Opaco – di Rossella Gallori

Opaco
come un sogno
che non seppi interpretare
trasparente
come un sentimento che non volli abbracciare
Occhi di cristallo cieco
i miei
Mani di vetro tagliente
le tue
Sanguinai
gocce
di nero opale
Opaco – di Rossella Gallori

Opaco
come un sogno
che non seppi interpretare
trasparente
come un sentimento che non volli abbracciare
Occhi di cristallo cieco
i miei
Mani di vetro tagliente
le tue
Sanguinai
gocce
di nero opale
La bimba, la luna…noi – di Rossella Gallori

Si presero per mano …no, lui prese per mano lei e lentamente si avviarono verso la piazza, non doveva sembrare una fuga, anche se a tutti gli effetti…lo era.
A pochi metri da casa avevano un appuntamento, quasi notte, sicuramente buio…panchine di pietra vuote, una piazza tonda vuota a quell’ora, un traffico modesto…una latteria gelatosa abbassava il bandone, un grande occhio di metallo salutava il loro passaggio era quello il segnale… ecco si ,
ora potevano iniziare a cantare, lui con la sua voce, lei con gli occhi…non aveva il coraggio di interrompere quel sogno, quelle parole: tu che mi sorridi verde luna,dille che io l’amo più di prima….
Poi si sedevano per terra con il capo poggiato a quel duro cuscino , mai stata così ospitale una panchina di pietra, lo sguardo in su, verso la palla d’argento” hai visto la tua luna? Ti somiglia è tonda lucida, silenziosa e buona”
Continuava a cantare, lui, un po’ Fred Buscaglione, un po’ tenore mancato: guarda che luna, guarda che mare…io questa notte senza te…
E lei, li, immobile e credulona, fiduciosa, che luna e canzoni fossero state create, solo per lei, e sicura che nessuno avrebbe smentito quel suo credo inverosimile…si, ne era certa, era bella e luminosa come la luna, forse anche di più, Lui, lo aveva detto e doveva essere così….
Terminava, la piccola fuga, c’ era il rientro , certo ed inatteso…come fermare quell’incanto…cosa chiedere ancora alla vita?
Come per magia quella voce tabaccosa riprese l’ incanto , stringendole la mano: la luna rossa,me parle e te….
C’era, in quel loro amarsi un’alchimia indistruttibile, nessuno provò mai a distruggere infondo la bimba era un doppio pianeta e suo padre….suo padre …Dio.
Il bambino trasparente – di Carmela De Pilla

C’era una volta un bambino che viveva con la sua famiglia in un antico mulino adagiato sulla riva di un torrente.
La prima cosa che faceva ancor prima di andare a scuola era correre verso il ruscello e sedersi sulla schiena del grande orso.
Lo aveva chiamato così quel masso enorme che si spingeva con forza verso l’acqua limpida, si arrampicava sul dorso panciuto fino a toccare le due fessure con cui l’amico guardava lo scrosciare del torrente, poi raggiungeva con un po’ di fatica quel foro sull’estremità dove ogni mattina inseriva uno spicchio della sua mela.
L’aria era pungente a quell’ora e gli piaceva sentirsi accarezzare il viso con le sue ali fresche, s’incantava nel veder scorrere l’acqua trasparente che si riversava con fragore laddove si creava una cascata o si placava in piano.
Ecco, lì c’è un sasso più grande e allora gioca…gioca a rincorrersi intonando ogni volta una canzone nuova oppure si ferma, si ferma per riposarsi dal lungo viaggio in una piccola insenatura dove centinaia di occhietti neri col codino guizzano freneticamente sapendo che presto avrebbero rallegrato con il loro canto la piccola valle.
Olmo non sarebbe andato via per nessun motivo pur di ascoltare quella dolce melodia.
Nel freddo silenzio il piccolo fiume gli raccontava ogni giorno una delle mille storie che aveva imparato lungo il suo cammino.
Non riusciva a capire come facesse la mamma a scoprirlo, eppure si muoveva con prudenza per non farsi vedere.
