I bambini che siamo stati: scintille

Quel viaggio di ritorno da Pec – di Laura Galgani

Quei giornalini del “Piccolo Missionario” li ricordo ancora: piccoli, formato “Topolino”, carta lucida, disegni in bianco e nero. Mi portavano a casa le avventure – proprio di questo si trattava – dei Padri Comboniani in Africa, minacciati da guerriglieri e criminali di varia specie nei villaggi delle Missioni cristiane; le vicende erano drammatiche, ma il lieto fine, dopo scontri, anche violenti, trattative e parole di pace, era assicurato.

Uno dei Padri era venuto al catechismo, mesi prima, e ci aveva raccontato un po’ di quel che succedeva laggiù, in quelle terre lontane piene di pericoli, dove loro andavano a portare cure, istruzione, infrastrutture, e naturalmente il Vangelo. Allora, avrò avuto 7 anni, non ero in grado di comprendere tutte le implicazioni politiche né i risvolti sociali e demografici delle opere missionarie, ma restai affascinata dallo spirito di sacrificio di quei Padri, e ben volentieri chiesi alla mamma di potermi abbonare al giornalino per sostenere le missioni.  

Oggi quei giornalini mi sarebbero molto utili, perché vi avrei potuto studiare il movimento terroristico di Boko Haram “ante litteram”, come pure scoprirvi alcune delle cause dell’esplosione demografica nel continente africano, le dinamiche tribali che portano instabilità nelle zone agricole, lo sfruttamento delle risorse da parte dei Paesi ricchi, il difficile rapporto delle tribù con i governi centrali e così via. E invece di quei giornalini, ad un certo punto, ho perso completamente le tracce. Ma non dentro di me.   

Per ritrovarne il segno bisogna fare un salto nel tempo di 7 anni in avanti, e uno nello spazio per arrivare da Firenze alla città di Pec, in quello che oggi è il Kosovo ma che nel 1978 era ancora la Yugoslavia di Tito.  Mio padre, quell’anno, aveva deciso che la meta del nostro mese di vacanze estive in roulotte sarebbe stata la penisola balcanica, e ce la fece vedere tutta, da nord a sud. Il Ponte di Mostar, Sarajevo, Dubrovinik… ho visto quelli “veri”, non le ricostruzioni. Verso la metà del viaggio, non so perché – ma in realtà un bel perché c’era, eccome – ci volle portare persino laggiù, anzi prima lassù, scavalcando monti brulli e sassosi e poi coperti di boschi fitti e neri, per poi scendere giù, a Pec, in una conca polverosa che non prometteva niente di esaltante. Quando arrivammo il cielo era grigio, e come quello tutto intorno a noi: gli edifici alti e desolati, tutti uguali, di cemento e senza storia; le strade coperte di polvere e disseminate di spazzatura, da dove i sacchetti di plastica si sollevavano gonfiati dal vento nella speranza di ritrovare un po’ di vita. Di lato alle strade, sotto al marciapiede, scorrevano fogne a cielo aperto, scarichi di quella tristezza atavica e profonda che sembrava essersi impadronita delle persone e delle cose. Ricordo un vento insistente e fastidioso, che mi gettava polvere negli occhi e aumentava ancora di più l’irritazione e lo sconcerto che provavo. La grande piazza centrale era quasi deserta: due donne musulmane – forse le prime che vedevo col chador in vita mia – indossavano pantaloni alla turca ed erano avvolte dalla testa fino a metà gambe da dei grandi teli azzurrini; solo una piccola bottega era aperta e lì, da un artigiano apparentemente vecchio, dai capelli lunghi e scompigliati, magrissimo, comprammo due sgabellini piccoli piccoli, che abbiamo custodito come reliquie fino ad oggi, in ricordo di quel posto così desolato eppure così sacro. Ad interrompere quel silenzio polveroso arrivò un bambino che da solo tirava calci ad un pallone di cuoio semisgonfio, urlando “gooool” tutte le volte che la palla andava a rimbalzare contro un muro. Eravamo gli unici turisti, ovviamente. Vestiti in maniera assolutamente inopportuna per una città musulmana, con mia madre di sicuro in abitino striminzito corto abbondantemente sopra il ginocchio, braccia scoperte e capigliatura cotonata, mio padre e i miei due fratelli in pantaloncini corti, io non so ma avrò avuto i jeans e una maglietta… quelle poche persone ci guardavano con molto, molto sospetto, e la sensazione fu che prima avessimo tolto le tende e meglio sarebbe stato.

La brevità della nostra permanenza non riuscì però a rendere meno intense le mie sensazioni. Salii in macchina e una tristezza profonda mi assalì, mentre guardavo gli stessi casermoni tristi di cemento scorrermi accanto.

I bambini che siamo stati: altre scintille

La bambina che ero…di Rossella Gallori

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I bambini sono fiori, piccoli bocci da accudire, da annaffiare, per farli crescere, protetti, da serre chiamate case…ecco credo che in casa mia avessero perso l’ annaffiatoio…o si era rotto? O non c’era mai stato! O ancor peggio, non c’ era acqua?

Ma io, io, io, ero una bimba fortunata avevo un giardiniere, un giardiniere, solo per me.

Trotterellavo nel lungo corridoio, ad ogni piccolo ostacolo gridavo: babbooooo!!

