Quel viaggio di ritorno da Pec – di Laura Galgani

Quei giornalini del “Piccolo Missionario” li ricordo ancora: piccoli, formato “Topolino”, carta lucida, disegni in bianco e nero. Mi portavano a casa le avventure – proprio di questo si trattava – dei Padri Comboniani in Africa, minacciati da guerriglieri e criminali di varia specie nei villaggi delle Missioni cristiane; le vicende erano drammatiche, ma il lieto fine, dopo scontri, anche violenti, trattative e parole di pace, era assicurato.
Uno dei Padri era venuto al catechismo, mesi prima, e ci aveva raccontato un po’ di quel che succedeva laggiù, in quelle terre lontane piene di pericoli, dove loro andavano a portare cure, istruzione, infrastrutture, e naturalmente il Vangelo. Allora, avrò avuto 7 anni, non ero in grado di comprendere tutte le implicazioni politiche né i risvolti sociali e demografici delle opere missionarie, ma restai affascinata dallo spirito di sacrificio di quei Padri, e ben volentieri chiesi alla mamma di potermi abbonare al giornalino per sostenere le missioni.
Oggi quei giornalini mi sarebbero molto utili, perché vi avrei potuto studiare il movimento terroristico di Boko Haram “ante litteram”, come pure scoprirvi alcune delle cause dell’esplosione demografica nel continente africano, le dinamiche tribali che portano instabilità nelle zone agricole, lo sfruttamento delle risorse da parte dei Paesi ricchi, il difficile rapporto delle tribù con i governi centrali e così via. E invece di quei giornalini, ad un certo punto, ho perso completamente le tracce. Ma non dentro di me.
Per ritrovarne il segno bisogna fare un salto nel tempo di 7 anni in avanti, e uno nello spazio per arrivare da Firenze alla città di Pec, in quello che oggi è il Kosovo ma che nel 1978 era ancora la Yugoslavia di Tito. Mio padre, quell’anno, aveva deciso che la meta del nostro mese di vacanze estive in roulotte sarebbe stata la penisola balcanica, e ce la fece vedere tutta, da nord a sud. Il Ponte di Mostar, Sarajevo, Dubrovinik… ho visto quelli “veri”, non le ricostruzioni. Verso la metà del viaggio, non so perché – ma in realtà un bel perché c’era, eccome – ci volle portare persino laggiù, anzi prima lassù, scavalcando monti brulli e sassosi e poi coperti di boschi fitti e neri, per poi scendere giù, a Pec, in una conca polverosa che non prometteva niente di esaltante. Quando arrivammo il cielo era grigio, e come quello tutto intorno a noi: gli edifici alti e desolati, tutti uguali, di cemento e senza storia; le strade coperte di polvere e disseminate di spazzatura, da dove i sacchetti di plastica si sollevavano gonfiati dal vento nella speranza di ritrovare un po’ di vita. Di lato alle strade, sotto al marciapiede, scorrevano fogne a cielo aperto, scarichi di quella tristezza atavica e profonda che sembrava essersi impadronita delle persone e delle cose. Ricordo un vento insistente e fastidioso, che mi gettava polvere negli occhi e aumentava ancora di più l’irritazione e lo sconcerto che provavo. La grande piazza centrale era quasi deserta: due donne musulmane – forse le prime che vedevo col chador in vita mia – indossavano pantaloni alla turca ed erano avvolte dalla testa fino a metà gambe da dei grandi teli azzurrini; solo una piccola bottega era aperta e lì, da un artigiano apparentemente vecchio, dai capelli lunghi e scompigliati, magrissimo, comprammo due sgabellini piccoli piccoli, che abbiamo custodito come reliquie fino ad oggi, in ricordo di quel posto così desolato eppure così sacro. Ad interrompere quel silenzio polveroso arrivò un bambino che da solo tirava calci ad un pallone di cuoio semisgonfio, urlando “gooool” tutte le volte che la palla andava a rimbalzare contro un muro. Eravamo gli unici turisti, ovviamente. Vestiti in maniera assolutamente inopportuna per una città musulmana, con mia madre di sicuro in abitino striminzito corto abbondantemente sopra il ginocchio, braccia scoperte e capigliatura cotonata, mio padre e i miei due fratelli in pantaloncini corti, io non so ma avrò avuto i jeans e una maglietta… quelle poche persone ci guardavano con molto, molto sospetto, e la sensazione fu che prima avessimo tolto le tende e meglio sarebbe stato.
La brevità della nostra permanenza non riuscì però a rendere meno intense le mie sensazioni. Salii in macchina e una tristezza profonda mi assalì, mentre guardavo gli stessi casermoni tristi di cemento scorrermi accanto.
Molto bello il tuo ricordo, pieno di fratelli e genitori giovani. Quei sacchetti di plastica abbandonati che si gonfiano di vento e polvere valgono mille descrizioni.
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tanta sensibilità verso gli altri.
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