Il filo di Arianna – di Nadia Peruzzi

Ci vorrebbe un filo di Arianna per andare indietro nei ricordi. Come sarebbe bello avere per le mani un grande rocchetto di filo multicolore da poter srotolare e ricavarne una pellicola in linea continua fra passato e presente.
Invece le immagini, pur vive, riemergono come tessere di mosaico spesso sconnesse e scoordinate fra loro.
Difficile trovare l’isola che non c’è di quando ero bambina. Ero un vortice di energia cinetica, rincorrevo più mondi e era complicato davvero stringerne uno come prevalente.
Ero quella, almeno così mi hanno raccontato, che a Roma dove abitavamo fino ai miei due anni e mezzo, aveva buttato dal 6° piano una scopa, per fortuna senza beccare nessuno in testa, e quella che di ritorno da un pomeriggio al caldo sole di Ostia si mise ostinatamente in mezzo alla cucina chiedendo ago e filo perché voleva cucire.
Eppure il mondo delle bambole e dei vestiti, si è scoperto dopo, non faceva proprio per me. Noioso lo stare seduta a vestirle e spogliarle. Noiose le bambine con cui avrei dovuto fare quel gioco. Ero da meccano, io. Ero un maschiaccio. La mia isola di allora era popolata di amici maschi con cui si giocava a biglie e tappini, o si faceva a gara a chi vinceva le figurine dei calciatori famosi tirandole il più possibile vicine alla facciata della chiesa. Il massimo dei massimi veniva fuori quando qualcuno bravo assemblava le assi delle cassette di frutta per tirarne fuori l’abbozzo di un go kart montato su cuscinetti ruotanti che facevano un baccano infernale.
Che corse e che botte prendevo e che gran sbucciature sui ginocchi mi ritrovavo, un giorno si e l’altro pure.
Esuberanza e fin troppa energia fecero si che arrivata in prima elementare, la maestra si vide costretta a darmi il compito di annaffiare i fiori del giardino. Non c’era verso di farmi star seduta per tutto il tempo delle lezioni. Fu una fase di passaggio e di compromesso che durò poco visto che man mano stavo imparando a gustare il tempo della quiete. In classe e fuori.
In molte di quelle tessere di mosaico ho in mano dei libri. I regali più ambiti quelli del giorno della Befana, era lei che li portava allora, erano loro. Ricordo come fosse ora la copia del Pinocchio della Giunti con la sua copertina blu e la gioia che provai appena lo vidi in bella mostra sulla cucina economica, sotto la cappa. Il burattino era a tutta pagina col suo vestitino verde.
Il gusto di sfogliare le pagine delle Novelle italiane di Calvino lo provai subito dopo. Fu un modo di entrare in contatto con questo strano e complesso paese attraverso le storie fantastiche che lo punteggiavano da Nord a Sud. Gobba, zoppa e collotorto non me la sono dimenticata più.
Era un accavallarsi di personaggi e storie in cui era facile perdersi. Un mondo in cui tutto era possibile, nulla scontato e sempre una scoperta di seguito all’altra.
Su tutti un eroe senza macchia e senza paura Robin Hood, che non aveva nulla dei super eroi di oggi, super accessoriati ma senza nemmeno una pallida idea della lotta di classe che cambia il mondo.
Invece li nel cuore della storia medioevale si prendeva ai ricchi per dare ai poveri e si imparava cosa voleva dire il giusto e l’ingiusto. Come si poteva fare a stare dalla parte dello Sceriffo di Nottingham? Non c’era verso. Era lui, il magico Robin alfiere di giustizia sociale e di redistribuzione di reddito ante litteram, a scaldare il cuore e a farlo battere come nessuno.
Il tempo della quiete di allora era senza la televisione e il suo intrattenimento. Bastava poco per inventarsi modi per intrattenerci . Spesso erano cose semplici, ma appaganti.
