Le baracche – di Gabriella Crisafulli

Era il 1959.
Il mio papà era stato trasferito a Firenze.
C’era da fare il trasloco.
I miei genitori decisero di affidare per qualche tempo mia sorella e me a parenti: Silvana andò a Vercelli, io in Calabria.
La tratta Varese Crotone fu per me la scoperta del mondo.
Innanzitutto, quando arrivammo a Roma, prima di fermarci alla stazione Termini, il treno rallentò, camminò a passo d’uomo e vedemmo sfilare davanti ai nostri occhi la bidonville che circondava la capitale. Una lunga sequela di case provvisorie e precarie fatte di pochi mattoni, qualche lamiera e molti materiali di risulta.
In questa baraccopoli si aggiravano una moltitudine malvestita, animali da cortile e non, oltre che bambini che correvano e si azzuffavano sollevando nugoli di polvere.
Una lunga serie di baracche mi passava davanti agli occhi come in un film e mi sembrava che non finisse mai.
Appena arrivati cambiammo treno.
Sulla carrozza per Crotone papà mi affidò ad una signora, rigorosamente in nero, e se ne tornò a Varese.
Così cominciò la seconda tappa.
Arrivati a Santa Eufemia sostammo a lungo.
Il vagone nel quale mi trovavo venne sganciato e, mentre il resto del convoglio proseguiva per Reggio Calabria, la mia carrozza venne agganciata alla locomotiva che andava in direzione dello Jonio.
La particolarità stava nel fatto che viaggiava a carbone.
E quei chilometri infiniti, da accelerato, si dipanarono nel vapore sporco di fuliggine, nell’azzurro terso di un cielo del sud, nel verde intenso di una vegetazione lussureggiante, nel grigio di rocce aspre, nell’indaco di un mare immenso, mentre il gigante nero fischiava a ripetizione.
Finalmente Crotone.
La zia venne a prendermi alla stazione.
Arrivammo nella sua bella casa a due piani affacciata sul lungomare: sul retro c’era anche un grande giardino con le aiuole piene di fiori.
Il giorno dopo, di primo mattino, feci il bagno con i cugini in un’acqua color cobalto.
Sergio si tuffava dove c’erano gli scogli: ci portava i ricci che la zia apriva e noi succhiavamo golosi.
Il pomeriggio, passeggiata verso il centro della città.
E lì, proprio a ridosso di quelle belle villette a schiera, un’altra baraccopoli del tutto simile a quella di Roma.
I bambini più piccoli si aggiravano con poco più che una camiciolina da cui emergevano dei ventri prominenti.
Le donne lavavano in tinozze di zinco e cucinavano su precari fornelli all’aperto.
I ragazzini giocavano fra le viuzze che separavano le abitazioni dove scorrevano i rigagnoli puzzolenti degli scarichi, decorati da qualche escremento.
All’interno delle case pochi poveri mobili: in qualcuna il televisore.
In casa mia non era ancora entrato.
Era il 1959 e ho visto la miseria.
Anche io nel ’60 ho vissuto per in anno a Potenza,ho frequentato la seconda media ed ho visto compagni svenire in classe perché non mangiavano da due giorni.
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La fame è già uno strazio ma nei bambini è uno strazio ancora più grande, inaccettabile.
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la povertà lo vista,la fame no,ma il desiderio di alcuni alimenti si ,e per questo sto attenta a non sprecare il cibo,
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Penso che la povertà, quando non è troppo cruda, ci dia il modo di superarla e di renderci migliori
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