I bambini che siamo stati: il bambino caleidoscopio

Ho sognato di essere Achille – di Luca Di Volo

Ma queste scintille mi hanno invaso la casa. . una ne spengo, cento si ridestano…Bisogna soddisfarle, se no non mi lasceranno più in pace.

E allora avanti.

Una cosa stupefacente: i ricordi vengono fuori da ogni attesa cosciente. . un po’ come succede quando si tira un filo che spunta da un golf…ci avete provato? Tira tira. . se non si smette si resta nudi. Così è per i ricordi, sembrano piccoli e pochi, all’inizio, per poi diventare tanti , una catena lunghissima. . il nostro DNA dell’anima.

E alcuni, di primo acchito sono anche sbagliati. Già. . mi accorgo solo ora che a 10 anni forse non ero il bambino amorfo che mi sono descritto. Qualcosa c’era. . confuso e grezzo, da elaborare in futuro…ma qualcosa c’era.

In quel tempo avere l’influenza era una festa: non si andava a scuola, si veniva coccolati da mamme e nonne. . e poi non era un dramma: ”Il bambino ha l’influenza? A letto, digiuno e la sera un brodino. . ”. E il bambino ci stava sì sotto le coperte, non gli pareva vero. E c’era un’altra consuetudine piacevole: per farmi passare il tempo, ogni volta che avevo la febbre, mi veniva regalato un libro…

Fu così che mi persi. Il primo libro era “Storie delle Storie del mondo”, un compendio di leggende e mitologia Greca, dell’Iliade, dell’Odissea…cose del genere

Ma bastarono a precipitarmi in quell’universo di giganti e di eroi, di donne splendide e orribili megere. . , grandi re e mendicanti divini, dei e dee capricciose e incostanti, ma che incatenavano l’anima…quella degli adulti, figuriamoci un bambino.

Sognai di essere Achille…il “biondo Achille. . il pièveloce Achille…”Sogni infantili che strutturano e rimangono al fondo, ma presentissimi.

E poi Menelao che conquista Elena…Diomede, Odisseo. .

Ci rimasi immerso per tutta l’influenza e mi ricordo che guarire mi dispiacque parecchio.

Altra febbre, altra botta di innamoramento. Questa volta fu “Ventimila leghe sotto i mari”. Il Capitano Nemo, Ned Land, Consiglio. . il professor Aronnax…E giù per gli abissi…e per finire nel Maelstrom.

Seguì Salgari. . La giungla, i daiachi. . Monpracem. . Li bevevo tutti questi libri. . e non solo quand’ero malato.

Ecco perché è falsa l’affermazione di essere stato un bambino amorfo. In realtà dentro c’era un ciclone potente che si sarebbe fatto sentire dopo.

Altro pugno spirituale: a 10 anni il mio babbo mi portò a vedere la”Tosca” al Comunale…. Il grandioso finale del primo atto con il rutilante Te Deum…. mi colpì come una lama incandescente, poi sarebbero venuti Wagner, Sigfrido, Le Valchirie. . ma quel finale è sempre con me. . quando lo ascolto. . non mi vergogno. . mi viene da piangere.

Le mie aspirazioni , poi, erano confuse come i miei pensieri. Un giorno dicevo che volevo fare il fisico nucleare. . il giorno dopo il direttore d’orchestra. . e un altro l’archeologo. Non ero un bambino, ero un caleidoscopio.

I miei genitori ascoltavano guardandomi con un misto di tenerezza e compassione. ”Ma che sarà normale innostro figliolo? ” Risposta della mamma: ”Mah!”.

