Trasparenza

Il bambino trasparente – di Luca di Volo

Tutti ci ricordiamo che, da piccoli, venivamo continuamente ammoniti a non dire bugie, a dire sempre la verità, insomma da comportarci in maniera onesta e “trasparente”. Le giustificazioni di questi continui ammonimenti erano molteplici: perché se no si andava all’inferno col dito acceso (questa non l’ho mai capita), perché la sincerità era buona . . insomma tutto l’armamentario dei buoni insegnamenti.

Salvo poi ad accorgersi con profondo disagio che i “grandi”, anche quelli che ci erano cari, le bugie le dicevano, eccome. . e anche grosse. E allora? Risposta: ”Eh, ci sono bugie e bugie. . ci sono le bugie “pietose”, quelle a fin di bene…quelle educative. . dipende. . ”Già. . dipende. . da che cosa? A me da bambino non era chiaro per niente, e per la verità questa specie di morale “relativa” non mi convince neppure ora. . ma tant’è. . si dovette adattarsi

A qualcuno riuscì bene, ad altri meno. . , a pochi non riuscì affatto. Io ero uno di questi. L’ammaestramento infatti era: dissimulare, parlare poco, tacere …e non mi è mai riuscito.

Il difetto mi è rimasto, temperato da un po’ di saggezza e di esperienza, ma non è sparito del tutto.

Avevo il vizio di dire sempre quel che pensavo, e (ahimè) quando dicevo qualche bugia ero così “trasparente” che mi si scopriva subito. Fin da subito ho scoperto che le bugie sono faticose e la verità è la via più facile. . se non altro per pigrizia mentale.

Però , ORA, mi piacerebbe vedere , appunto, in trasparenza, che ne è stato del “bambino che fui”, dove sono andate a finire tutte le immagini di quella specie di caleidoscopio che frullava nella mia testa al tempo dell’infanzia.

Io credo che tutti noi siamo un po’ come una specie di prisma, un prisma che sparpaglia nelle mille sfumature dell’iride, una luce che, all’origine, è bianca e purissima. Nello spettro dei colori c’è il rosso della passione, il verde della tenerezza, il nero della depressione.. . e così via. .

Ognuno riflette un suo spettro particolare, più rosso uno, più verde un altro.. .

Ma all’origine la luce è sempre “bianca”.

Domanda: è possibile risalire dallo spettro personale di ognuno di noi, alla luce “originale”? Cioè quella che sicuramente eravamo da bambini?

Secondo le leggi della fisica no, non si può “invertire” la luce. Ma ci sono altre risposte, per fortuna. Vie difficili, impervie, ma praticabili.

Poi ci sono quelli che non hanno un colore dominante, o, meglio, i colori li hanno tutti, ma nessuno prevale.

Forse io ero uno di quelli. Provo a vivisezionarmi.

Chi ero veramente , tra lo scienziato. . l’archeologo, il musicista. . e chissà quant’altro?

Lo scienziato: ci sono andato vicino, l’ingegneria è considerata la parente povera della scienza . . non è vero, ma così pensano tutti, a cominciare dagli scienziati.

Il musicista. anche qui mi ci sono avvicinato, quattro anni di studio per strimpellare un po’ la chitarra con gli amici. Poca roba.

L’archeologo ,   o l’umanista: qui mi sono impegnato di più. . mi sono preso quasi una seconda laurea, ma non sono un umanista. Mi sarebbe piaciuto, ma non lo sono diventato.

E allora, cosa diavolo sono diventato? Che definizione si può dare  a quel caleidoscopio che ero?

Non lo so. L’unico aggettivo che un po’ si approssima è:  ”curioso”. Di tutto, dispersivo, eppure insaziabile. Gli scienziati arrivano a “sapere tutto su niente” e gli umanisti a “non sapere niente su tutto”. Io sono una via di mezzo.

E questo mi consola delle corbellature che ho preso per quel gioco di iniziali che ho detto. Già il mio infinitamente più illustre quasi-omonimo, anche lui era un indomito curioso. Indagava su tutto. . oddio, forse non sulle donne, ma non si sa, invece probabilmente lo interessavano parecchio.