Non avevo particolari doti, l’ aria sempre imbronciata, annoiata, interessata  più alle voci, che ai giochi, ecco si, non sapevo giocare, avevo una scimmia di lana nera che trascinavo da una stanza all’ altra ed un orso di brutta pelliccia che si chiamava Bernardo, aspettavo, aspettavo e basta, in quella casa troppo grande, per  un esseruccio  come me, tra rumori e suoni crescevo, con il frastuono molesto della voce della nonna, il  fruscio argentino ed invasivo della mamma….nell’  attesa del suono magico della sua voce, ed allora aprivo occhi, braccia e cuore…non volevo altro che lui, il mio giardiniere…ero il suo fiore più bello, credevo di avere petali stupendi, un colore unico,  un fiore  eterno…invece…invece..

Iniziò troppo presto il periodo della fuga, scappavo, da tutto e da tutti, cercando un nascondiglio, in quell’ attesa spasmodica che non portò a nulla, se non ad una solitudine, che divenne compagna…e non mi bastavano, fratelli, mamma….inghiottivo delusioni, abbandoni, veri e  presunti, mi sdraiavo sul tappeto ai piedi del “nostro letto” facendo finta di essere un cane, che non riusciva ad abbaiare, aspettando che lui mi venisse a cercare ad accarezzare, che mi togliesse il guinzaglio, bruciasse la cuccia, mi prendesse in braccio e mi portasse via…..

Ecco la bimba che ero, una che aspettava, volevo solo ritornare sul lettone, per imparare a scrivere a leggere, con lui e per lui, per inventare storie di case belle affacciate sul mare, di bimbe intelligenti, sorridenti, di stoffe colorate utili per foderare anime, per avvolgere sogni… babbooooo !! Non rispondeva più nessuno, ed avevo “già dieci anni”, non solo “10 anni” qualcuno  aveva deciso che ero grande…

E feci finta di esserlo, per quattro anni, vivevo allo stato brado, un cavallo ferito, che non sopportava sella, un oggetto non in vendita, che si poteva comprare con tre parole ed una voce che me ne ricordava un’altra.

Lasciai i sogni che non avevo ed andai a lavorare, mi accompagnò il babbo quel giorno…..anche se non c’era più da tempo….. fu la mia salvezza.

Ma che fine ha fatto quella bambina?

I bambini che siamo stati: scintille

Volevo essere un sasso, ma volevo anche volare – di Stefania Bonanni

“Addolorata,  indispettita, decisi che non avrei più studiato. Smisi di fare i compiti, non aprii il libro, e l’inverno passò  mentre provavo a diventare sempre più estranea a me stessa.Cancellai certe  abitudini che mi aveva imposto lui: leggere il giornale, guardare il telegiornale.  Passai dal colore bianco o rosa al nero, neri gli occhi, nere le labbra, nero ogni capo d’abbigliamento. Fui svagata, sorda ai rimproveri degli insegnanti, indifferente ai piagnistei di mia madre.  Invece di studiare, divorai romanzi, guardai film in tv, mi assordai con la musica. Soprattutto, restai in silenzio, poche parole e basta. Già normalmente non avevo amici, a parte antiche consuetudini. Ma anche loro furono ingoiare dalle  tragedie. Restai del tutto sola,  con la mia voce che  girava a vuoto nella testa. Ridevo tra me e me, mi facevo smorfie. Passavo molto tempo per i sentieri che una volta avevo percorso con mia madre. Mi piaceva precipitare intontita nel tempo felice  di una volta.  Del resto, ero vecchia.”

Ho letto e riletto questa pagina molte volte,  vorrei la conosceste. A qualunque età,  qualunque sia il dramma, questi sentimenti penso siano universali, o perlomeno, sono quelli che mi hanno attraversato. Obiettivo, cambiare. A momenti desiderando diventare un sasso, in altri cercando di imparare ad andare avanti senza pensare, in altri cercando nel tempo passato un segnale di forza, di coraggio, e magari non trovarlo. Altri sono inspiegabilmente giorni leggeri, con il riso pronto ad apparire,  anche senza senso, ed allora va tutto bene. Si può cambiare,  si può non riuscire a cambiare,  siamo disposti a tutto per continuare.

I bambini che siamo stati: altre scintille

IL MEDICO E LA BAMBINA – di Elisabetta Brunelleschi

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Una targhetta in marmo affissa accanto alla porta recitava: “ambulatorio eretto dal popolo per il popolo” .

Quando c’era bisogno del dottore, quello era l’ambulatorio più vicino, distava solo un chilometro da casa nostra. Gli altri, la Misericordia o la Croce Rossa, prevedevano percorsi di 4 e 5 Km.

L’avevano allestito in una stanza del Circolo de La Fonte. Ricordo poche persone silenziose sedute su sedie impagliate, tutte allineate in un corridoio lungo e buio, io che non potevo star ferma e la mamma che mi guardava male perché negli ambulatori si deve stare buoni, è maleducazione andare in qua e là! Il Signor Dottore non vuole la confusione, ci brontola!

Quando finalmente giungeva il nostro turno, compariva Emma che, con fare gentile, apriva la porta ed eccoci in una stanza ampia e luminosa.

L’Emma, un donnone di forse cinquantanni, con vesti chiare da infermiera, i capelli lisci e tirati all’indietro, faceva entrare i pazienti e poi se stava seduta da una parte a cucire, ricamava a punt’a smerlo un pezzetto di stoffa da me mai ben identificato. Poteva essere un colletto, il davanti di una camicetta o un banale fazzoletto.