Accadevano cose a lui incomprensibili, ogni giorno si sentiva dire dagli altri ciò che nascondeva e custodiva con gelosia nella sua mente…
Devo essere trasparente, pensò un giorno preoccupato per ciò che accadeva, sì, trasparente proprio come l’acqua del torrente!
Non so come, ma riescono sempre a vedere i miei pensieri proprio come io vedo i sassi tondi e lisci nascosti sotto l’acqua. No, non voglio essere trasparente!
Il tempo scorreva e si avviava verso quella stagione in cui le giornate più lunghe e il tepore dell’aria aiutano la natura a rinascere, complice il sole Olmo si avviò verso la lingua argentata.
Poco distante dal grande orso vide Luigino che stava pescando con la sua canna nuova di zecca.
Non gli stava molto simpatico Luigino, si credeva chissà chi solo perché aveva sempre qualcosa che lui non avrebbe mai avuto.
Da quel giorno Olmo camminava avvolto nel grande cappotto di sua sorella, lo metteva anche in casa per nascondersi sempre di più alla vista degli altri.
Dopo qualche giorno la mamma cominciò a preoccuparsi, non l’aveva mai visto così triste e poi con quel pastrano addosso sembrava la sua ombra!
In un tiepido pomeriggio la mamma lo invitò a fare merenda laddove l’acqua scorre imperturbabile e si sedettero sulla schiena del grande orso.
Olmo sparì del tutto dentro il grande cappotto e incominciò a piangere, prima trattenendo i singhiozzi, poi si lasciò andare in un pianto dirotto
La mamma lo abbracciò, lo baciò sulla guancia bagnata e nel caldo silenzio lo cullò al suono della musica che l’acqua spandeva nell’aria.
parole non bastano per dire ciò che si prova dentro l’anima e allora…e allora gli occhi raccontano. Ecco, tutto qui, promettimi che non ti nasconderai mai più, lascia che gli altri vedano sempre chi sei veramente, chi c’è dentro di te.
Olmo si tolse il cappotto, aveva capito, cercò la mano della mamma e si avviarono verso casa
La coltre pesante – di M.Laura Tripodi

All’inizio era una coperta di quelle antiche, di lana scura, tessuta da mani sapienti.
Non traspariva un filo di luce.
C’era buio e silenzio. Poco ossigeno. Nessuna finestra.
La coperta sembrava che camminasse verso di lei, come una parete inesorabile che le avrebbe tolto la capacità di respirare la poca aria che rimaneva. Ma non voleva arrendersi: l’unica possibilità che aveva era aggredire l’ostacolo. Era una guerra quasi persa in partenza.
Quasi
Non aveva strumenti, ma cominciò a toccare i bordi con le mani fino a che non trovò un filo. Lo tirò con forza, ma non successe nulla. Allora si aggrappò con le unghie a quella trama spessa, ma le unghie si spezzarono e i polpastrelli si insanguinarono.
A quel punto, stranamente, ritrovò la calma.
Nel suo tentativo spasmodico di distruggere la coperta un minuscolo angolino di tessuto si era staccato, come se ci fossero migliaia di strati da poter rimuovere.
Le mani erano insanguinate e le lacrime scendevano a fiumi, ma tanto era buio.
Con pazienza, cercando di respirare piano per non esaurire il poco ossigeno che rimaneva, venne via il primo strato.
Era leggerissimo e questo le diede la misura del lavoro che l’aspettava.
Però dopo qualche tempo cominciò a filtrare un filo di luce e si accorse che insieme alla luce passava anche un minimo d’aria. Strato dopo strato, anno dopo anno, dolore dopo dolore.
Si cominciava a vedere qualcosa, ma non era al di là della coperta.
Era come se le immagini che vedeva tornassero indietro raccontando un’altra storia.
Ricominciò a respirare regolarmente e i polpastrelli guarirono.
La coperta non era più così pericolosa. Poteva guardarla tranquillamente e piano piano sarebbe arrivata a farla diventare un velo trasparente.
Il buio si era dissipato e aveva lasciato posto alla consapevolezza.