Ah, dimenticavo il mio rapporto con le donne. Un argomento che a molti può apparire scabroso, ma per me non lo è affatto.

Da quando, quasi di sorpresa, mi sono comparse davanti, è stato un contatto molto leale. . già, tra la mia incapacità di dissimulare e la loro stregonesca capacità di vedere sempre “oltre”, si mettevano subito giù le carte in tavola, come al poker, ma al contrario: o bene bene, o (ahimè) male male. .

Quasi mai vie di mezzo.

Eppure so di essere un sentimentale.. . quasi un mistico…o questa da dove viene fuori?

Bisognerà indagare più a fondo.

Però ho anche scoperto che l’universo femminile è molto più vasto della semplice capacità di vedere “oltre”. Una “nuova” razionalità, solo diversa, non meno forte di quella maschile. Porta a sentieri sconosciuti, sotto un cielo straniero ma stranamente familiare, più bello di quello del Nord (maschile).

Un cielo che per un curioso come me è irresistibile.

Terzo incontro virtuale: trasparenza

Terzo incontro virtuale.

Grazie ragazze e ragazzi!!! Siete stati grandi!

Vi aspetto con altre magiche pagine sul vostro Io Bambino. Intanto aggiungo un’altra parola: TRASPARENZA.

In questi giorni di MASCHERINE dietro cui ci dobbiamo proteggere fisicamente diventa insostenibile reggere le MASCHERE dietro cui abbiamo nascosto le nostre vere personalità, i nostri veri sentimenti, le nostre sfumature di carattere, i nostri affetti più sinceri.

Siamo diventati trasparenti?

Quali sono le cose che decidiamo di poter urlare al mondo?

Cosa vogliamo dire a qualche amico che non abbiamo mai detto?

Cosa vorremmo che ci chiedessero, al di là delle frasi fatte?

Quante volte in questi giorni, o nella vita precedente, abbiamo detto:

Non me l’aspettavo!

Frase che ci costringe, come uno schiaffo in piena faccia, a rivedere tutto quello che ci sembrava dovuto, scontato, ovvio…..

Per aiutarci a pensare ascoltiamo una canzone con un testo che trovo bellissimo:

SINCERO:

Testo

Le buone intenzioni, l’educazione
La tua foto profilo, buongiorno e buonasera
E la gratitudine, le circostanze
Bevi se vuoi ma fallo responsabilmente
Rimetti in ordine tutte le cose
Lavati i denti e non provare invidia
Non lamentarti che c’è sempre peggio
Ricorda che devi fare benzina
Ma sono solo io
E mica lo sapevo
Volevo fare il cantante
Delle canzoni inglesi
Così nessuno capiva che dicevo
Vestirmi male e andare sempre in crisi
E invece faccio sorrisi ad ogni scemo
Sono sincero me l’hai chiesto tu
Ma non ti piace più
Scegli il vestito migliore per il matrimonio
Del tuo amico con gli occhi tristi
Vai in palestra a sudare la colpa
Chiedi un parere anonimo e alcolista
Trovati un bar che sarà la tua chiesa
Odia qualcuno per stare un po’ meglio
Odia qualcuno che sembra stia meglio
E un figlio di puttana chiamalo fratello
Ma sono solo io
Non so chi mi credevo
Volevo fare il cantante
Delle canzoni inglesi
Così nessuno capiva che dicevo
Vestirmi male e andare sempre in crisi
E invece faccio sorrisi ad ogni scemo
Sono sincero me l’hai chiesto tu
Ma non ti piace più
Abbassa la testa, lavora duro
Paga le tasse buono buono
Mangia bio nei piatti in piombo
Vivi al paese col passaporto
Ascolta la musica dei cantautori
Fatti un tatoo, esprimi opinioni
Anche se affoghi rispondi sempre
Tutto alla grande
Però di te m’importa veramente
Aldilà di queste stupide ambizioni
Il tuo colore preferito è il verde
Saremo vecchi indubbiamente ma forse meno soli
Volevo fare il cantante
Delle canzoni inglesi
Così nessuno capiva che dicevo
Essere alcolizzato spaccare i camerini
E invece batto il cinque come uno scemo
Sono sincero me l’hai chiesto tu
Sono sincero me l’hai chiesto tu
Ma non ti piace più
Ma non ti piace più
Ma non ti piace

I bambini che siamo stati: scintille più profonde

Le baracche – di Gabriella Crisafulli

Era il 1959.