Emma, l’ho scoperto da grande, non era un’infermiera, ma semplicemente una persona che da volontaria, faceva l’assistente al medico e poi apriva, chiudeva, puliva .

Dappertutto in quella stanza dominava il bianco, nel telo che copriva il lettino, nell’asciugamano che ciondolava accanto al lavandino e nel metallo dell’armadietto a vetri sui cui ripiani erano schierate bottigliette di disinfettanti, contenitori in smalto e scatole di sconosciute medicine.

Era proprio l’armadietto la prima cosa che guardavo, nel timore di scoprirci siringhe pronte per chissà quale iniezione!

Nel centro della parete di fronte alla porta c’era il tavolo del dottor S. il nostro medico. Un uomo sempre vestito con eleganza, alto, con un bel vocione simpatico.

Ci accoglieva sorridendo, chiedeva, spiegava con parole semplici, talvolta con battute anche salaci. Pur mantenendo l’autorevolezza di un dottore, si faceva capire da persone umili, che non avevano dimestichezza con i termini tecnici della scienza medica.

Da piccola rosicchiavo le bucce delle arance, la mamma gli domandò se mi potevano far male: – No, ma stai attenta, chissà laggiù chi le maneggia e cosa ci mettono sopra, le devi lavare bene bene!-

Una volta, io ero terrorizzata da alcuni nei che mi erano comparsi sulle mani, lui con fare paterno e un po’ scuotendo la testa disse: – Ma non sei morta ancora, e allora?-

Un’altra volta, ma ero già più grande, mi ammalai poco dopo essere stata dalla parrucchiera, venne a visitarmi e vedendo i miei capelli ben acconciati e constatando il mio stato (febbre alta, tosse e raffreddore) esclamò:- Anche con la peste bubbonica andate a farvi i capelli voi donne!-

E di fronte ai continui lamenti della mamma su intestino e stomaco che secondo lei non funzionavano, venne fuori con questa domanda: – Allora cos’è, non digerisci o non cachi?-

Lei fece tesoro di quella domanda e per un po’ il suo apparato digerente non dette problemi.

Era un medico di altri tempi, veniva a casa, visitava i malati, si fermava a salutare e chiacchierare. I pazienti lo rispettavano e seguivano le sue prescrizioni.

Non ne ho mai avuto paura. Le mani che palpavano la pancia dolorante erano morbide e calde, l’orecchio appoggiato sulla schiena per sentire i bronchi mi provocava solo un leggero solletico quando i capelli sfioravano la pelle. Mi disturbavano l’aprir bocca e l’abbassa-lingua ma durava un attimo!

Non drammatizzava le situazioni e questo era un bene per la mia mamma, che, non lo voleva dare a vedere, ma era ossessionata dalle malattie.

Invece per alcuni era lì il suo punto debole. Si raccontava di mali non riconosciuti, di diagnosi fatte con leggerezza, di pazienti che per queste ragioni si erano rivolti a altri dottori.

La mia famiglia non ha mai avuto da rimproverargli niente. È rimasto il nostro medico di famiglia, sino a quando, per raggiunti limiti d’età ha lasciato la professione.

Da moltissimi anni quell’ambulatorio luminoso e lindo non c’è più. Nel corso del tempo la stanza è stata utilizzata per le più svariate esigenze. Nei lontani anni Settanta del secolo scorso ha persino ospitato una sezione di scuola materna!  

Ma oltre al ricordo dell’Emma e del dottore, resta dentro di me quel senso di rispetto e reverenza per il Signor Dottore che mi è stato inculcato negli anni dell’infanzia, mi accompagna in ogni contatto col mondo della sanità e mi porta a considerare medici e infermieri persone di un gradino più alto perché capaci di conoscere e curare quei misteri che spesso sono le malattie.

I bambini che siamo stati: scintille

Volare non è facile eppure non impossibile – di Vanna Bigazzi

Bellissime queste “scintille” del secondo incontro con Cecilia, mi hanno veramente ispirato tanto, eccone il prodotto:

