Maschere

Le Maschere della vita – di Nadia Peruzzi

Lo specchio, nella luce della sera, le rimandava una immagine sfocata di sé. Non aveva voglia di altra luce.

Quelle ombre che si rincorrevano sul suo volto in quel momento, altro non erano che il suo stato d’animo.

Sapeva che per uscire doveva indossare una delle sue maschere, non sapeva quale in verità e doveva decidere in fretta.

Femme fatale, ragazza sbarazzina e senza pensieri, eterna romantica, oca giuliva disposta ad assecondare con non chalance ogni battuta, ogni castroneria ogni spudoratezza del partner di turno.

Decise per l’ultima, l’oca, che in fondo le offriva una bella dose di copertura. Da quel ruolo mal considerato, anzi proprio disprezzato e dileggiato dagli altri poteva studiare meglio chi le ruotava intorno e fare meglio ciò che aveva in mente per quella sera.

Il mega party a cui avrebbe partecipato poteva essere la più grande occasione della sua vita e non voleva sciuparla in nessun modo. Un ultimo sguardo al sorrisetto accattivante che era una delle sue specialità e poi via a scegliersi l’abito per quella sera.

Optò per il vestitino nero che la fasciava nei punti giusti, e per la parrucca bionda a caschetto quella con la frangia che le arrivava fin quasi sugli occhi. Anche senza l’ulteriore controllo davanti allo specchio sapeva che era quella che ci voleva per dare il tocco finale al personaggio che aveva deciso di interpretare quella sera.

Il campanello suonò facendola sobbalzare. Era un fascio di nervi. Doveva controllarsi il più possibile.Trasse un profondo respiro e scese lentamente le scale di casa. Le piaceva farsi aspettare per ciò non prese l’ascensore, ad ogni passo assaporava ogni momento di ciò che immaginava sarebbe successo poche ore dopo!

La macchina nera coi vetri oscurati occupava quasi tutta la strada. L’autista era il solito armadio tutto muscoli che già altre volte era venuto a prenderla.

Attraverso la porta semiaperta riuscì a scorgere l’accompagnatore di quella sera.

Oltre i 70, ben portati, fasciato in un Armani che valeva un occhio, gemelli d’oro con mega diamante ai polsini.

Lo guardò simulando l’ammirazione che di solito tipi così pensano di meritare, e sfoggiando il più irresistibile dei suoi sorrisi.

Scambiarono poche parole in macchina. Entrambi sapevano che non c’era molto da dire in quei casi. A quel party dovevano presentarsi insieme.

Per lei un lavoro, per lui un obbligo sociale a cui doveva presenziare con a fianco una presenza femminile.

In quel modo e in quel mondo si possono fare ottimi affari,  stringere amicizie utili,  elargire favori di cui chiedere il conto anche a distanza di tempo. Un party come gran terreno di gioco in cui ogni pezzo di quella superclasse sa di svolgere un ruolo in commedia da cui trarre il massimo vantaggio possibile.

La villa che li attendeva era su una collina. Immensa e sfavillante di luci come ci si attendeva in occasioni come quella.

La fila di macchine in attesa di scaricare il bel mondo era incredibilmente lunga. Gli uomini in livrea rossa che aprivano gli sportelli e indicavano il percorso da seguire erano efficienti e non dovettero aspettare molto.

Il salone che li accolse era da mille e una notte.

L’uomo che era al suo fianco, lo capì allora, era il centro vero di quella serata. Al loro arrivo il brusio si arrestò. Fu un attimo. Riprese più forte insieme al gran movimento verso di loro per gli omaggi del caso.

Mani che si tendevano, inchini, grandi sorrisi per lo più insinceri, talora intimoriti.

Fra le signore qualche gridolino, cenni del capo ammiccanti, sguardi diretti di chi voleva farsi avanti per essere la prescelta in un’altra occasione.

Si accorse ben presto, Miriam, che il suo ruolo era pressoché esaurito. Doveva far colpo all’inizio e poi eclissarsi. La serata non prevedeva un dopo.

L’attenzione di tutti era catalizzata da quel signore che doveva essere una vera potenza per ricchezza e capacità di veicolare affari.

Si avvicinò al buffet, per mangiucchiare qualcosa.

Malgrado avesse adocchiato uno champagne da favola decise di evitare di berne anche un solo sorso, perché doveva mantenersi lucidissima per non sbagliare nulla e non mandare in malora il piano che aveva messo a punto da qualche tempo.

Sapeva dove era la cassaforte dalla volta precedente, quando aveva accompagnato un altro riccastro in quella casa.

L’idea le era venuta allora. Per caso una porta socchiusa le aveva permesso di vedere quanto le serviva per decidere di entrare in azione.

Senza nessuna fantasia (ma i ricchi ne hanno, si disse?), a nascondere il ben di dio in cui avrebbe messo le mani quella sera era il quadro di un trisavolo brutto come il peccato.

Il congegno della cassaforte non era dei più complicati. Ne aveva visti e aperti di peggiori.

Bighellonò per un po’ fra i vari gruppi disposti nel gran salone. Dispensò sorrisi a destra e a manca .Il ruolo di oca le garantiva una libertà di movimento che la stupiva ogni volta. 

La stellina senza cervello non destava preoccupazioni e quindi poteva muoversi agevolmente senza farsi notare più di tanto.