Il mio papà era stato trasferito a Firenze.

C’era da fare il trasloco.

I miei genitori decisero di affidare per qualche tempo mia sorella e me a parenti: Silvana andò a Vercelli, io in Calabria.

La tratta Varese Crotone fu per me la scoperta del mondo.

Innanzitutto, quando arrivammo a Roma, prima di fermarci alla stazione Termini, il treno rallentò, camminò a passo d’uomo e vedemmo sfilare davanti ai nostri occhi la bidonville che circondava la capitale. Una lunga sequela di case provvisorie e precarie fatte di pochi mattoni, qualche lamiera e molti materiali di risulta. 

In questa baraccopoli si aggiravano una moltitudine malvestita, animali da cortile e non, oltre che bambini che correvano e si azzuffavano sollevando nugoli di polvere. 

Una lunga serie di baracche mi passava davanti agli occhi come in un film e mi sembrava che non finisse mai.

Appena arrivati cambiammo treno.

Sulla carrozza per Crotone papà mi affidò ad una signora, rigorosamente in nero, e se ne tornò  a Varese.

Così cominciò la seconda tappa.

Arrivati a Santa Eufemia sostammo a lungo. 

Il vagone nel quale mi trovavo venne sganciato e, mentre il resto del convoglio proseguiva per Reggio Calabria, la mia carrozza venne agganciata alla locomotiva che andava in direzione dello Jonio. 

La particolarità stava nel fatto che viaggiava a carbone.

E quei chilometri infiniti, da accelerato, si dipanarono nel vapore sporco di fuliggine, nell’azzurro terso di un cielo del sud, nel verde intenso di una vegetazione lussureggiante, nel grigio di rocce aspre, nell’indaco di un mare immenso, mentre il gigante nero fischiava a ripetizione.

Finalmente Crotone.

La zia venne a prendermi alla stazione.

Arrivammo nella sua bella casa a due piani affacciata sul lungomare: sul retro c’era anche un grande giardino con le aiuole piene di fiori.

Il giorno dopo, di primo mattino, feci il bagno con i cugini in un’acqua color cobalto.

Sergio si tuffava dove c’erano gli scogli: ci portava i ricci che la zia apriva e noi succhiavamo golosi.

Il pomeriggio, passeggiata verso il centro della città.

E lì, proprio a ridosso di quelle belle villette a schiera, un’altra baraccopoli del tutto simile a quella di Roma.

I bambini più piccoli si aggiravano con poco più che una camiciolina da cui emergevano dei ventri prominenti. 

Le donne lavavano in tinozze di zinco e cucinavano su precari fornelli all’aperto.

I ragazzini giocavano fra le viuzze che separavano le abitazioni dove scorrevano i rigagnoli puzzolenti degli scarichi, decorati da qualche escremento. 

All’interno delle case pochi poveri mobili: in qualcuna il televisore. 

In casa mia non era ancora entrato.

Era il 1959 e ho visto la miseria.

I bambini che siamo stati: scintille di tulle

Ricordi – di Patrizia Fusi

Ricordi della mia prima Comunione: in quel periodo la mia famiglia era in difficoltà economiche a causa della precaria salute del babbo, che dalla prigionia dopo la guerra era ritornato con una bronchite cronica.

 Facendo lui il muratore nella stagione invernale si ammalava per lunghi periodi e quindi anche la mamma lavorava in casa, aveva imparato a ricamare a telaio, ma i soldi scarseggiavano lo stesso.

La mamma ebbe in prestito da una conoscente il vestito per la mia comunione, si fece portare dalla merciaia una coroncina di roselline da mettermi in testa, dove applicò del tulle che lei mi sistemò, tutto molto semplice in confronto a come erano i vestiti di allora, le bambine sembravano piccole spose.

Il pranzo fu fatto in casa solo con la famiglia.

Percepivo con quanta difficoltà il babbo e la mamma vivevano questa situazione, quasi di vergogna per non potermi dare un vestito nuovo, per non potere fare il rinfresco con i parenti.