-Chi avremmo voluto diventare da grandi? Siamo riusciti a rispettare i nostri desideri, il nostro primo impulso?- Posso raccontare la mia esperienza che ancor oggi mi sorprende. Soffrendo da piccola delle discussioni familiari legate a divergenze fra i miei, in particolare riguardanti mia sorella, mi ponevo il problema di cosa potessi fare io, da grande, per alleggerire, se non proprio risolvere, certe tensioni. Quando le persone mi chiedevano cosa avrei voluto fare, ricordo che davo delle risposte che lasciavano un po’ perplessi gli interroganti o comunque non producevano in loro espressioni gioiose, di approvazione come in genere accade ed è giusto che accada. La mia risposta era questa: – vorrei aiutare le persone a capirsi fra loro, quando non ci riescono…- Gli interlocutori, dopo qualche secondo di riflessione, comunque accennavano un sorriso compiacente e con gli occhi che vagavano leggermente, senza focalizzare, non immediatamente abbozzavano un sorriso e, piegando leggermente la testa da un lato dicevano:- Ah, bene, hai visto… brava… ma si capiva che non avevano ben chiaro il concetto. Avrebbero preferito sentirsi rispondere:- il Dottore- oppure – l’infermiera o la mamma…- ma la risposta era diversa. Specifico che sono nata nel 1946 e all’epoca, per lo meno nei ceti medio-bassi, la Psicologia non era conosciuta, le faccende riguardanti i rapporti ed i problemi interpersonali, si discutevano con amici, confidenti, a volte parenti stretti ma non si andavano a raccontare i propri fatti in giro… Ripensando oggi a questi aneddoti, dico a me stessa-Forse io ho realizzato le mie aspirazioni, forse, come dice Cecilia, sarò riuscita, almeno in parte, ad “aprire le finestre agli altri, per dare un po’ di conforto…” Si vede quindi che nonostante i dissensi familiari, i miei interessi infantili non sono stati “bloccati” ma in qualche modo, non ricordo come e quando, saranno stati invece “innaffiati”. Certo è che sono stata sempre molto incoraggiata dai miei. Forse non mi sono state “tagliate le ali” ed è stata instillata in me, quella fede che mi ha permesso di “volare,” sia pur, devo dire, con sforzo personale elevato. Anche a me è piaciuta tanto la favola di Peter Pan, una delle mie fiabe preferite, specialmente quando ero un po’ più grandicella. Mi catturava e credo non potesse essere diversamente, il motivo dei bambini sperduti, rifugiati nell’Isola che non c’è. “ Peter Pan si era perso da piccolo, allontanandosi dai genitori e non voleva crescere, sicuro di stare bene come stava.” I bambini che non vogliono crescere sono coloro che non sono certi delle loro capacità di “volare.” “Avere fede vuol dire avere le ali, ogni bambino ha un’ isola che non c’è e ognuna è differente.” Solo i “non amati” hanno una grande difficoltà ad arrivarci, se mai ci arrivano. Questo tema mi ha molto colpita fin da piccola, che pur essendo stata una bambina amata, rimanevo impressionata dai racconti di mia madre sofferente per l’allontanamento dalla famiglia, in età infantile-adolescenziale, poiché mandata in collegio dopo la nascita del fratellino. Esercitando la mia professione, ho avuto casi di bambini e ragazzi con la “sindrome d’abbandono” e sinceramente questi sono i casi che più mi hanno pervaso. I motivi del loro grave disagio sono elencati in questa poesia che ho scritto non solo con la mente, come potrebbe sembrare in quanto abbastanza concettuosa, ma anche, direi molto, con il cuore:

MALAMATI,

COME CANCELLATI,

INVISIBILI

NON CI RICONOSCIAMO,

SENTIAMO

NELLA MUTA MORTE

IL GRIDO DELLA VITA,

L’UMANITA’ NEGATA,

LA VOCE:

“ANCH’IO SONO UNA CREATURA.”

Questi motivi ci sono tutti nel bambino abbandonato. Potrei enumerarli uno per uno ed analizzare questi sintomi, ci sarebbe tanto da dire… ma questo non è il momento giusto. Mi basta comunque enunciarli in modo tale che possano dar adito a riflessione, perché veramente lo meritano.

Ancora scintille

Dubbi che continuano: seconda parte – di Luca Di Volo

Vai. . ora che ho preso l’aìre. . chi mi ferma più…

Avevo lasciato un bambino di 10 anni, riempito solo di sentimenti e sensazioni. Completamente privo di idee, aspirazioni e progetti. Questi sarebbero venuti tardi. . molto più tardi.

Ma ora vorrei allargare lo zoom per descrivere l’ambiente formativo in cui è cresciuta tutta una generazione. Qui però devo fare una premessa: quelli che sono nati dieci anni dopo di me (cioè dal’51 in poi), stenteranno forse a credere a quello che dirò…dieci anni di progresso nell’educazione infantile sono un abisso. . per fortuna.

La guerra era finita da poco, anzi , da pochissimo tempo. In un paese ancora in macerie però rimanevano alcune vecchie idee , chissà, forse legate al mito della “romana ruvidezza” di stampo fascista, o al mito della razza, ancora vivo in certi ambienti. . Non lo so. Invece mi ricordo vividamente di qualche veneranda educatrice (o sedicente tale), che tutta immerlettata, sollevando il sopracciglio con l’occhialetto, dava “consigli” alle giovani mamme, come la mia. ”Il bambino non vuol mangiare qualcosa? Glielo rimetta davanti a pranzo e a cena. Vedrà che, spinto dalla fame, lo mangerà per forza…”

E mia madre, povera donna, visto che io non mangiavo nulla , provò anche questa…ma durò poco, appena nel pomeriggio buttò via la pasta al burro che non potevo soffrire e mi dette quello che mi piaceva . Meno male.

Altra sentenza di queste spartane educatrici: ”Il bambino fa i capricci? Per punizione non gli dia la frutta a fine pranzo. . ”Vi rendete conto? Però questo consiglio la mia mamma non ci pensò nemmeno a seguirlo, per mia fortuna.

Insomma , questo era l’ambiente educativo, ora farebbe inorridire qualunque pedagogo. . ve l’avevo detto che non mi avreste creduto.

E poi c’era il famoso “Carrozzone” che con il “Collegio”, faceva parte delle più tremende minacce concepibili. Questo “Carrozzone”, mutuato da Pinocchio (il “Carrozzone di Mangiafuoco), era quello che si portava via i bambini cattivi…Se avessero saputo il male che facevano quelle minacce, poveri genitori, non l’avrebbero certo fatte. Eppure anch’io fui minacciato così: detestavo i carciofi, ma quando mi dissero ”Mangiali o si chiama il Carrozzone”, li richiesi a gran voce. Ora so che questo “Carrozzone” era la minaccia del rifiuto della famiglia, della protezione . . una cosa terrificante. Stesso discorso per il”Collegio” (vedi Gian Burrasca).