Di quello che era stata e non avrebbe voluto essere. Di quello che era stata e non aveva potuto essere.
Forse non ci sarebbe mai stato un ultimo velo da rimuovere, o forse non ne avrebbe avuto il tempo.
Ma la durezza di quella coltre antica le sarebbe sempre rimasta dentro il cuore.
Le Maschere della vita – di Nadia Peruzzi

Lo specchio, nella luce della sera, le rimandava una immagine sfocata di sé. Non aveva voglia di altra luce.
Quelle ombre che si rincorrevano sul suo volto in quel momento, altro non erano che il suo stato d’animo.
Sapeva che per uscire doveva indossare una delle sue maschere, non sapeva quale in verità e doveva decidere in fretta.
Femme fatale, ragazza sbarazzina e senza pensieri, eterna romantica, oca giuliva disposta ad assecondare con non chalance ogni battuta, ogni castroneria ogni spudoratezza del partner di turno.
Decise per l’ultima, l’oca, che in fondo le offriva una bella dose di copertura. Da quel ruolo mal considerato, anzi proprio disprezzato e dileggiato dagli altri poteva studiare meglio chi le ruotava intorno e fare meglio ciò che aveva in mente per quella sera.
Il mega party a cui avrebbe partecipato poteva essere la più grande occasione della sua vita e non voleva sciuparla in nessun modo. Un ultimo sguardo al sorrisetto accattivante che era una delle sue specialità e poi via a scegliersi l’abito per quella sera.
Optò per il vestitino nero che la fasciava nei punti giusti, e per la parrucca bionda a caschetto quella con la frangia che le arrivava fin quasi sugli occhi. Anche senza l’ulteriore controllo davanti allo specchio sapeva che era quella che ci voleva per dare il tocco finale al personaggio che aveva deciso di interpretare quella sera.
Il campanello suonò facendola sobbalzare. Era un fascio di nervi. Doveva controllarsi il più possibile.Trasse un profondo respiro e scese lentamente le scale di casa. Le piaceva farsi aspettare per ciò non prese l’ascensore, ad ogni passo assaporava ogni momento di ciò che immaginava sarebbe successo poche ore dopo!
La macchina nera coi vetri oscurati occupava quasi tutta la strada. L’autista era il solito armadio tutto muscoli che già altre volte era venuto a prenderla.
Attraverso la porta semiaperta riuscì a scorgere l’accompagnatore di quella sera.
Oltre i 70, ben portati, fasciato in un Armani che valeva un occhio, gemelli d’oro con mega diamante ai polsini.
Lo guardò simulando l’ammirazione che di solito tipi così pensano di meritare, e sfoggiando il più irresistibile dei suoi sorrisi.
Scambiarono poche parole in macchina. Entrambi sapevano che non c’era molto da dire in quei casi. A quel party dovevano presentarsi insieme.
Per lei un lavoro, per lui un obbligo sociale a cui doveva presenziare con a fianco una presenza femminile.
In quel modo e in quel mondo si possono fare ottimi affari, stringere amicizie utili, elargire favori di cui chiedere il conto anche a distanza di tempo. Un party come gran terreno di gioco in cui ogni pezzo di quella superclasse sa di svolgere un ruolo in commedia da cui trarre il massimo vantaggio possibile.
La villa che li attendeva era su una collina. Immensa e sfavillante di luci come ci si attendeva in occasioni come quella.
La fila di macchine in attesa di scaricare il bel mondo era incredibilmente lunga. Gli uomini in livrea rossa che aprivano gli sportelli e indicavano il percorso da seguire erano efficienti e non dovettero aspettare molto.
Il salone che li accolse era da mille e una notte.
L’uomo che era al suo fianco, lo capì allora, era il centro vero di quella serata. Al loro arrivo il brusio si arrestò. Fu un attimo. Riprese più forte insieme al gran movimento verso di loro per gli omaggi del caso.
Mani che si tendevano, inchini, grandi sorrisi per lo più insinceri, talora intimoriti.
