La prima rosa al Bigallo

PADRE E FIGLIO – di Elisabetta Brunelleschi

foto di Elisabetta Brunelleschi

Stamani sono salita al Bigallo. Lassù c’è la casa dove sono nata. Da quando la mamma non c’è più io apro le finestre, sistemo, riordino, elimino, curo i fiori. Accanto c’è quella delle zie e anche lì gli stessi gesti tra antichi mobili e aiuole disordinate, fitte di fiori e di arbusti.

Sono entrata nel parcheggio semivuoto e in fondo, dove è più largo, vedo Franco con il figlio: stavano giocando a pallone. Il babbo era vestito come fosse nell’allenamento di un’importante squadra: maglietta tecnica a maniche lunghe, pantaloncini neri con sotto una calzamaglia grigia e ai piedi un paio di scarpette da vero calciatore. Dado aveva un toni blu, ma anche lui calzava le scarpette chiodate. Erano uno di fronte all’altro, dado il portiere e il babbo che lanciava il pallone mostrandogli come posizionare i piedi e le mani.

Chiusa l’auto mi sono avviata verso il cancello, mi ero ripromessa di sistemare i vasi, concimare, potare qua e là, togliere i rami secchi.

Ho lavorato per più di due ore accompagnata dai tonfi leggeri del pallone e dalle voci sommesse dei due giocatori.

Dopo un po’ non li ho più sentiti, scomparsi?

No, li ho visti riapparire in leggera corsetta intorno al parcheggio, parevano molleggiare sul prato verde di un campo regolamentare. C’era stato l’intervallo merenda. Poi il pallone ha iniziato di nuovo a balzare. A mezzogiorno sono saliti in casa.

Ci siamo salutati. Franco avrebbe preparato la pastasciutta. Gemma, la mamma, era al lavoro.

È stato un mattino di tranquillità, con il sole che lentamente si allungava a accarezzare i fiori già sbocciati, le gemme gonfie del diospero, le foglie tenere delle rose.

Dopo i divieti dell’ultimo DPCM che all’improvviso ci son caduti addosso, costringendo molti a rinunce e lasciando alcuni nel dubbio di cosa si poteva o non poteva fare, il Bigallo mi era parsa l’unica scelta possibile.

E lassù nel silenzio e nella pace, complici i divieti e le vacanze forzate, un padre e un figlio giocavano insieme.

Sarà alla fine questo il modo per sconfiggere i contagi?

In silenzio parlava d’amore

 Sara – di Vanna Bigazzi

“Come va Sara ?”

“Adesso un po’meglio ma sono stata male, anche dentro.”

“Come mai?”

“Mi sono sentita più sola e più triste del solito…neanche la mamma in questo periodo era presente, a causa di una cugina ricoverata. Ho pensato tanto, non potendo fare altro… ho pensato a quando ero piccola e trascorrevo le estati con i nonni, in campagna.”

“Stanno in campagna i tuoi nonni?”

“No, ma passavano le estati là, nel Mugello, in una casa vicina a quella di una famiglia contadina.”

“Ti divertivi in mezzo agli animali?”

“Si, mi sembrava di essere un’altra, più vera, più dentro la vita, più normale.”

“Cosa ti piaceva?”

“Il risveglio al mattino, prestissimo, al canto del gallo, gli odori buoni che entravano dalle persiane socchiuse: un’aria densa e fresca di erba,di stalla, di latte. Non so, un misto di profumi che mi faceva gioire. Ero contenta allora, di una contentezza che poi non ho più provato.”

“Ed i tuoi, venivano a trovarti?”

“Si, alcune volte ma sinceramente non mi importava molto di loro, ero contenta così, con i miei nonni, con la loro cagnetta Diana, molto brava nella caccia alla lepre, ma soprattutto perché potevo andare dalla Gina, la moglie di Pippo, il contadino che abitava poco distante da noi, nella colonica. La Gina mi piaceva tanto: aveva molte rughe nel volto ancora giovane, la pelle scura per il sole nei campi, occhi comprensivi ma soprattutto un sorriso molto dolce e sincero. Quando mi vedeva arrivare ed affacciarmi alla porta della sua casa, quasi sempre aperta, mi chiamava, mi invitava ad entrare e senza chiedermi niente, estraeva dalla madia un grosso filone di pane profumato, ne tagliava una fetta e mi preparava la merenda, quasi sempre pane, olio e sale oppure pane vino e zucchero. Mangiavo e la guardavo, lei silenziosa mi accarezzava i capelli.”

“Hai visuto bei momenti…”

“Si, non mi mancava nulla allora…”

“E poi?”

“Al rientro in città, tutto tornava ad essere vuoto, mi mancava il sorriso della Gina e a quei silenzi si sostituivano i chiacchiericci e gli schiamazzi delle amiche della mamma: donne che parlavano tanto senza dire niente, non come la Gina che nel suo silenzio mi parlava d’amore.”

La panchina

La panchina – di Nadia Peruzzi

La panchina sembra nata insieme a loro. Forse l’han messa lì proprio per loro. Hanno finito di invecchiarci sopra parlando del più e del meno.

A volte circondati da ragazzi che si divertivano a farli arrabbiare con i loro scherzi innocenti.

Più spesso da adulti che potevano essere i loro figli.

Son sempre stati due compagnoni Gino e Michele per questo il gruppo che si riuniva attorno a loro,  col passare del tempo, era diventato sempre più numeroso.