Poi si cominciò ad andare a “dottrina” (così allora si chiamava il catechismo). E venne la parte peggiore. Già perché la minaccia non era più il Carrozzone o il Collegio, ora erano le fiamme dell’Inferno, nientemeno. Il Diavolo poteva nascondersi dappertutto, nell’unghia con un po’ di smalto, nella piccola traccia di rossetto. . per noi maschietti, se ci “toccavamo”. . e non si sapeva nemmeno cosa volesse dire.

Ed era il periodo in cui andavano di moda le “Novelle della Nonna”, una serie di racconti dove il Diavolo era l’interprete principale, scritti da una certa Parodi, che Dio l’abbia in gloria…

E noi si leggevano con un piacere sadomaso, felici di esserne terrorizzati. . o forse per esorcizzarli? Non lo so.

Ma tutto non era così ostile. In mezzo a tanti ricordi sgradevoli, so che sono rimaste alcune pietre preziose, scintille nel buio che forse sono state quelle che ci hanno fornito l’appoggio per andare incontro alla vita.

Per me: la Primavera che esplodeva quando si scioglievano le campane il Sabato Santo, la trepida attesa del Natale (per i regali, certo, ma non solo). Oppure quando mi capitò di avere il più raro esempio delle figurine degli animali. . Per chi può capirmi: il rarissimo “Syndetociste”,  che ancora non so cosa diavolo fosse, ma era il numero 600 e con lui si completava la collezione.

Momenti di gioia incredibilmente potenti, e che da allora non ci sono più stati. Anzi. . , l’unica cosa che può ricordarli è la prima trepida scoperta del sesso che però è di molti gradini inferiore (e questo è per i benpensanti. . )

Ma ora è tempo di coronavirus. E mi chiedo se questo momento, così difficile, non possa fare in qualche modo rivivere i bambini che siamo stati, con le angosce ma anche le grandi gioie.

Mi propongo di ascoltare le campane il Sabato Santo, non si sa mai. .

E forse sarà possibile un’altra Resurrezione.

I bambini che siamo stati: nuove scintille condivise

Il filo di Arianna – di Nadia Peruzzi

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Ci vorrebbe un filo di Arianna per andare indietro nei ricordi. Come sarebbe bello avere per le mani un grande rocchetto di filo multicolore da poter srotolare e ricavarne una pellicola in linea continua fra passato e presente.

Invece le immagini,  pur vive,   riemergono come tessere di mosaico spesso sconnesse e scoordinate fra loro.

Difficile trovare l’isola che non c’è di quando ero bambina. Ero un vortice di energia cinetica,  rincorrevo più mondi e era complicato davvero stringerne uno come prevalente.

Ero quella,  almeno così mi hanno raccontato,  che a Roma dove abitavamo fino ai miei due anni e mezzo,  aveva buttato dal 6° piano una scopa,  per fortuna senza beccare nessuno in testa,   e quella che di ritorno da un pomeriggio al caldo sole di Ostia si mise ostinatamente in mezzo alla cucina chiedendo ago e filo perché voleva cucire.

Eppure il mondo delle bambole e dei vestiti,  si è scoperto dopo,   non faceva proprio per me. Noioso lo stare seduta a vestirle e spogliarle. Noiose le bambine con cui avrei dovuto fare quel gioco. Ero da meccano,  io. Ero un maschiaccio. La mia isola di allora era popolata di amici maschi con cui si giocava a biglie e tappini,  o si faceva a gara a chi vinceva le figurine dei calciatori famosi tirandole il più possibile vicine alla facciata della chiesa.  Il massimo dei massimi veniva fuori quando qualcuno bravo assemblava le assi delle cassette di frutta per tirarne fuori l’abbozzo di un go kart montato su cuscinetti ruotanti che facevano un baccano infernale.

Che corse e che botte prendevo e che gran sbucciature sui ginocchi mi ritrovavo,  un giorno si e l’altro pure.

Esuberanza e fin troppa energia fecero si che arrivata in prima elementare,  la maestra si vide costretta a darmi il compito di annaffiare i fiori del giardino. Non c’era verso di farmi star seduta per tutto il tempo delle lezioni. Fu una fase di passaggio e di compromesso che durò poco  visto che man mano stavo imparando a gustare il tempo della quiete. In classe e fuori.

In molte di quelle tessere di mosaico ho in mano dei libri. I regali più ambiti quelli del giorno della Befana,  era lei che li portava allora,  erano loro. Ricordo come fosse ora la copia del Pinocchio della Giunti con la sua copertina blu e la gioia che provai appena lo vidi in bella mostra sulla cucina economica,  sotto la cappa. Il burattino era a tutta pagina col suo vestitino verde.

 Il gusto di sfogliare le pagine delle Novelle italiane di Calvino lo provai subito dopo.  Fu un modo di entrare in contatto con questo strano e complesso paese attraverso le storie fantastiche che lo punteggiavano da Nord a Sud.  Gobba,  zoppa e collotorto non me la sono dimenticata più.