Fra le signore qualche gridolino, cenni del capo ammiccanti, sguardi diretti di chi voleva farsi avanti per essere la prescelta in un’altra occasione.
Si accorse ben presto, Miriam, che il suo ruolo era pressoché esaurito. Doveva far colpo all’inizio e poi eclissarsi. La serata non prevedeva un dopo.
L’attenzione di tutti era catalizzata da quel signore che doveva essere una vera potenza per ricchezza e capacità di veicolare affari.
Si avvicinò al buffet, per mangiucchiare qualcosa.
Malgrado avesse adocchiato uno champagne da favola decise di evitare di berne anche un solo sorso, perché doveva mantenersi lucidissima per non sbagliare nulla e non mandare in malora il piano che aveva messo a punto da qualche tempo.
Sapeva dove era la cassaforte dalla volta precedente, quando aveva accompagnato un altro riccastro in quella casa.
L’idea le era venuta allora. Per caso una porta socchiusa le aveva permesso di vedere quanto le serviva per decidere di entrare in azione.
Senza nessuna fantasia (ma i ricchi ne hanno, si disse?), a nascondere il ben di dio in cui avrebbe messo le mani quella sera era il quadro di un trisavolo brutto come il peccato.
Il congegno della cassaforte non era dei più complicati. Ne aveva visti e aperti di peggiori.
Bighellonò per un po’ fra i vari gruppi disposti nel gran salone. Dispensò sorrisi a destra e a manca .Il ruolo di oca le garantiva una libertà di movimento che la stupiva ogni volta.
La stellina senza cervello non destava preoccupazioni e quindi poteva muoversi agevolmente senza farsi notare più di tanto.
L’ultimo gruppo di signore con la quali si intrattenne fingendo interesse per le insulsaggini che erano unica cifra dei loro discorsi, era quello più vicino alla porta della stanza che le interessava.
Non le fu difficile entrare senza che nessuno la vedesse. In un attimo fu al quadro. Recuperò dalla calza autoreggente il micro apparecchio che le serviva per individuare il codice di accesso e lo applicò alla cassaforte.
Sentì il clic della combinazione che disattivava il blocco dopo pochi secondi.
Decise di trascurare tutto ad eccezione dei diamanti.
Ne avevano parlato in un annuncio di poche righe in una pagina del giornale locale dedicata alle aste di pietre preziose.
Quella che aveva attratto al sua attenzione si sarebbe tenuta qualche giorno dopo quel party in villa e la cassaforte li avrebbe dovuti custodire fino ad allora.
Erano veramente tanti. Alcuni di grosso calibro. Si perse un attimo abbagliata dalla luce incredibile che emanavano, mentre pensava fuggevolmente a quanto avrebbe potuto ricavarne vendendoli poco per volta.
Il sacchettino di velluto nero che li conteneva era l’ideale. Nascosto nell’elastico delle autoreggenti al posto del piccolo chip che non le serviva più, sarebbe arrivato a destinazione senza alcun rischio.
Rimise tutto a posto. Il chip lo nascose dietro ad uno dei libri della libreria accanto alla cassaforte e rientrò in sala. C’era riuscita in un tempo invidiabile.
Il gruppo delle signore era ancora a cianciare al solito posto. Lei potè in tutta tranquillità di nuovo iniziare il balletto fra un gruppo e l’altro per tornare un’altra volta al tavolone del buffet da cui si era mossa non più di una mezz’ora prima.
Si concesse allora tartine al caviale e un calice di quel prestigioso champagne a cui in precedenza aveva scelto di rinunciare.
Era stata veramente brava e poteva festeggiare.
Il suo accompagnatore era ancora alle prese col codazzo dei suoi ammiratori interessati, fra cui potevano scorgersi pure avventurieri di varie risme.
Si sedette su un sofà in disparte in attesa che lui si decidesse a rientrare al suo hotel riportandola a casa.
Ci volle tutto sommato poco tempo.
Poi, come all’arrivo, gran sorrisi, strette di mano, sguardi di intesa per affari già messi in ponte o destinati a chiudersi di li a poco.