Sapevano raccontare storie tutti e due. Ognuna era un affresco su mondi di cui non sono rimaste che poche tracce.

Le baldorie sull’aia dopo la vendemmia e la mietitura.

Le case e i fienili,  che erano stati rifugio dei partigiani che avevano aiutato durante la Resistenza.

La rinascita dopo la lunga notte del fascismo e della guerra e il cambiamento cui avevano assistito almeno fino ai primi anni 70.

Con i lavori dell’Autostrada erano arrivati anche nuovi amici,  molti venivano dal Sud o dalle zone più depresse e povere della Toscana.

A ogni racconto brillavano gli occhi, ora all’uno,  ora all’altro. Erano lampi di luce di una storia collettiva della quale si erano sentiti parte attiva.

Era arrivata fino a loro e alle loro famiglie e aveva contribuito a cambiare le loro condizioni di vita.

Poi era arrivato il periodo cupo, quello della confusione. Le vecchie certezze tramontate senza essere state sostituite da passioni altrettanto forti e da qualcosa di nuovo che fosse in grado di scaldare il cuore veramente.

Quella panchina verde con lo smalto sbollato e la ruggine che faceva capolino le aveva seguite tutte le loro peripezie.

Sembrava le avesse assorbite come una spugna per ritrasmetterle appena qualcun altro fosse riuscito a sedercisi.

Eccoli qui anche stamani nel giorno 1 della zona arancione applicata su scala nazionale.  Mogi, sguardo basso,  parole che faticano a uscire. Cosa inconsueta per loro così ciarlieri !

Ognuno aspetta che sia l’altro a partire. Ma non c’e’ gran voglia di commentare quello che li costringe a un arrivederci a chissà quando.

Gino, per evitare di scoppiare,  decide di dare il via.

-“ Allora,  hai sentito a che punto siamo? L’hai sentito Conte ieri sera?”

-“Macché,  avevo gente a cena. M’ha detto qualcosa l’Argia stamattina,  ma era più in confusione del solito e in verità un c’ho capito nulla”.

-“Gente a cena?O che s’è matto! Ora per un bel pezzo nisba, mi raccomando. Ognuno a casa sua e tutti tranquilli!Questo virus Corona sembra sia proprio una brutta bestia e bisogna vedere se stando in casa si riesce a sconfiggerlo! Sembra d’esser tornati al tempo di guerra, vero Michele?Ci bombardavano con bombe vere allora. Quante se n’è viste cascare e che paura con quei figliolini piccini che piangevano a ogni scoppio.  Ora ci bombardano a suon di notizie e così tanto che i morti sembra di averli in casa”.

-“Davvero, sai?Io la televisione la tengo quasi sempre spenta se no l’Argia la si deprime e io la seguo a ruota”.

-“Sie, la mia Giovanna l’è dura come un macigno. Dalla mattina alla sera davanti alla tv. Quando si parla in casa la mi pare diventata un’epidemiologa anche lei”.

-Comunque, Gino anche per noi qui la si fa dura. S’ha una certa età e bisogna stare parecchio attenti. Il giardino oggi è vuoto o quasi e a me di stare a distanza di un metro e mezzo un mi va mica.  Sento arrivare la solitudine a partire da un metro, figurati a di più.  Le persone, tu lo sai, mi piace sfiorarle, sentire i profumi che si portano dietro. Anche se sono solo del lavoro che fanno sanno di buono, sanno di vita”.

-“Lo dici a me che io ho pure il vizio di toccarle al braccio mentre parlo. Ora non si può fare, vietatissimo!”

-“ La sala carte chiusa, non si può nemmeno andare a vedere da fuori le finestre tanto un c’e’ nessuno. Cinema chiuso. Al bar del Circolo, per prendere un caffé misurano la distanza di sicurezza e c’e’ il caso che ti facciano fare la coda anche fuori dal bar! Che vita è questa?”

-“E lo so. Per un po’ ci toccherà stare di più alla tv lo sai che barba. Poi con la Giovanna penserai mica che il telecomando mi tocchi a me. Quindi parecchie ficsion d’amore e poco sport sicuro!”

-“Speriamo passi presto sto can can. Mi sta già venendo l’ansia a pensare di non uscir di casa. A far la spesa ci manderò i mi figliolo, l’Argia altrimenti le son più le cose che la si dimentica che quelle che la porta a casa!Via,  s’è fatta ora di pranzo. Bisogna ti lasci Gino. Ti abbraccerei volentieri,  ma un si pole”.

-“Michele ho visto in tv come si fa. Ci si tocca gomito con gomito. E’permesso. Oppure stando bene attenti a non perdere l’equilibrio si può anche toccarsi piede con piede”.

-“Noi che se n’è passate tante una così ancora mai vista. Nemmeno durante l’Asiatica del ‘69. Via, peniamo poco a salutarci che se no mi vengono i lucciconi.

-“Guarda te un virus icché ci fa fare! L’è un cambio di abitudini di nulla! Panchina,  mi raccomando aspettaci,  tanto si dovrebbe tornare presto. Non tradirci nel frattempo. Due come noi non si trovano mica spesso”.

-“Ciao,  Gino. Mi raccomando il telefonino tienilo a portata di mano che io senza sentirti almeno una volta al giorno mica ci so stare. ”