sono sempre le stesse in fondo ma si moltiplicano in infinite combinazioni e intonazioni multicolori, per costruire immagini sempre diverse. Conservo. Questa è la mia prima parola. Conservo per non perdere, per non disperdere. Quanti sogni sono andati persi perché non li abbiamo scritti la mattina, quante indicazioni preziose abbiamo dissipato nell’oblio del quotidiano. Quanti incontri importanti, quante risate sulle panchine o al tavolo di un bar, quante parole d’amore sono rimaste un poco sospese nell’aria intorno a noi e poi si sono smaterializzate? Fanno così anche i virus. Partono da una bocca all’altra, restano un po’ sospese e poi spariscono……ci abbiamo mai pensato? I virus fanno come le parole, lo dice anche Burioni!
Conservo e raramente riascolto. Ma qualche volta l’ho fatto. Non sapete come la voce conserva i sentimenti. Quante volte, in casi di piccoli conflitti ho riascoltato le parole per capire. Rivelazioni. La durezza su una frase, la troppa velocità delle risposte, il parlarsi sopra senza ascoltare un punto di vista diverso, un portare avanti un’idea che dal vivo non avevo capito, un’esperienza passata che fa sentire la sua ferita apparentemente a sproposito …..quante rivelazioni inedite in quelle parole digitali. E c’è un ritmo in quella sequenza di parole, un ritmo personale. Non è solo dalla voce che vi riconosco, ma anche dal ritmo, da come a volte vi controllate e a volte no, dalle vibrazioni. Ci sono vibrazioni fisiche, percepite dal vivo e percezioni sublimi, percepite dalla voce. Ci sono colori, nella voce e sono quelli che vogliamo dare all’anima nel momento esatto in cui dona se stessa. Non ho più bisogno, ormai, di riascoltarvi, ho un buon allenamento anche in diretta.
Ma torniamo alla frase iniziale che mi ha colpito. “Non si vede davvero finché non si vede la bellezza che c’è in ogni cosa”. Oscar Wilde parla di cose, ma per me il concetto vale per tutto. Soprattutto per le persone. Non esiste nessuno che non abbia bellezza. Vi ricordate? Così avevamo iniziato quest’anno: “In tutto c’è stata bellezza”. Era questo che volevo raccontare, come in tutte le cose c’è una nota di bellezza così anche in tutte le persone. E nelle scritture. Il “non diario” anche. Voleva far osservare il bello che c’è nelle piccole cose.
Poi questo VIRUS ha dato la botta finale: ce lo ha fatto davvero capire quanta bellezza c’è nelle piccole cose. Come dice Rossella noi anticipiamo sempre le mode. Anche questa dell’apprezzare le piccole bellissime cose di ogni giorno l’avevamo azzeccata! Il caffè al bar, le strette di mano, gli abbracci, le giratine inutili senza meta, il sole quando ci pare, l’erba sotto i piedi……Qualcuno si lamentava perché non poteva andare alle Canarie e ora chissà che darebbe per una giratina al mercato di Sesto! Come tutto si è rimesso al suo posto!
Ma io avevo pensato tutto questo. Già in estate mi metto a pensare cosa farò alle Matite, raccolgo, leggo, cerco. E quest’anno volevo non essere solo io il polo centrale, volevo spiazzare, cambiare…ho pensato a chi poteva aiutarmi, a chi avrebbe capito, a chi era abbastanza capace per stupire, meravigliare, affascinare, ho chiesto, convinto, proposto…..Ho amici speciali, mi rendo conto. Ho trovato altro entusiasmo e insieme abbiamo creato le “Contaminazioni” che hanno spiazzato qualcuno, lasciato perplesso qualcun altro.
Però vi siete fidati e avete fatto bene. Perché pensavo che partendo dalle P A R O L E che sono il nostro tesoro e il nostro bagaglio nella borsa da Mary Poppins che mi porto dietro, potevamo volare più alto.
Lasciare il nostro salotto comodo e conosciuto e andarcene in giro per parole altre. Parole che volano come farfalle, parole solide come quelle della letteratura intelligentemente mediata. …PAROLE.