Era un accavallarsi di personaggi e storie in cui era facile perdersi.  Un mondo in cui tutto era possibile,  nulla scontato e sempre una scoperta di seguito all’altra.

Su tutti un eroe senza macchia e senza paura Robin Hood,  che non aveva nulla dei super eroi di oggi,  super accessoriati ma senza nemmeno una pallida idea della lotta di classe che cambia il mondo.

Invece li nel cuore della storia medioevale si prendeva ai ricchi per dare ai poveri e si imparava cosa voleva dire il giusto e l’ingiusto.  Come si poteva fare a stare dalla parte dello Sceriffo di Nottingham? Non c’era verso. Era lui,  il magico Robin alfiere di giustizia sociale e di redistribuzione di reddito ante litteram,  a scaldare il cuore e a farlo battere come nessuno.

Il tempo della quiete di allora era senza la televisione e il suo intrattenimento.  Bastava poco per inventarsi modi per intrattenerci . Spesso erano cose semplici,  ma appaganti.

Andare a fare insalata nei campi con mia nonna si trasformava in una avventura che dava grandi soddisfazioni.  Vuoi mettere imparare a riconoscere lattugaccio,  cicerbite,  rosolacci e tutto quello che poi finiva in saporite e variopinte insalate o in frittate spesse e profumate. Ad ogni piantina raccolta e messa nel cestino,  si pregustava il dopo.

La raccolta degli anemoni era per i giorni festivi.

Con mamma e babbo. Era bello camminare per i campi in mezzo a quelle distese colorate di viola,  rosso e bianco. C’era solo l’imbarazzo della scelta . Spesso era una gara a chi ne raccoglieva  di più. Erano momenti felici in cui si assaporava con la dovuta lentezza ciò che la primavera incipiente recava con sé. Le prime rondini che rientravano nei nidi,  le nuvole che col vento teso si perdevano in giochi di forme incredibili,  le gemme che si aprivano con esplosioni di rosa e di bianco. Ci si accorgeva di tutto allora: eravamo meno distratti e sottoposti alla dittatura degli orologi e dei cellulari che,  del resto erano di là da venire.

I sogni venivano fuori facili facili. Una volta correvi in un campo pieno di tulipani,  un’altra rischiavi di cadere in un ruscello per arrivare a cogliere delle viole a mammola.

Peccato non ricordarseli a distanza i sogni.

Quasi come fossero bolle di sapone si accendono,  prendono vita,  decidono la loro direzione,  poi. . di punto in bianco,  di solito sul più bello,  pof,  scoppio,  soprassalto e da sveglio dimentichi quasi tutto subito.

Ci sono sogni che non ho cancellato però. E so che erano a colori.

Erano popolati di guerrieri romani che se le davano di santa ragione in scene di massa che avevano dell’incredibile a ripensarle oggi. Erano i tempi dei Kolossal quelli. Spartacus,  Ben Hur e tanti altri di cui in sogno riadattavo le pellicole prendendo pezzi ora dall’uno,  ora dall’altro.

Ci sono i ricordi  dei lunghi mesi al mare a Genova dai parenti. Il momento delle ferie del babbo e della mamma che passavamo in montagna sull’appennino ligure.  Le gran camminate,  alcune controvoglia in verità,  sono ancora in un cassettino dei ricordi che fanno star bene,  come la visione della catena delle Alpi oltre la foschia della pianura padana dopo un temporale estivo che ripuliva l’aria. Le vedevi  risplendere con i loro abiti bianchi e lucentissimi quasi come ballerine della Scala allineate,  compostamente maestose,  prima di un loro esercizio.

Altri ricordi sono  vestiti dell’ allegria e dei colori della vendemmia nei campi dietro casa che pullulavano allora di case di contadini .

Mi rivedo sul carro carico di ceste ricolme di uva,  con le mani tutte appiccicose e la bocca segnata da baffi violacei per il troppo spiluccare di chicchi zuccherosi durante la raccolta.

Mi rivedo,  tutta accaldata,   nell’aia e poi al fresco della grande cucina col suo immenso camino. Sul tavolo,   il bicchiere per i più piccoli riempito di acquerello.  Come mi affrettavo a prendere il mio per paura che qualcun altro arrivasse a prenderlo per primo.

 L’isola che non c’è ,  non c’è più da tanto tempo ormai o ha cambiato pelle irrimediabilmente non aveva bisogno di ali per volare. Aveva piedi ben piantati in terra,  lavorava la terra,  la madre terra punto di riferimento di tutte le cose.

Respirava semplicità ma era tutto meno che sempliciotta. Aveva il cervello fino dei contadini che hanno popolato le campagne della Toscana e quelle che ho potuto sperimentare da vicino qui  ad Antella almeno fino alla prima metà degli anni 70.

Persone magnifiche spesso parche di parole ma con occhi che erano in grado di dire già tutto da soli.

Era bello quando il babbo e la mamma si fermavano a chiacchierare con loro durante qualche nostra passeggiata. Non capivo proprio tutto allora,  ma percepivo che l’orizzonte di quei discorsi era ampio,  si posava sul mondo,  non stava chiuso dentro il limitare di quelle aie.

Certo al babbo e alla mamma che sapevano impegnati in politica parlavano dei loro problemi più spiccioli ma era solo il modo per avviare il discorso.  Poi c’era il comune,  il paese o quello che succedeva anche in paesi molto lontani dalla calma rasserenante di quella campagna.