Curioso un’episodio: una di quelle megere spartane di cui ho parlato, sentendo la mamma che si lamentava delle mie “stranezze”, venne fuori con una battuta: ”Signora, per forza issufigliolo l’è un po’ diverso dagli altri, o un se n’è accorta che cià le stesse iniziali di Leonardo da Vinci”? Era solo una battuta spiritosa (e nemmeno tanto). . però da allora tutte le canzonature che mi son preso…Facevo bene qualcosa? Per forza , cià le stesse iniziali di Leonardo…. sbagliavo…che bischero , a Leonardo ugn’assomiglia proprio pennulla. . E così via…

Ad un tratto , quasi di sorpresa. . nella mia vita entrarono le donne. . Ma questa è un’altra storia. .

Marzo

Era un giorno di marzo – di Cecilia Trinci

Era una giornata di marzo, bella come questa, la prima volta che, per un progetto di lavoro, sono entrata in un carcere. Porto Azzurro col sole, la rocca, il cancello, la postazione di controllo dove lasciare la borsa, il cellulare, i documenti, qualsiasi altro collegamento con l’esterno. Non ero sola, avevo un accompagnatore che mi sosteneva nel percorso fino al di là del metal detector, del portone blindato che scattò con un potente clac dietro le nostre spalle. Chiusa. Ero chiusa anche io dentro quelle mura. Fumo di sigaretta, rumori metallici, mura strette. Gentilezza, curiosità, pudore. Sguardi. Distanza di sicurezza. In carcere è facile porgere umanità e riceverla. Se dai fiducia si spande intorno come caffè.    Il progetto fu pieno di risultati. Loro, i detenuti del progetto, passarono un giorno ad ascoltarmi, imparando con grande facilità tutto quanto insegnavo. A tratti un sorvegliante controllava buttando rimproveri a caso. Niente internet. Niente cellulare. Niente contatti esterni. Gli affetti al di là delle mura, al di là del mare. Avevano sguardi attenti e io, in cambio,  avevo solo parole  e fiducia piena.

 Ma quello che oggi mi ricordo è la disperazione che mi prese il giorno seguente, pensando esseri umani a vivere di continuo  quel senso claustrofobico che avevo vissuto. Durante l’intervallo del pranzo io potei uscire sulle mura della rocca a mangiare un piccolo panino. Loro no, rimasero dentro. “Non possono uscire in questo periodo” mi rispose il tutor accompagnatore. Come non possono uscire? Nemmeno un pochino dentro questo sole immenso sul mare blu? No. Erano le regole. Loro rimasero accalcati a fumare ad una piccola finestra che dava in una corte interna e da cui si vedeva a poca distanza da poterlo quasi toccare,  solo un muro bianco,  altissimo. Neppure il cielo si vedeva. Il fumo di sigaretta acre non riusciva a dissiparsi mai. Era caldo in quelle celle piccole e chiuse ed era solo marzo. Fuori, indifferente, Il sole  picchiava sulle pietre della rocca. Il mare blu si increspava appena sotto la brezza di marzo.

I bambini che siamo stati: scintille e ricordi

Ho sognato di volare – di Carmela De Pilla

Volare, quante volte ho sognato di volare.

Di giorno, di notte!

Quando ero bambina sognavo spesso di volare, era il modo più semplice  per liberarmi da quella prigione che ingabbiava il mio corpo e la mia anima.

Mi incantavo davanti al volo armonioso delle farfalle che disegnavano nell’aria graziose coreografie e le seguivo con lo sguardo finchè non sparivano del tutto.

Vedevo anche il luogo dove si incontravano, ali colorate che dipingevano tele impalpabili contro l’azzurro accecante del cielo e io con loro danzavo spensierata e felice.

E invece no, non ero affatto felice!

Volevo scavalcarlo quel muro, divorare la porta di quel collegio che mi separava dai miei genitori emigrati in Germania quando io ero troppo piccola per capire.

Tra le mura di quel giardino altri bambini giocavano ronzandomi intorno e io confusa mi sceglievo un angolo solitario per leggere il libro delle fiabe, lo portavo sempre con me.

Mi piacevano le fiabe, mi facevano entrare in quel mondo immaginario dove tutto è possibile, anche essere felice e io diventavo Cenerentola che balla con il principe.