Ho costruito un programma quest’anno. Un programma vuol dire avere in mente un cammino senza sapere cosa accadrà veramente. Un programma è una scommessa di fiducia, basata sul noto e sull’ignoto, e avere fiducia che l’imprevisto sarà affrontato, sarà piegato con le nostre capacità e la nostra inventiva.
Così è stato. Nonostante tutto abbiamo fatto tutto il cammino.
Compreso questo imprevisto doloroso che ci ha dato l’opportunità di mostrare di che pasta siamo fatti tutti noi. Ci disperiamo, piangiamo, ci manchiamo, ma siamo ancora qua, scriviamo e ci pensiamo.
E progettiamo un futuro che non tarderà ad arrivare.
Cosa mi hanno lasciato, questi anni, con il gruppo e con Cecilia? Mi hanno lasciato molto, poichè per me questi ultimi anni sono stati difficili a livello familiare e quindi affettivo, sentimentale. Talmente difficili da causarmi disorientamento, perdita di certezze, delusioni… La sicurezza di incontrarci, ogni martedi, a depositare sul nostro tavolo le emozioni, i pensieri e, come accade scrivendo, più o meno consapevolmente, parti nostre, mi è stato veramente di grande aiuto: un binario che al di là di tutto, mi dava una direzione ma anche un motivo di evasione da ciò che mi tormentava. Non solo questo, gli incontri sono stati un modo per sublimare situazioni all’impatto inaccettabili: non per “stendere un velo pietoso” su ciò che non avrei voluto vedere ma per ridimensionare, divenire consapevole che esistono vie di fuga che la nostra mente può nobilitare, per raffinare gli eventi e quindi renderli affrontabili. Per questo grazie a tutte/i voi. La domanda di Cecilia è anche: “Può una prigione rendere libero chi vi entra ?” A mio avviso si, se viene vissuta nella certezza di un cambiamento positivo. Dobbiamo, pertanto, attivare l’immaginazione, stimolare tutte le nostre facoltà più creative. Perché non farlo?. Pensiamo alla germinazione del seme nella terra. Come scrive Gibram: “La civiltà ebbe inizio quando per la prima volta l’uomo scavò la terra e vi gettò un seme.” Il seme, grazie alla protezione del terreno, alla “chiusura benefica” e non alla “sepoltura” sviluppa tutte le capacità per diventare pianta. L’ambiente naturale, celato, riservato, unito alla creatività e alla speranza, daranno senz’altro ottimi frutti. L’umanità ha spento le proprie lanterne e ci è parso di rimanere al buio, ma stando al buio, pian piano si intravedono le cose ad una luce più fioca, forse più fascinosa. Ogni essere umano raccoglie in sé, inimmaginabili potenzialità. La libertà è dentro di noi, dobbiamo trovarla e tirarla fuori. Stando in casa, non cerchiamo rifugio nella mera consultazione del computer o nella televisione, non “chiudiamoci” negativamente nella passività… Vediamo se nell’intimità e nel silenzio, nel non contatto, mantenendo viva la comunicazione vera, riusciamo a ritrovare il nostro “io” più profondo, accarezzarlo, farlo germogliare e crescere come merita. Nel momento in cui abbandoneremo i nostri costrutti, le nostre difese, ci sentiremo meno impotenti. Ritroveremo la “libertà mentale” che può sussistere in tutti gli ambienti, aperti o chiusi, la “libertà interiore.” Quando avvenne il diluvio Dio promise a Noè la salvezza, per questo Noè si industriò a raccogliere le persone, gli animali e le cose più care e indispensabili nell’Arca. Quella chiusura fu salvifica perché sostenuta dall’idea di un cambiamento promesso. Nell’immaginario collettivo il diluvio ha una spiegazione catartica, purificatrice dai mali del mondo, è un ”controllo” del male, non è solo una punizione. Io spero che, quando tutto ciò che stiamo vivendo finirà, saremo più genuini, ci abbracceremo con più sincerità, saremo meno avidi perché avremo capito che difronte alla “possibilità di morte” siamo tutti uguali
Alla notizia che avrebbero chiuso tutto e che per il virus non sarebbe più potuta uscire di casa per un bel po’, il suo cuore si fece di ghiaccio!