Spesso non avevano fatto tanta scuola ma li ritrovavi a leggere L’Unità da cima a fondo al circolo,  e erano disponibilissimi aprire le loro case in tempi di elezioni per riunire quante più famiglie vicine. Accompagnando mia mamma qualche volta in quelle immense cucine ho potuto incontrare anche una trentina di persone. E venivano tutti. Donne,  uomini,  giovani e vecchi!

Penso con commozione a quei momenti che considero importanti per la mia formazione.

Adesso capita che incontri alcuni di quei giovani che sono invecchiati e hanno fatto e fanno altro da tanti anni ormai .  Le case quelle belle e solide case ,  quei poderi son passati ad altri,  professionisti fiorentini per lo più,  scarsamente interessati alla terra,  molto più al quieto vivere di una villeggiatura goldoniana a due passi dalla loro professione cittadina.

Nulla è stato più lo stesso.  Perso quel tessuto si è smarrito un bel pezzo di quella civiltà. Son rimaste le coltivazioni. Olivi e vigne sono sempre lì sembrano uguali a sé stessi di un tempo,  ma non è così. Manca la vita che brulicava intorno a loro e quelle passioni anche civili che erano il bello delle nostre campagne .

Se penso che i prodotti che acquistavamo venivano quasi sempre da quei terreni e da quei poderi la nostalgia si fa rabbia.  Il chilometro zero era una realtà allora e sapeva di buono. Adesso come in un gioco dell’oca dopo aver corso in lungo e in largo ci accorgiamo che il bello stava già li vicino casa. Ma dobbiamo ricostruirne le reti con nuove energie mentre la sapienza di un tempo si è liquefatta e dispersa insieme alle figure in carne ed ossa che sono state protagoniste di quella stagione.

Ne avevano viste di cotte e di crude e non avevano perso né fierezza,  né tenacia. Solidi come i terreni che lavoravano,  pochi fronzoli,  consapevoli di aver fatto camminare la storia anche con le loro gambe e il loro ingegno. Ed era stata storia di cambiamento reale e positivo nella loro condizione di vita e in quella del paese intero.

Mi rendo conto che nel pensare all’isola che non c’è lo sguardo volge al passato.  

Potrei scrivere chissà quanto se decidessi di mettere in fila anche altri pezzi di quelle tessere ballerine che il mosaico restituisce frammentate .

Sento che fa bene questo cercare rifugio nel passato.

È rilassante lasciarsi cullare dalla nostalgia affondandoci fino al collo come se fosse una vasca piena di schiuma profumata  o il caldo ventre materno,  o una placida distesa di acqua senza increspature.

Il virus sembra lontano e l’acqua con le sue trasparenze e il suo potere purificatore,  si fa cura dei mille pensieri negativi che ci accompagnano in questi giorni grigi.

Per farmi forza cerco di dirmi che passerà e che forse in poco tempo avremo messo tutto nel cassetto di fondo dei pensieri e dei momenti cattivi,  quelli che cerchi di spingere con tutta la forza che hai perché smettano di creare ansia.

Mentre provo a fermare sulla carta le diapositive a colori del tempo che ho attraversato,   il Peter Pan che è dentro ognuno di noi prende vita,  in un fruscio le ali si spiegano e si può volare.  Fa bene guardare anche per poco tempo il mondo dall’alto. Sembra un’oasi di pace visto da lassù !

I bambini che siamo stati: ancora scintille condivise

E’ stato allora che ho cominciato a sognare – di Stefania Bonanni

Ricordo tutto, e non importa se ricordo bene. Ho sempre pensato che quello che si sogna, quello che si pensa,  quello che si legge, quello che si sente, conti come quello che succede. Sono stata bambina curiosa di parole, di storie improbabili, impossibili ancora meglio. Ho letto grandi libri quando forse non era il momento, ho mescolato paesi, epoche, avvenimenti, vite di donne eroiche, cristiani delle catacombe e partigiani della resistenza. Ho ripensato, shekerato come quando si mescolano colori, e non siamo sicuri del risultato. Ho sempre trovato, quando ho avuto bisogno, le parole che mi servivano. Come in un armadio pieno di vestiti, dove non è facile vedere alla prima occhiata quello che c’è dentro, ma si sa bene che troveremo un vestito giusto, magari inadatto alla situazione, con il quale ci sentiremo fuori luogo,  ma che è quello, solo quello, che ci serviva oggi.  E l’armadio può essere pienissimo,  noi siamo sempre sicure che quel cappotto nuovo si farà un posto, un posto suo nei pensieri tuoi. Le parole belle. Ho armadi, cassettiere, comodini,  pieni di parole belle. Che fanno capolino solo mentre scrivo, assolutamente sempre incapace di trovarne mentre parlo. Sempre stata così.  Solo tra me e me, calo il secchio nel pozzo e pesco quello che mi serve. Quando parlo mi perdo negli occhi di chi mi parla, e mi sciolgo di tenerezza,  o ci leggo quello che non mi piace, e allora mi ritiro, non voglio più usare belle riserve, o sono sopraffatta da lampi di astuzia,  che mi è sconosciuta,  o di sapienza pedante, che mi incute rispetto, ma mi annoia. E non uso le stesse parole,  Non le cerco laggiù , rimango sempre a galla, ondeggio a morto, con gli occhi al cielo.Ma se scrivo,  riesco a dire quello che volevo, quasi sempre.

