Quella volta che fui io l'”untore” – di Stefania Bonanni

Mi è venuto in mente solo oggi, e questo è davvero strano. Fu un momento difficile della mia adolescenza, strano sia scivolato giù in fondo, tra i ricordi poco importanti.
Fu quando fui io l’untore.
Mi ammalai, ed il paese tremo’. Un paese di mezzo secolo fa, popolato da persone ingenue, niente a che vedere con gli specialisti di oggi. Dopo che andai in ospedale, mi raccontarono di chi si avvicinava a casa mia per chiedere notizie, e avvolgeva nel fazzoletto o nel grembiule, il dito con il quale intendeva suonare il campanello. E chiacchiere, chiacchiere. ..Ero grave, chissà. .
Io non avevo mai dormito fuori casa. Avevo quindici anni. Era la fine della prima superiore. Estate, all’inizio. Mi porto’ il mio babbo tra le braccia, a Villa Monnatessa, reparto malattie infettive, isolamento strettissimo. Vedevo i miei genitori dietro alla porta a vetri che non serviva per passare, non si apriva mai. Mi raccontavano quello che succedeva in paese, la paura che circolava, la gente che andava a farsi analisi. All’inizio stavo male, ricordo flebo e punture. Appena mi sentii meglio tentai di ribellarmi. Avevo sempre fatto grandi sceneggiate, ogni volta che la mamma o anche il dottore di famiglia intendevano bucarmi il sedere, scappavo, strillavo, a volte esasperati avevano lasciato perdere. In ospedale, e questo lo ricordo come se fosse ieri, un infermiere grosso come un armadio mi acchiappo ‘ al volo e disse tra i denti, e quello fu davvero spaventoso, che non avevo scampo, potevo anche scappare, mi avrebbe sempre ripreso. E lasciai mi bucassero. Poi, dopo giorni di sole flebo, intendevano darmi i pasti dell’ospedale, non poteva entrare cibo da fuori. Allora si, che feci storie…non mangiavo a casa mia, figuriamoci. ..digiunai, feci la dura per qualche giorno. Poi una virago più larga che lunga mi spiegò che non sarei guarita, mi dimostrò che non mi reggevo in piedi. Da lì in poi decisi di essere diventata grande. Ero sola, dentro uno stanzone con soffitti a volta altissimi, dove rimbombavano le parole e rimbalzavano gli sfrigolii dei carrelli degli infermieri. Poi, nulla. Ore e ore, e giorni, settimane, nulla. Facevo parole crociate e leggevo. Quaranta giorni. Avevo l’epatite virale. Non ricordo di aver avuto paura, né dell’ospedale, né della malattia. Non era coraggio, semplicemente c’era chi si preoccupava per me, mi guardava dal vetro con occhi teneri, e mi fidavo.
Un pensiero però mi turbava moltissimo. Era stato spiegato ai compaesani che solo chi avesse avuto con me contatti stretti con scambi di secrezioni, era a rischio. “Nessuno”, dissero i miei genitori “figuriamoci, ha quindici anni!” E invece c’era chi era in pericolo. E allora? L’avesse saputo il babbo, l’epatite virale sarebbe sembrata una passeggiata di salute, al confronto. Non potevo chiedere, Non sapevo cosa succedeva fuori. Un giorno dietro la porta a vetri c’era anche mia sorella. Le passai sotto la porta un bigliettino che avevo scritto in forma molto criptica, dove chiedevo mi rispondessero per scritto tutti i nostri amici, tutti…con i saluti, ed un pensiero per me. Giorni dopo il biglietto arrivò, con le frasi di tutti, scherzose come sempre. Accanto ad un certo nome c’era scritto: tutto bene, fosse necessario piglierei anche il colera. .Mi rasserenai, e da lì in poi feci solo pensieri romantici.
Grande Stefania … E’ facile esser etichettati come untori ..adesso poi facilissimo.
Sopravviveremo anche a questo! Spero di uscirne prima possibile !!
Effettivamente ci sono ricordi che stanno nei cassetti di fondo e riemergono sotto la spinta di altre cose..
Vale per me il ricordo che NON è dell’epidemia del 1969 eppure avevo 17 anni . 13milioni a letto e 5000 morti uno se li doveva esser segnati in agenda .. Eppure no .Forse perché l’informazione era meno martellante di oggi? Eppure l’Istituto Luce conserva un documentario sulla cosa…
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Il mio di isolamento fu quando avevo cinque anni. Era ottobre. Lo ricordo bene. All’epoca si poteva morire di scarlattina e un bambino poco più grande di me, vicino di casa, era morto da poco di quella stessa malattia. Mi ricordo il funerale, la cassa piccola tutta bianca, i suoi genitori. Io la sfangai con oltre un mese di letto e dieta senza sale. Mi ricordo che mia sorella che era molto piccola viveva nell’altra metà della casa con mia nonna e io ero assistita dalla mamma. Loro non potevano incontrarsi e rimanemmo così, isolati in casa in due gruppi nettamente separati. Mi ricordo la mancanza di contatti, mi ricordo il sapore insipido di quelle paste al pomodoro, belle a vedersi e cattivissime di sapore. Mi ricordo quei giorni pieni di libri che mi portava mio babbo, la nostalgia della nonna e della sorellina, mi ricordo quando alla fine vennero dei signori incappucciati a disinfettare tutta la casa, mi ricordo quando mi rimisi in piedi e non sapevo più camminare. Mi ricordo che mi annoiavo ma che non avevo paura. Mia mamma però deve averne avuta tanta! E mia sorella non prese la scarlattina!
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Anche io sono stata in isolamento sola e incinta. … Capisco quel che dite.
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Storie vere, vite che sembrano lontane e sono solo ieri….
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