Le pareti dell’appartamento le sembrarono di colpo ancora più strette di come le vedeva ogni santo giorno.
Se le sentiva addosso, con i loro artigli e la stringevano, la pressavano fino a soffocarla, fino a farle male !
In quella mattina di marzo si svegliò presto. Cadeva la neve incurante della primavera segnata sul calendario e non provò nel vederla nemmeno un briciolo di allegria.
Pensò che il cielo cupo e quel bianco uniforme del cielo al posto dell’azzurro dei giorni precedenti, non le erano di nessun aiuto.
Soffocavano l’anima e non lasciavano nemmeno un piccolo spiraglio cui potersi aggrappare per trarne un sorso di tranquillità.
Non pretendeva troppo. Solo un piccolo sorso in quel mare in tempesta che ogni giorno era costretta ad affrontare e senza scialuppa di salvataggio.
Aveva provato a vedere nei mesi precedenti se fosse possibile individuarne qualcuna. Purtroppo aveva dovuto concludere che attorno a lei non ce n’erano.
Il palazzo in cui viveva era un casermone chiassoso della periferia. Sulle scale e nell’ascensore era tutto un gran via vai, ma se ne stavano in disparte gli uni dagli altri. Solo qualche buongiorno e buona sera a sorrisi tirati ma poca confidenza e familiarità.
A mala pena sapeva il nome dei vicini e solo perché si era presa la briga di leggere la targhetta accanto alla porta.
Nulla più. Le porte rimanevano chiuse. Ognuno pensava solo ai casi propri.
Si sentì sola come non mai in quella mattina di un marzo più pazzo del solito. L’inverno che tornava a far capolino era l’inverno che da tempo albergava nel suo cuore.
Lo vide che dormiva ancora sul divano con quella orribile canottiera sempre più grigia e quei pantaloni sformati e pieni di patacche dei tanti pasti consumati davanti alla tv senza attenzione per il cibo, né per quello che vedeva.
Occhi fissi da leone in gabbia. Un leone da tempo sempre più cattivo che la semiprigionia di quei giorni aveva contribuito a rendere più pericoloso e aggressivo.
Si girò appena nel sonno e lei sentì scattare la morsa ferrea della paura sua compagna fissa ormai.
Quello che era stato l’amore della sua vita era cambiato giorno dopo giorno precipitando in un abisso di brutalità.
Vedeva la rabbia montare per giorni, in ogni suo gesto, in ogni suo sguardo, fino all’esplosione.
Spesso erano solo parole cattive che tagliavano l’anima. Parole che ferivano, sminuivano, offendevano in un fiume di rancore e di rabbia.
Poteva essere per il caffé non troppo caldo, per la pasta troppo al dente o qualsiasi altra sciocchezza del genere.
Non li contava nemmeno più i motivi futili che generavano uragani di insulti.
Nel suo cuore trovava ancora modo di giustificarlo.
“A differenza di me lui è abituato a muoversi, andando al lavoro, a incontrarsi con i colleghi in ufficio. Trovarsi costretto qui col terrore di questo virus maledetto e infido, si capisce che non è facile e fa scattare molle che non gli sono proprie. Oddio, è vero che dopo poco che ci siamo sposati ha mostrato subito scarsa considerazione per me. Il lavoro l’ho dovuto abbandonare perché tanto non guadagnavo abbastanza “.
Non succedeva, diceva lui, perché anche gli altri sapevano che non valevo nulla.
“Che avrai studiato a fare quelle inutili materie che nel mondo di oggi non servono a nessuno?”
Quando invitava qualcuno dei suoi colleghi con le mogli non si peritava a dire “ Ha fatto filosofia, lei”, con tutto il disprezzo che aveva in corpo e con una risata intrisa di velenoso sarcasmo.