Finalmente fuori. Il tragitto abbastanza breve, come all’andata.
L’autista le aprì la portiera porgendole la busta col pattuito. Un cenno di saluto al vecchio signore e poi via in ascensore fino a casa.
La valigia era già sul letto. Il biglietto aereo nella tracolla che usava come portafortuna nei suoi viaggi. Velocemente tolse il tubino nero e le scarpe con i tacchi. Indossò una maglietta e un paio di jeans.
Mise le scarpe più comode che aveva. Inserì il sacchettino con i diamanti nel tacco vuoto di una di esse, e in un attimo fu nuovamente in strada ad attendere il taxi per l’aeroporto.
Il taxista che prese i bagagli si trovò davanti una brunetta con l’aria sbarazzina e grandi occhiali da miope. La trovò carina con quella massa di riccioli, anche se tutto sommato non avrebbe saputo riconoscerla in un’altra occasione. Era tutto meno che fisionomista malgrado il lavoro che faceva, o forse proprio per quello visto che di persone ne trasportava e ne incontrava fin troppe.
Arrivare all’aeroporto fu veloce. In quella notte stellata di traffico non ce n’era.
L’adrenalina era a mille mentre Miriam saliva la scaletta dell’aereo. Si addormentò appena in quota pensando al paradiso che l’attendeva già dall’indomani.
Nell’oasi di pace che aveva scelto, avrebbe potuto finalmente essere sé stessa.
La maschere che aveva indossato fino a quel momento erano rimaste chiuse nel suo appartamento anonimo in via dei Frassini n 53! Quando l’affitto fosse scaduto di li ad un anno e si fossero decisi a entrare in quella casa, per recuperarne il possesso, avrebbero trovato solo qualche parrucca abbandonata nell’armadio e nulla di nulla che potesse portare chicchessia sulle sue tracce.
Possiamo davvero essere trasparenti? – di Vanna Bigazzi

Come ci insegna Pirandello, per vivere in società, l’uomo si maschera, così la pensa anche C.G.Joung. Egli vede nella “maschera” che però chiama “persona,”l’aspetto che l’uomo assume nel rapporto col mondo. Al contrario l’”anima” è la mediatrice fra l’io e il mondo interiore. Chi si identifica completamente con la propria maschera, avrà poca anima, avrà sempre una scarsa consapevolezza della propria interiorità e di tutto ciò che va oltre il proprio ruolo sociale. Le rigidità che queste persone manifestano, nascondono quindi una fragilità, una non completezza. In un certo senso l’uomo è portato, per non dire costretto, a mentire, ma può arrivare a mentire anche a se stesso. In tal caso la sua vita interiore viene offuscata e si evidenziano invece “ aspetti ombra” cioè coperture. In tal caso, se veniamo accusati o “presi di mira”come si suol dire, in modo irruento, molto probabilmente la persona che aggredisce sta trasferendo su di noi tematiche proprie che non sa risolvere,che non riconosce come personali, cioè gli “aspetti ombra”che non arrivano a coscienza. Questo è un grosso sbarramento alla “trasparenza.”Fino a che punto possiamo permetterci di essere trasparenti, almeno con noi stessi? Credo che solo dopo aver analizzato ed accolto in noi questi aspetti oscuri, possiamo trasformare questa energia, apparentemente negativa, in energia costruttiva, poiché questi aspetti considerati negativi, sono in realtà, aspetti primordiali, istintuali, fanciulli. La trasparenza è un aspetto genuino. Quante volte sentiamo dire:”Mi hai detto una cosa spiacevole, ma almeno sei stato sincero.”Ecco,questo vuol dire che c’è stata trasparenza, anche se ci ha fatto dispiacere.I bambini dicono quello che pensano,sono veri e noi comprendiamo il loro essere selvaggi, perché sono bambini. Se fossimo meno condizionati dalle rigidità sociali, dai sensi di colpa più o meno giustificabili, probabilmente saremmo più allenati alla verità e meno esposti al dolore del “Tradimento”. Tradimento, altra parola