Ricordo tutto. Mi ricordo gli odori, i colori, le sensazioni. Mi ricordo benissimo un periodo  nel quale ero assolutamente certa fosse tutto immobile, all’in fuori di me. Non succedeva nulla. Mai nulla. Era estate. Era finita la scuola. Si, sarebbe poi cominciata di nuovo,  ma di certo sarebbe stato un anno uguale a quello già trascorso. Non succedeva mai nulla. Le vacanze d’estate erano una pagina bianca. Tutto il giorno steso davanti, da riempire e da rispettare, cadenzato da segni della Croce, e orari.  Orari per alzarsi al mattino. Scuoteva il letto,  la nonna, biascicando Ave Marie fin dall’inizio del giorno.  E ci faceva alzare,  lavare,  fare colazione. Poi, fuori. Nel campo, all’Arno, a chiamare Sandro, Fabio, Laura. Si rientrava a mezzogiorno,  io e mia sorella.  Ci si lavava, pettinava,, e si andava a tavola. Il babbo, a capo tavola, la mamma accanto a lui, la nonna a quell’altro capo tavola, quello vicino alla stufa, io e la Sonia accanto, su l’altro lato lungo della tavola rettangolare, con le gambe dipinte di bianco ed il marmo sul piano. Si mangiava in silenzio,  la voce in sottofondo era il giornale radio, e proprio era vietato parlare,  Si potevano perdere notizie importanti, succedevano cose nel mondo che da quaggiù non si aveva idea. Non erano pranzi sereni. Io non mangiavo mai, ma facevo finta, e loro facevano finta di credere mangiassi. Poi, e quello aspettavo, arrivava il riposo dopo pranzo. In camera, il caldo era denso, appiccicoso, ma la sensazione era di riposo fresco. La finestra che dava sull’orto era accostata,  gli scuri di legno chiusi sui vetri per fare ombra, lo stoino di canne abbassato. Il copriletto rosa di tessuto damascato regalava un benvenuto fresco e scricchiolante, appena ci si appoggiava. E non importa ricordare che dopo cinque minuti era un lago di sudore, che quella stoffa non assorbiva. Il riverbero della luce di fuori filtrava a strisce dallo stoino di canne, amplificandosi sul muro. Le strisce in basso diventavano larghissime e nere, quelle più  su erano sempre più  fini e dorate, fino a scomparire proprio sotto il soffitto.  Dal letto,  la parete davanti agli occhi, si muoveva un mondo miracoloso. L’aria diventava visibile. La penombra e il sole mostravano gioielli dorati che svolazzavano luminosi riempiendo di brillanti spazi che sembravano deserti. Erano insetti, o farfalle, o polvere, o brillanti, o stelle, o microbi, o fantasie. Erano bellissimi. Non so quanto tempo sono rimasta a guardare, sommando tutti i giorni di tutte le  estati da bambina, penso molte ore. Credo che questo mi abbia influenzato. Voglio pensare di aver sognato, da allora.

I racconti del contagio – Sorridere per sopravvivere

Sorridere e sopravvivere: l’angolo di Simone Bellini

LA VITA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

                                      RACCONTI DEL CONTAGIO

                                                GIGLERdi Simone Bellini

Guarda che sole ! Che giornata splendida, di quelle che t’invogliano ad uscire in questi giorni di isolamento forzato.

In tempi normali non ci avremmo fatto caso, presi com’eravamo dal lavoro. Adesso che avremmo tutto il tempo, obbligati all’oblio lavorativo, non possiamo uscire, reclusi in casa !

Ma io No ! Ho la mia carta vincente , IL CANE !

Basta agitare il guinzaglio ed eccolo arrivare,  scodinzolante, di corsa a quel richiamo familiare e liberatorio dalla monotomia casalinga.

Uscire, portare fuori il cane per i suoi bisogni è una delle pochissime libertà concesse. Allora viaaa!

Il portone, chiuso sbattendolo normalmente, sembra infrangere la barriera del suono in quel silenzio assordante.

Gigler ( il mio cane ) abbaia ad un gatto accovacciato sotto una macchina parcheggiata, ma si blocca quasi impaurito dal suo frgore amplificato da quell’aria rarefatta,insonorizzata, inquietante.

Attraversando il deserto cittadino arriviamo al prato, solito ritrovo dei cani che si portano dietro i loro padroni. Un’ oretta di chiacchere a debita distanza e poi il mesto rientro verso casa.

Mentre infilo la chiave nella toppa mi raggiunge la voce del coinquilino alla finestra:

– Hai fatto la giratina Gigler? Bello là fuori vero ? – poi rivolto a me – Me lo presti ? –

– Cosa ? –

– Il cane –

– Coome ? –

– Sii, ti prego, non ne posso più di stare quì dentro, sto diventando claustrofobico, voglio uscire, ti prego ! –

– Ma……!!! –

– Ti prego, ti prego, solo un’oretta !………..CINQUANTA EURO ! Ti dò cinquanta euro !!! Ti pregooo ! –

 Da un’ altra finestra : – Ehi Simone, dopo tocca a me ! –

E’ passata una settimana,……ho preso altri sei cani al canile !

Gli affari vanno a gonfie vele !

” AFFITTO CANI DA PASSEGGIO : 1 ORA 50 EURO, 2 ORE 90 EURO “