L’ultimo gruppo di signore con la quali si intrattenne fingendo interesse per le insulsaggini che erano unica cifra dei loro discorsi, era quello più vicino alla porta della stanza che le interessava.

Non le fu difficile entrare senza che nessuno la vedesse. In un attimo fu al quadro. Recuperò dalla calza autoreggente il micro apparecchio che le serviva per individuare il codice di accesso e lo applicò alla cassaforte.

Sentì il clic della combinazione che disattivava il blocco dopo pochi secondi.

Decise di trascurare tutto ad eccezione dei diamanti.

Ne avevano parlato in un annuncio di poche righe in una pagina del giornale locale dedicata alle aste di pietre preziose.

Quella che aveva attratto al sua attenzione si sarebbe tenuta qualche giorno dopo quel party in villa e la cassaforte li avrebbe dovuti custodire fino ad allora.

Erano veramente tanti. Alcuni di grosso calibro. Si perse un attimo abbagliata dalla luce incredibile che emanavano, mentre pensava fuggevolmente a quanto avrebbe potuto ricavarne vendendoli poco per volta.

Il sacchettino di velluto nero che li conteneva era l’ideale. Nascosto nell’elastico delle autoreggenti al posto del piccolo chip che non le serviva più, sarebbe arrivato a destinazione senza alcun rischio. 

Rimise tutto a posto.  Il chip lo nascose dietro ad uno dei libri della libreria accanto alla cassaforte e rientrò in sala. C’era riuscita in un tempo invidiabile.

Il gruppo delle signore era ancora a cianciare al solito posto. Lei potè in tutta tranquillità di nuovo iniziare il balletto fra un gruppo e l’altro per tornare un’altra volta al tavolone del buffet da cui si era mossa non più di una mezz’ora prima.

Si concesse allora tartine al caviale e un calice di quel prestigioso champagne a cui in precedenza aveva scelto di rinunciare.

Era stata veramente brava e poteva festeggiare.

Il suo accompagnatore era ancora alle prese col codazzo dei suoi ammiratori interessati, fra cui potevano scorgersi pure avventurieri di varie risme.

Si sedette su un sofà in disparte in attesa che lui si decidesse a rientrare al suo hotel riportandola a casa.

Ci volle tutto sommato poco tempo.

 Poi, come all’arrivo, gran sorrisi, strette di mano, sguardi di intesa per affari già messi in ponte o destinati a chiudersi di li a poco.

 Finalmente fuori. Il tragitto abbastanza breve,  come all’andata.

L’autista le aprì la portiera porgendole la busta col pattuito. Un cenno di saluto al vecchio signore e poi via in ascensore fino a casa.

La valigia era già sul letto. Il biglietto aereo nella tracolla che usava come portafortuna nei suoi viaggi. Velocemente tolse il tubino nero e le scarpe con i tacchi. Indossò una maglietta e un paio di jeans.

Mise le scarpe più comode che aveva. Inserì il sacchettino con i diamanti nel tacco vuoto di una di esse,  e in un attimo fu nuovamente in strada ad attendere il taxi per l’aeroporto.

Il taxista che prese i bagagli si trovò davanti una brunetta con l’aria sbarazzina e grandi occhiali da miope. La trovò carina con quella massa di riccioli, anche se tutto sommato non avrebbe saputo riconoscerla in un’altra occasione. Era tutto meno che fisionomista malgrado il lavoro che faceva, o forse proprio per quello visto che di persone ne trasportava e ne incontrava fin troppe.

Arrivare all’aeroporto fu veloce. In quella notte stellata di traffico non ce n’era.

L’adrenalina era a mille mentre Miriam saliva la scaletta dell’aereo. Si addormentò appena in quota pensando al paradiso che l’attendeva già dall’indomani.

Nell’oasi di pace che aveva scelto, avrebbe potuto finalmente essere sé stessa.

La maschere che aveva indossato fino a quel momento erano rimaste chiuse nel suo appartamento anonimo in via dei Frassini n 53! Quando l’affitto fosse scaduto di li ad un anno e si fossero decisi a entrare in quella casa, per recuperarne il possesso, avrebbero trovato solo qualche parrucca abbandonata nell’armadio e nulla di nulla che potesse portare chicchessia sulle sue tracce.

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Autore: lamatitaperscrivereilcielo

Lamatitaperscrivereilcielo è un progetto di scrittura, legata all'anima delle persone che condividono un percorso di scoperta, di osservazione e di ricordo. Questo blog intende raccontare quanto non è facilmente visibile che abbia una relazione con l'Umanità nelle sue varie espressioni

7 pensieri riguardo “Maschere”

  1. All’inizio immaginavo un “dopo” piccante, poi, una curva a gomito ha cambiato il mio pensare….un racconto delizioso ed anche qcosa di più

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  2. Grazie.Un tuo giudizio positivo lo apprezzo veramente moltissimo. Grazie Rossella che appassioni con i giochi di parole e la ricchezza avvolgente delle tue storie o..delle tue poesie !!

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  3. In realtà Ross anche io all’inizio ero incerta sul volgere al “piccante” …poi ho svoltato sul giallo … bisogna studi bene tutte e 50 le sfumature di rosso,grigio e nero..forse in una riscrittura successiva a quelle letture potrebbe anche volgere al piccante anzi piccantissimo tendente al bondage ….!!!

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