importante; è una prerogativa dei non ingenui. Spesso viene “studiato a tavolino.” Certo è che quando questo arriva da parte di una persona che consideriamo amica, alla quale hai aperto completamente te stesso, magari attraverso gli anni, il colpo che ne riceviamo è fortissimo, a volte tale da non poterci più risollevare. Come dice Cecilia, ci troviamo difronte alla frase:”Non me l’aspettavo.”Da non molto ho ricevuto un dispiacere da parte di un’amica, amica da quando eravamo ragazzine. Ci siamo sempre sostenute e raccontate, in totale sintonia, quasi sempre. Forse tutto questo andare d’accordo, questa, oserei dire, fusione, avrebbero dovuto darmi da pensare. Invece no, sono rimasta accecata da questo scambio così bello, duraturo e totale. Non è molto che mi sono sentita dire:”Scusa, ma non posso più venire da te, né riceverti, ho troppi impegni importanti da rispettare, non possiamo più neanche telefonarci”. Ovviamente mi sono interrogata se avessi commesso qualche sgarbo, ma non mi risultava. Ho anche pensato ad un momento di sua non totale lucidità: il tempo passa e la nostra psiche può subire delle rivoluzioni… Comunque il mio atteggiamento nei suoi confronti non è mutato. Non la chiamo più e se lei, rarissimamente, mi chiama, rispondo volentieri con la stessa accoglienza di un tempo.Spesso penso che non sia stata trasparente con me, o che lo sia diventata ma come fanno i bambini dopo un litigio, sono tornata a sorriderle, l’unica volta che ci siamo riviste, per Natale,senza chiedere spiegazioni. Penso che questo significhi amicizia. I bambini sono veri amici, nel bene e nel male. Anche la “sorpresa” è una caratteristica infantile molto piacevole, possiamo rimanere stupiti anche da avvenimenti positivi, da cose che non ci aspettavamo e in queste circostanze torniamo proprio fanciulli e respiriamo gioia e meraviglia.Nel bambino c’è tutto, candore e crudeltà,come nel nostro profondo. L’amicizia è protetta da un atteggiamento fanciullo. Alla crudeltà di questa mia amica, ancora spero, apparente, ho cercato di rispondere con il candore. Penso che nel futuro questo dia buoni frutti e che comunque il nostro rapporto, nato da radici genuine, si risolva positivamente poiché salvaguardato da modalità infantile.
Colonna sonora che cambia verso – di Gabriella Crisafulli

Dove sono quegli ingorghi stradali a cui gli autisti non sanno resistere se non suonando il clacson?
Dove sono le lunghe file di automobili che aspettano, a motore acceso, che venga ultimata una manovra di parcheggio?
Dove sono le portiere che sbattono e le voci di chi scende e di chi sale?
Dove sono i suoni infastiditi nei confronti di chi è fermo in doppia fila?
Dove sono i lavoratori della casa accanto che trapano, martellano, raschiano, fresano a più non posso da tre mesi?
Dove sono quelle belle frenate all’ultimo momento con stridio di pneumatici, mentre motorini a tutto gas svincolato rombando?
Dov’è la scampanellata impaziente delle nipoti che aspettano che io apra la porta?
E le loro voci che si sovrammettono, s’azzuffano, protestano … per avere spazio?
Dove sono le chiacchiere in tutte le lingue che sfilano sotto la mia finestra?
E il suono delle ruote di passeggini, pattini, biciclettine?
E il via vai di chi va a scuola e di chi torna?
E il rombare degli autobus che transitano accompagnati dallo scandire computerizzato dei nomi delle fermate?
E le risa dei ragazzi che si chiamano, scherzano, si rincorrono talvolta lanciandosi dietro le cartelle?
E il rotolare dei trolley su e giù dall’albergo?
Niente.
Spariti.
Anzi no, tramutati: sono andati nei giardini dietro alle case.
Voci che si parlano da balcone a balcone.
Tosaerba a tutta randa.
Colpi secchi di zappe, vanghe, pennati, forbici, … rinforzati dalla caduta di rami.