Sentivo la loro amarezza, ma la cosa che mi fece più male, fu quello che una mia amica mi disse. Si ebbe un litigio, non ricordo per cosa, lei con rabbia per ferirmi mi disse che il vestito con cui sarei passata a comunione non era il mio e mi era stato imprestato.

 Io  credevo fosse un segreto.

Ci rimasi tanto male, sentii dentro di me tutta l’amarezza dei miei genitori, mi rimase dentro tanta rabbia.

Del giorno della mia prima comunione non ricordo quasi niente solo la sera, di quando ci fecero tornare in chiesa.

Eravamo in fila indiana, davanti a me una bambina in una nuvola di tulle, io dietro con le mani giunte presi fra le dita il velo di questa innocente bambina e iniziai a rompere il velo fino a quando rimanemmo in fila, scaricai tutta la mia rabbia su quella nuvola di tulle.

Ricordo ancora bene il punto della chiesa dove ho fatto quella birbonata.


 

Facciamo i conti con il presente

Risveglio – di Patrizia Fusi

La prima luce della mattina filtra dalla tapparella della camera, sono nel caldo del letto, piccoli rumori mi svegliano, il leggero ronzio del bruciatore, lo strisciare del cassone del letto nell’appartamento sopra, una tapparella alzata con vigore, il parlare sommesso della coppia che sta sotto di me, un passo pesante che scende le scale, tutti questi rumori mi fanno compagnia.

La gattina non ha dormito con me stanotte, forse è perché in questo periodo mi giro tanto, lei non si sente sicura.

Scendo dal letto, la cerco nella sua cesta sotto il letto non c’è, passo nel corridoio, nella penombra la vedo nella sua casina, due faretti lucidi, ho avuto paura che ieri sera mi fosse scappata per le scale, lei quando vede la porta aperta esce volentieri, le piace stare lì, annusare gli odori di tutti.

 Nei periodi caldi si distende tutta sul marmo per godersi il fresco che c’è per le scale, o scende fino nell’ingresso e si mette a guardare dalle vetrate della porta, scappando velocemente all’arrivo delle persone, posizionandosi nelle scale a seconda di dove queste vanno. Questa volta è in casa.

Ritorno a letto, mi stampo sul viso un sorriso perché sento arrivarmi addosso la pesantezza del momento che viviamo, un piccolo salto e la gattina mi si posiziona sulla pancia vicino al viso, inizia a fare i mostaccini, si ferma, mi guarda, i suoi occhi sono lucidi, il pallino nero dell’occhio è grande, mi fissa, ci guardiamo, chissà cosa passa nella sua testolina, sentirà anche lei questo cambiamento, percepirà la mia tensione.

Sono troppo presente?

Gli mancano i ragazzi?

Gli manca le persone che frequentavano la casa?

Anche io sento la mancanza del quotidiano.

 Abbassa lo sguardo e mi appoggia il musino sul mento.

Mi alzo, mi segue, alla parete della camera c’ è appeso un poster dove c è scritto (la volontà del popolo e indomabile e la sua forza è invincibile. Salvador Allende).

Penso quante eventi negativi presenti e passati sono secessi nel mondo, la vita continua.

Ce la faremo.

Dalla finestra vedo una fila di alberi pieni di fiorellini rosa, l’aria fresca della mattina entra nella stanza insieme al canto degli uccellini, il verde del prato mi rilassa, vedo passare il vicino di casa con la sua canina, prima quando mi incontrava mi abbaiava ora che mi ha conosciuta quando mi vede mi annusa la mano e scodinzola, se è in giardino e passo per strada fa un piccolo abbaio per farsi vedere.

Mi sposto in terrazza, per strada passano pochissime macchine, sull’autostrada solo autotreni, anche questi lavoratori insieme a tanti altri fanno dei sacrifici per tutti noi, perché il paese non caschi nel panico.

C’è un silenzio strano, l’aria è fresca c’è meno smog , inizio a curare le mie piante, la terrazza e il mio fuori, gli uccelli continuano il loro concerto con suoni diversi, le margherite tappezzano il prato lungo il borro con i loro fiorellini bianchi.