I bambini che siamo stati: piccola scintilla in superficie

Fioretti – di Gabriella Crisafulli

Era la primavera del 1954. 

Ho frequentato per qualche mese un istituto guidato da suore: giusto il tempo di essere pronta per gli esami di prima elementare. L’anno successivo sarei stata iscritta in seconda presso la scuola pubblica. 

Partecipavo anche alla dottrina per la preparazione alla Prima Comunione.

Un giorno ci venne consegnato un foglio con una lunga serie di quadratini. Andava compilato con una crocetta per ogni fioretto fatto, oltre alla relativa descrizione in che cosa consistesse. 

Così, da quel momento in poi, io che ero una bambina scrupolosa, mi impegnai moltissimo per essere più buona, più obbediente, più brava: solo Dio sa quanto mi costarono quelle crocette.

Dopo una settimana, quando ci ritrovammo per verificare le nostre buone azioni, ogni bambina riferì quante ne avesse fatte.

Le cifre che volarono in quella stanza mi fecero tremare e io, che non ne avevo più di dieci, mi sentii molto mortificata davanti a tutti.

Da quel momento in poi seppi come regolarmi: non feci più nemmeno un fioretto ma segnai un sacco di croci.

I bambini che siamo stati: e ora chi sono?

……e ora chi sono? – di Anna Meli

…..e ora chi sono?  Chiudo l’album di fotografie che ho sfogliato fino ad un momento fa e lo ripongo nel cassetto. Vado verso la porta, la apro, sono in giardino.

            Là in fondo il sole sta tramontando e fende con gli ultimi raggi una nube, esce dalla parte opposta e crea uno scenario surreale. Nella mente una domanda: come ero da piccola e…come sono ora? Le foto che ho appena messo a posto mi hanno fatto notare cambiamenti fisici dovuti alla crescita, anzi all’età, ma interiormente non sono poi cambiata granché.

            Sono ritenuta una persona forte, che sa dare coraggio, eppure mi sento tanto fragile! Mi piace il silenzio perché mi rende libera di pensare. Sono innamorata della natura in tutti i suoi aspetti, anche in quelli meno gradevoli perché so che dopo la tempesta il sole splenderà , il vento furioso  pian piano sarà gradevole brezza, la campagna tornerà a brillare nei suoi magnifici colori al ritorno della primavera e la vita continuerà anche dopo la morte!

            Ascolto volentieri la musica e leggo volentieri e con essi mi rilasso. Amo passeggiare soprattutto in aperta campagna col sole ma anche con la pioggia. Sono rimasta ferma nei miei principi di libertà e ascolto con educazione chi la pensa diversamente, mi confronto, ma poi  decido autonomamente. Difficilmente scatto e odio le persone litigiose.

            Il trascorrere del tempo forse avrà smussato gli angoli più rigidi del mio carattere, l’impulsività si sarà sottomessa alla ragione come il volto di una bimba a quella di una persona matura, ma nell’essenziale non credo di essere poi tanto diversa.

I bambini che siamo stati: l’Isola che c’era

L’Isola che c’era e che c’è ancora – di Stefania Bonanni

C’era l’Isola, e c’è ancora. Chi ci ha vissuto lì ha marchiati a fuoco, da qualche parte, quei giorni e quei discorsi che sono diventati bisbiglii confusi , piccoli rumori che arrivano da lontano, senza perdere senso, né sentimento. Credo, che si sappia o no, che quei giorni siano stati il barcone sul quale siamo stati traghettati, e non sono sicura che ci fosse terraferma,  allo sbarco, perlomeno non per tutti.

L’Isola era lì , molto più vicina della seconda stella a destra,  ma il viaggio era cominciato con noi,  non si improvvisano compagni di viaggio,  per la vita. Fossi un pittore, disegnerei una Chiesa in fondo ad un piazzale coperto di sassi, in cima ad una scalinata ricoperta d’erba , circondata da cipressi lunghi lunghi secchi secchi. Tutt’intorno  un muro su cui sedere, sospesi in alto sul paese.  Sotto il muro, disegnerei una nuvola spessa e cotonata, un po’ riparo, un po’ nascondiglio.

Fossi un poeta,  direi “un campanile che non sembra vero, segna il confine tra la terra e il cielo”, e sul telefono arriva la foto del campanile.  C’è scritto: veglia sempre su di noi. C’è chi sta pensando gli stessi miei pensieri, ancora.

Ci si passavano i pomeriggi d’estate. Erano estati caldissime e polverose, le ombre stitiche dei cipressi coprivano poco il sole prepotente, anche perché  nel pomeriggio si allungavano oblique verso il muro di cinta,  mentre noi ci si sedeva sui gradini della chiesa. Erano strani tempi: nessuno che si meravigliava del caldo d’estate, nessuno allergico ai cipressi, nessuno che passasse le ore in casa da solo. Erano i tempi delle gonne corte, valutando che in campagna arrivavano dopo, le novità.  Sempre più corte, le mie. Ricordo il tentennare di traverso della testa della nonna, e il caldo rovente degli scalini della chiesa, dove appoggiavo cosce alla fine, nude. Si arrivava a piedi, noi abitavamo sotto il campanile, o su scoppiettanti motorini, che erano al tempo, l’unico vero oggetto del desiderio. Dovevano essere assolutamente  rumorosissimi e per questo si sentivano strane cose tipo “truccare il motore, stappare la marmitta”, gerghi da maschi, incomprensibili. Dovevano farsi sentire, avevano timore non ci fosse altro mezzo, forse. Come con le gonne corte,  per farsi coraggio.

Ripensandoci,  quei motorini erano davvero buffi. Avevano cassoni stretti e lunghi, sedili allungati dove si entrava anche in due, anche se era proibito. Per acchiappare il manubrio, il guidatore si doveva schiacciare sul serbatoio dando origine ad una strana forma di essere, moderno centauro tutt’uno con il mezzo, dotato di camicia gonfia ai lati, che l’aria gonfiava come fosse una vela.

Immagini di vele,  viaggiatori, barche. Del resto, era un’Isola…

Su quel piazzale,  a fianco della chiesa,  tutti eravamo stati all’asilo dalle monache, poi alle elementari. Si era giocato sempre, da sempre, sotto quei cipressi, e si era bevuto dalle mani polverose l’acqua della fontanina. Poi si era fatta la cresima, la comunione, si era stati tutti in processione per le feste del paese. Sempre su quel piazzale c’erano anche funerali, ma all’epoca non ce li volevano, i ragazzi.  In quelle occasioni da una porticina a lato dell’ingresso della chiesa, altrimenti chiusa con lucchetto, spuntavano uomini vestiti di nero, con il cappuccio, che srotolavano striscioni e baldacchino dorati. Tutta la messinscena  rendeva morire una faccenda molto misteriosa,  paurosa, ma anche appartenente ad una dimensione altra, dove il dolore si mescolava alla scenografia, facendolo diventare sacro e condiviso,  da un paese che non lasciava da soli, mai. Nel bene, e nel male.