Il ronzio continuo della sega elettrica.
Il tonfo dei pugni con i guantoni da boxe del vicino al sacco e il “toc” delle frecce lanciate con l’arco che colpiscono il bersaglio.
La colonna sonora ha cambiato verso.
Il cambiamento che non c’è – di Chiara Bonechi

Stamani ho aperto la finestra della cucina, era presto e ancora si intravedeva nel cielo uno spicchio di luna, quasi trasparente.
Mi sono appoggiata al davanzale con le braccia che reggevano il mio viso piegato all’insù, cercavo, ancora un po’ assonnata, di rilassarmi guardando fuori.
Quella luna dai toni pallidi in un cielo senza colore che solo in lontananza si stava colorando della luce del giorno, mi metteva un senso di tranquillità ed ho dimenticato che anche oggi sarebbe stato diverso.
Respiro profondamente, ho voglia del caffè ma prima di staccarmi dal davanzale lo vedo: qualcosa di bianco, screziato di un pallido rosa, tinge il tronco scuro del susino nel campo di fronte. Osservo meglio ed ho la certezza che sta fiorendo, quasi non ci speravo, quest’anno era in ritardo, credevo fosse seccato.
In questo tempo segnato dal virus, dove la parola cambiamento si associa spesso alla fatica di adattarsi ad un nuovo vivere, quel fiore che si è schiuso sul ramo del susino è segno di un cambiamento che non c’è perché il ciclo delle stagioni non si ferma per il virus, dopo l’inverno arriva sempre la primavera e io amo la primavera.
Io quando ero grande – di M.Laura Tripodi

Io…io…io…
Alzava le piccole spalle inspirando quanta più aria poteva, fra un io e l’altro, concentratissimo a cercare parole per il suo racconto.
Gli occhioni azzurri di Lorenzo guardavano fisso davanti a sé, come frugando l’aria, come se le parole avessero potuto comparire come d’incanto. Poco importa se ancora non sapeva leggere.
Poi, con un’inspirazione più profonda delle altre ha esordito: io, quando ero grande…… e poi la narrazione di un sogno raccapezzato nell’innocenza dei suoi quattro anni.
Mi commuovo sempre quando ci ripenso.
Io quando ero grande avevo un nomignolo: Mariuccia. Qualche volta Mariuccina.
Mi ci sono voluti tanti anni per prendere consapevolezza di quanto quel nome mi suonasse dispregiativo, Mariuccia, come cosuccia, come robuccia, come bambinuccia. Mariuccina, oltre che dispregiativo mi metteva di fronte al fatto che io ero la più piccola di tutti. Non solo dei miei fratelli, ma anche dopo, a scuola, quando nella fila indiana ero sempre in cima e, in tutta la mia carriera scolastica, anche se breve, non sono mai riuscita ad occupare un secondo banco.
Eppure Mariuccia era un vezzeggiativo e Mariuccina era un rafforzativo del vezzeggiativo. Nell’intenzione di chi lo pronunciava.
Ma io, quando ero grande, avrei voluto che mi chiamassero con il mio vero nome.
Anzi, avrei voluto che mi chiamassero.
Punto.
Questa era la mia percezione di quando ero grande. Di piccolo c’era la mia età anagrafica, tangibile, e la mia piccola statura, tangibile anch’essa, ma mancava la piccolezza che spetta di diritto all’infanzia.
Io, quando ero grande, non mi rendevo conto di quello che avevo dentro perché mancava il tempo, non c’era modo, non esisteva il diritto alla fantasia. La maggior parte delle famiglie aveva altro a cui pensare e probabilmente ero in ottima compagnia. Ma io, questo, non potevo saperlo.
Adesso che sono piccola ho scoperto che posso fare un sacco di cose. Di alcune sono capace, di altre meno, ma non mi manca mai la voglia di vivere, di sperimentare, di guardare lontano, anche se la strada già fatta è molta di più di quella ancora da fare.
Perché c’è un modo di essere piccoli anche quando si è adulti. Molto più ricco del sentirsi grandi quando si è bambini.