In silenzio lei faceva la spola fra cucina e salotto per servire quella compagnia di estranei che nemmeno cercavano di entrare in sintonia con lei.
Ridurla al rango di domestica non bastava. Quelle serate dovevano finire pure con urla e scenate perché lei non era stata socievole con i suoi colleghi, aveva tenuto il muso ed era stata per lo più in silenzio.
“ Cosa penseranno di me, con una moglie così “urlava ogni volta!
Temeva il suo risveglio più di sempre quella mattina. La sera prima aveva provato a dirgli che non ce la faceva più a reggere quella situazione. Aveva bisogno di stare un po’ da sola per pensare a come poter andare avanti.
Erano giovani. In due non arrivavano a 60 anni, avevano tutta la vita davanti. Non era giusto rimanere chiusi in un rapporto che evidentemente non andava bene, era malato.
Appena quell’aggettivo era scivolato nella conversazione il tono si era fatto acceso. Gli occhi che si era vista di fronte si erano fatti cupi e cattivi come non mai.
Era riuscita a schivare quasi tutte le stoviglie che lui le aveva scaricato addosso ad eccezione di una che la centrò sopra l’occhio sinistro.
Il sangue che iniziò a uscire copioso lo aveva fermato, per fortuna.
L’espressione era cambiata. Non dolce, perché dolce non lo era mai, colpevole si.
Si era affrettato a prendere l’occorrente per medicarla e dopo fu tutto un “Giuro, non lo faccio più. Non so cosa mi prende. Lo sai non sono così. Perdonami!”
Dopo poco lui già ronfava sul divano, lei piangeva nel grande letto col suo occhio tumefatto.
Nel ricordare tutto questo in quella mattina di neve e di freddo si fece strada la certezza che non voleva che continuasse ancora in quel modo.
La casa di sua madre non era lontana. Avrebbe potuto raggiungerla anche con quel coprifuoco.
Si vestì in fretta e cominciò a riempire una borsa con poche ed essenziali cose. Non aveva nulla in quella casa prigione da portare con sé.
Era quasi arrivata alla porta quando si sentì afferrare per i capelli.
Il marito si era svegliato ed era furioso. Sentiva arrivare i colpi da tutte le parti. Teneva le mani sul capo per protezione. Sentiva le urla arrivare come frustate insieme alla gragnuola di colpi.
“Puttana dove pensi di andare?Sei mia, solo mia e non puoi lasciarmi se non lo dico io! Hai un altro, vero? L’ho sempre sospettato, ora lo so. Vuoi andare da lui, vero? Ma non uscirai da quella porta. Da viva, almeno!”
Le botte erano sistematiche, arrivavano ovunque.
Urlava lui e urlava lei.
Divennero laceranti quando lui cominciò a usare il martello e rimbombarono nel palazzo silenzioso in quei giorni di prigionia collettiva.
Per fortuna quella volta cominciarono a sentirsi colpi alla porta chiusa. Persone che chiamavano aiuto, dandosi la voce l’un l’altro.
In lontananza nel torpore dolorante che la stava invadendo le sentiva tutte. Le sembrarono compassionevoli e piene di preoccupazione, finalmente solidali.
Perse i sensi nel momento in cui la porta fu sradicata dai poliziotti che entrarono in massa placcando quella furia d’uomo prima che potesse sferrare l’ultimo colpo mortale.
Quando si svegliò in ospedale fasciata quasi ovunque le tornò in mente il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi.
Era un pensiero di liberazione. Quella porta era rimasta chiusa per troppo tempo con lui dentro.
Malgrado le fitte di dolore che la trapassavano il pensiero di quella porta che veniva abbattuta le dette forza.
Al momento non era molto più che un flebile appiglio.
In un angolo del suo cervello e in tutto il suo corpo oltraggiato e ferito ebbe la consapevolezza per la prima volta dopo troppo tempo che in breve sarebbe diventato la molla per ricostruire la sua vita dopo l’orrore di quegli anni.