Andare a fare insalata nei campi con mia nonna si trasformava in una avventura che dava grandi soddisfazioni. Vuoi mettere imparare a riconoscere lattugaccio, cicerbite, rosolacci e tutto quello che poi finiva in saporite e variopinte insalate o in frittate spesse e profumate. Ad ogni piantina raccolta e messa nel cestino, si pregustava il dopo.
La raccolta degli anemoni era per i giorni festivi.
Con mamma e babbo. Era bello camminare per i campi in mezzo a quelle distese colorate di viola, rosso e bianco. C’era solo l’imbarazzo della scelta . Spesso era una gara a chi ne raccoglieva di più. Erano momenti felici in cui si assaporava con la dovuta lentezza ciò che la primavera incipiente recava con sé. Le prime rondini che rientravano nei nidi, le nuvole che col vento teso si perdevano in giochi di forme incredibili, le gemme che si aprivano con esplosioni di rosa e di bianco. Ci si accorgeva di tutto allora: eravamo meno distratti e sottoposti alla dittatura degli orologi e dei cellulari che, del resto erano di là da venire.
I sogni venivano fuori facili facili. Una volta correvi in un campo pieno di tulipani, un’altra rischiavi di cadere in un ruscello per arrivare a cogliere delle viole a mammola.
Peccato non ricordarseli a distanza i sogni.
Quasi come fossero bolle di sapone si accendono, prendono vita, decidono la loro direzione, poi. . di punto in bianco, di solito sul più bello, pof, scoppio, soprassalto e da sveglio dimentichi quasi tutto subito.
Ci sono sogni che non ho cancellato però. E so che erano a colori.
Erano popolati di guerrieri romani che se le davano di santa ragione in scene di massa che avevano dell’incredibile a ripensarle oggi. Erano i tempi dei Kolossal quelli. Spartacus, Ben Hur e tanti altri di cui in sogno riadattavo le pellicole prendendo pezzi ora dall’uno, ora dall’altro.
Ci sono i ricordi dei lunghi mesi al mare a Genova dai parenti. Il momento delle ferie del babbo e della mamma che passavamo in montagna sull’appennino ligure. Le gran camminate, alcune controvoglia in verità, sono ancora in un cassettino dei ricordi che fanno star bene, come la visione della catena delle Alpi oltre la foschia della pianura padana dopo un temporale estivo che ripuliva l’aria. Le vedevi risplendere con i loro abiti bianchi e lucentissimi quasi come ballerine della Scala allineate, compostamente maestose, prima di un loro esercizio.
Altri ricordi sono vestiti dell’ allegria e dei colori della vendemmia nei campi dietro casa che pullulavano allora di case di contadini .
Mi rivedo sul carro carico di ceste ricolme di uva, con le mani tutte appiccicose e la bocca segnata da baffi violacei per il troppo spiluccare di chicchi zuccherosi durante la raccolta.
Mi rivedo, tutta accaldata, nell’aia e poi al fresco della grande cucina col suo immenso camino. Sul tavolo, il bicchiere per i più piccoli riempito di acquerello. Come mi affrettavo a prendere il mio per paura che qualcun altro arrivasse a prenderlo per primo.
L’isola che non c’è , non c’è più da tanto tempo ormai o ha cambiato pelle irrimediabilmente non aveva bisogno di ali per volare. Aveva piedi ben piantati in terra, lavorava la terra, la madre terra punto di riferimento di tutte le cose.
Respirava semplicità ma era tutto meno che sempliciotta. Aveva il cervello fino dei contadini che hanno popolato le campagne della Toscana e quelle che ho potuto sperimentare da vicino qui ad Antella almeno fino alla prima metà degli anni 70.
Persone magnifiche spesso parche di parole ma con occhi che erano in grado di dire già tutto da soli.
Era bello quando il babbo e la mamma si fermavano a chiacchierare con loro durante qualche nostra passeggiata. Non capivo proprio tutto allora, ma percepivo che l’orizzonte di quei discorsi era ampio, si posava sul mondo, non stava chiuso dentro il limitare di quelle aie.
