Profumo di vento – di Stefania Bonanni

Non è lo stesso, piccolo mondo o mondo piccolo.
Piccolo mondo è un grande mondo, più grande di quanto ne possa contenere un pianeta, un universo, una galassia, tutto strizzato in una piccola gabbia, stretto tra pensieri microscopici e sogni di voli e colori, e onde e tramonti. Piccoli passi strascicati, tra il Polo Nord ed il Polo Sud del piccolo mondo. Oggetti vecchi, ignorati da chi quel mondo ce l’ha più grande, che sguardo dopo sguardo tornano a vivere. Foto diventate tappezzeria, in un mattino di raggi di sole, rivelano quei nei che ha sempre avuto, la mia bambina, e che solo l’altra sera mi ero stupita di vederle sul viso, come fossero nuovi. Ero io che la guardavo di nuovo, come fosse la prima volta.Sono io che non finisco di imparare quegli occhi, quella fossetta, quel neo, quel lampo, quel sorriso.
Come quei libri da spolverare, letti tanto tempo fa. Ne scorro uno e subito, dalle prime righe, mi riporta lì, cone un viaggio a velocità supersonica, indietro nel tempo, a quella sensazione di stupore, di meraviglia, che vissi quel giorno d’inverno, mentre leggevo sotto le coperte pesanti, con il veggiolo per appoggiare i piedi congelati, quando conobbi parole d’amore, e non sapevo, ma scaldavano. Il tempo non esiste, se una frase ti ti porta al tempo della possibilità. Se le parole, come bacchette magiche, ti portano vicino persone che mancano da tanto tempo, se è possibile risentire il profumo di quegli abbracci, di quei saponi, di quei soffritto, di quelle lenzuola asciugate al vento, sul filo, nel prato davanti al fosso. Fra nuvole e margherite, piccole vele. Ci si sognava bene, in quel profumo di vento.
Piccolo mondo è ritrovare cose perse, perché non si sono più cercate davvero, questo pianeta non è sospeso nel vuoto:tutto quello che sparisce, si nasconde.Tornerà, quando ne avrai bisogno davvero. O quando lo ripenserai utile, o bello, o se solo lo ripenserai.
Questo mio piccolo mondo non è nato ora, che ne ho più bisogno del pane. È sempre stato, per fortuna. Mi ricordo un gioco bellissimo. Io e la Sonia in cucina, e c’era solo la cucina, oltre alle camere. Si metteva una grande coperta, sulla tavola, che coprisse tutto lo spazio sotto alla tavola, fino al pavimento. Diventava, in un attimo, una capanna, una tenda da campeggio, un capanno sul mare, una baita nella neve, un riparo nella bufera. Il pavimento era rosso, lucidissimo di mattoni porosi, che mantenevano zone più scure, come per ricordare che erano fatti di fango, alla fine. Ci si sfinivano, le donne, a stropicciare con il cencio, a passare il cinabrese, a ripassare con il panno di lana. Era freddo, ghiaccio d’inverno, fresco d’estate, umido quando pioveva, con orme fangose, quando si tornava da fuori. E ricominciavano a stropicciare. Noi si giocava. Sotto al tavolino, sotto la coperta, con bambolotti e coccini. A sopravvivere nelle tormente, a non congelare nella neve, a resistere alle ondate. Importante era dare da mangiare ai bambolotti gemelli. Siccome non ci sembrava inghiottissero bene, con le forbici a lame unite, si fece un buco vero nella bocca finta, e poi si versò acqua, latte, pappa, minestrone. Per finta, era solo acqua con erba, ma per davvero si riempirono. E si fu soddisfatte. Buonissima idea. Quando la plastica rosa diventò prima grigia, poi marrone, si capì che avevano preso una brutta malattia, e non ci fu più nulla da fare.
Mi fai ricordare i miei bambolotti: grazie!
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Rimango sempre sconcertata quando, leggendo storie che non somigliano alla mia, mi ritrovo comunque gemellata in emozioni fortissime.
Forse è la capacità di accomunarsi in una infanzia che, perchè tale, ci rende tutti uguali: semplici e innocenti.
Bravissima.
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Bello,dolci ricordi.
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Quelle tende che aprivano mondi fuori casa e quegli aromi e pennellate su un mondo che non c’e’ più da tempo . Ma vivo nei ricordi .
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