Di notte mi tenevano compagnia le stelle, prima di andare a letto le guardavo, ce n’era sempre una più luminosa, era la mia mamma che mi lanciava un bacio.

Non mi piaceva la fiaba di Peter Pan, perchè voleva scappare dai genitori per andare nell’isola che non c’è?

Lui che poteva gioire per una carezza o per un bacio voleva allontanarsi dalla sua mamma e dal suo babbo!

Solo quando fui più grandicella ne capii veramente il senso e ancora oggi è una delle fiabe che amo di più, in fondo io ci andavo spesso nell’isola che non c’è.

Mi ricordo….. – di Anna Meli

            Se chiudo gli occhi risento le voci, i rumori, i profumi che hanno accompagnato quei momenti magici. Per quel che mi ricordo non ho masi pensato a quel che avrei fatto da grande. La vita scorreva in modo naturale; i problemi, anche se ci fossero stati, chi li vedeva? Avevo i miei genitori che mi volevano un gran bene, un nonno brontolone, ma buono e un fratello più grande otto anni di me che adoravo e a cui non perdevo occasione, come diceva lui, per appiccicarmi dietro.

            I miei giochi erano palla avvelenata, saltare alla corda, nascondino e altri inventati lì per lì. Tutto andava bene pur di stare all’aria aperta con altri ragazzi. Non disdegnavo nessuna compagnia  maschi o femmine che fossero e questo mi poneva in discussione con quest’ultime perché volevano fare gruppo a sé, cosa che non mi piaceva per niente.

            Non c’era a quel tempo, la scuola materna e la mia mamma mi aveva mandato all’asilo delle suore; non avevo accettato i loro metodi e dopo una settimana ero nuovamente a casa. Che ci potevo fare se non le sopportavo con le loro imposizioni?

            L’estate era per me la stagione più bella perché potevo star fuori quasi tutto il giorno. Nei campi il grano maturo biondeggiava e i contadini lo mietevano con le falci, ne facevano dei covoni e li lasciavano in mucchi in attesa del carro trainato dai buoi che passava a raccoglierli per portarli sull’aia del casolare dove abbarcato tutto insieme a forma di grossa cupola sarebbe rimasto in attesa del successiva battitura.

            Mi ricordo della sensazione di sofferenza che provavo quando volevo anch’io correre scalza come i figli del contadino sugli steli recisi del grano. Che colazioni alle 10 all’ombra della querce grande: fagioli all’uccelletto, bruschetta  e noci. Tornando a casa per il pranzo non avevo fame a la mamma si preoccupava. Io non potevo dirle il perché se no mi avrebbe rimproverata.

            Finita l’Estate arrivava il I° Ottobre e tutti a Scuola! Mi ci trovavo bene. Le insegnanti erano brave e buone: in particolare ricordo la Signorina Marta, molto carina e di una sensibilità non comune dalla quale ero particolarmente affascinata (mi vengono quasi le lacrime nel ricordarla).

            Anche Lei, un po’ come Cecilia, metteva l’aula al buio, poi faceva ascoltare della musica che avremmo dovuto trasformare in disegni. In quei momenti non tutti reagivano allo stesso modo, c’era anche chi ridacchiava, ma questo forse faceva parte del gioco e della voglia di vivere che non poteva esprimersi diversamente.

            Poi arrivavano le feste di Natale, con il presepe, l’albero addobbato con palline, oggettini di vetro e una specie di neve che se entrava addosso ti grattavi per una settimana. E poi la Befana, misteriosa, con pochi ma graditi doni e la calza appesa al camino. Si faceva finta di dormire, ma si vedeva tutto!

            C’è stata pace ed armonia nella mia infanzia, anche perché condivise con quasi tutte le famiglie del paese in cui ancora vivo.

            Purtroppo si cresce, si invecchia, le cose si trasformano, non sono più le stesse, ma i ricordi – e ne ho tanti – rimangono fedeli amici della mia vita.