Certo al babbo e alla mamma che sapevano impegnati in politica parlavano dei loro problemi più spiccioli ma era solo il modo per avviare il discorso. Poi c’era il comune, il paese o quello che succedeva anche in paesi molto lontani dalla calma rasserenante di quella campagna.
Spesso non avevano fatto tanta scuola ma li ritrovavi a leggere L’Unità da cima a fondo al circolo, e erano disponibilissimi aprire le loro case in tempi di elezioni per riunire quante più famiglie vicine. Accompagnando mia mamma qualche volta in quelle immense cucine ho potuto incontrare anche una trentina di persone. E venivano tutti. Donne, uomini, giovani e vecchi!
Penso con commozione a quei momenti che considero importanti per la mia formazione.
Adesso capita che incontri alcuni di quei giovani che sono invecchiati e hanno fatto e fanno altro da tanti anni ormai . Le case quelle belle e solide case , quei poderi son passati ad altri, professionisti fiorentini per lo più, scarsamente interessati alla terra, molto più al quieto vivere di una villeggiatura goldoniana a due passi dalla loro professione cittadina.
Nulla è stato più lo stesso. Perso quel tessuto si è smarrito un bel pezzo di quella civiltà. Son rimaste le coltivazioni. Olivi e vigne sono sempre lì sembrano uguali a sé stessi di un tempo, ma non è così. Manca la vita che brulicava intorno a loro e quelle passioni anche civili che erano il bello delle nostre campagne .
Se penso che i prodotti che acquistavamo venivano quasi sempre da quei terreni e da quei poderi la nostalgia si fa rabbia. Il chilometro zero era una realtà allora e sapeva di buono. Adesso come in un gioco dell’oca dopo aver corso in lungo e in largo ci accorgiamo che il bello stava già li vicino casa. Ma dobbiamo ricostruirne le reti con nuove energie mentre la sapienza di un tempo si è liquefatta e dispersa insieme alle figure in carne ed ossa che sono state protagoniste di quella stagione.
Ne avevano viste di cotte e di crude e non avevano perso né fierezza, né tenacia. Solidi come i terreni che lavoravano, pochi fronzoli, consapevoli di aver fatto camminare la storia anche con le loro gambe e il loro ingegno. Ed era stata storia di cambiamento reale e positivo nella loro condizione di vita e in quella del paese intero.
Mi rendo conto che nel pensare all’isola che non c’è lo sguardo volge al passato.
Potrei scrivere chissà quanto se decidessi di mettere in fila anche altri pezzi di quelle tessere ballerine che il mosaico restituisce frammentate .
Sento che fa bene questo cercare rifugio nel passato.
È rilassante lasciarsi cullare dalla nostalgia affondandoci fino al collo come se fosse una vasca piena di schiuma profumata o il caldo ventre materno, o una placida distesa di acqua senza increspature.
Il virus sembra lontano e l’acqua con le sue trasparenze e il suo potere purificatore, si fa cura dei mille pensieri negativi che ci accompagnano in questi giorni grigi.
Per farmi forza cerco di dirmi che passerà e che forse in poco tempo avremo messo tutto nel cassetto di fondo dei pensieri e dei momenti cattivi, quelli che cerchi di spingere con tutta la forza che hai perché smettano di creare ansia.
Mentre provo a fermare sulla carta le diapositive a colori del tempo che ho attraversato, il Peter Pan che è dentro ognuno di noi prende vita, in un fruscio le ali si spiegano e si può volare. Fa bene guardare anche per poco tempo il mondo dall’alto. Sembra un’oasi di pace visto da lassù !
Parliamo due lingue diverse, il tuo sapere per dire, il mio inventare per sostituire, chapeau, per il tuo narrare.
Un intreccio che ti ha creata.
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