Paura paura quasi terrore

Paura – di Roberta Morandi


Camminavo con la mezzina  in mano che quasi toccava terra, tanto era sproporzionata rispetto alla mia altezza. Avrò avuto sette anni o poco più, sì perché mia sorella era già nata ed ero io che dovevo occuparmi di andare a prendere l’acqua buona al pozzo dei Tortoli.
Dovevo fare la salita, oltre l’ultima casa stonacata, poi solo campi e un viottolo, il piccolo cancello di ferro arrugginito che cigolava sui cardini secchi, ed ero arrivata al giardino col pozzo dove avevo il permesso di attingere l’acqua.
Era una serata fresca di fine estate, indossavo un vestitino a fiori, infilato in vita e con le maniche corte, fatto dalle sapienti mani della Luciana, non era ancora buio, ma neppure era giorno, era quell’ora in cui le ombre si allungano e sembrano prolungare il cammino, quell’ora in cui aspetti il momento del buio che arriva in un attimo.
Avevo cincischiato a lungo prima di andare, la mia mamma aveva dovuto ripetermelo più volte “vai  che poi non ci vedi”, ma io quel giorno non avevo voglia di andare a prendere l’acqua al pozzo, poi avevo dovuto  e mi ero incamminata.
Quella sera c’era una luna piena bellissima e grandissima davanti a me, illuminava tutto è mi ripetevo che anche se fra poco avrebbe fatto buio, ci avrei visto benissimo. Camminavo e fantasticavo su quella luna così grande rispetto alla collina di Montisoni che si intravedeva ancora, quando si affaccia alla finestra della casa stonacata una ragazzina poco piu grande di me con cui a volte giocavo, ma spesso mi prendeva in giro chiamandomi maschiaccio per la mia abitudine di stare in pantaloncini corti e giocare coi maschi a fionda o cerbottana. 
Mi sento chiamare e poi ridere – dove vai con quella mezzina? Non vedi che fa buio tra poco?-  Io che ero una bambina educata anche se giocavo coi maschi, le rispondo che stavo andando al pozzo dei Tortoli a prendere l’acqua.
– Ma lo sai che lassù, la vedi quella lucina?, ci sta una vecchietta  che scende in paese quando c’è la luna piena e viene a prendere i ragazzini soli?
Quelle parole con quella luna  in quella penombra, mi si stamparono nella mente e  in un attimo quelle ombre allungate e quella finestrella illuminata sulla collina di Montisoni presero la forma delle mie paure più profonde e nere. Rimasi lì impietrita, incapace di avanzare o arretrare, con la mia mezzina vuota stretta nella mano. Una lacrima cominciò a scendere lenta fino all’angolo della bocca, mentre la ragazzina dalla finestra rideva – fifona, fifona, sei solo una fifona –
Aveva ragione. La paura si era impossessata di me e non mi permetteva alcun movimento, solo le lacrime potevano uscire liberamente, bagnando il viso e il vestitino a fiori. Non singhiozzavo, ero immobile, pietrificata.
La paura, quella paura era diventata terrore.
Oggi, da grande, ho imparato a ironizzare sulle parole della paura per non farle diventare terrore.

Due parole: paura e fiducia

Paura e fiducia – di Chiara Bonechi

Quando arriva il primo freddo ho paura che il gelo della notte rovini le mie piante, in particolare temo per il mantofilo e per l’ azalea, mi precipito a coprire i due grossi vasi con i cappucci di carta stoffa sperando di proteggerli.

A primavera, scoprendoli, trovo le piante un po’ abbattute ma pronte a tornare vigorose.

In questo momento difficile dominato dal virus che si sta diffondendo, ho paura per l’impotenza che noi umani abbiamo verso l’imponderabile.

La paura che sento non degenera in panico, è lieve, il giusto sentire che mi impone di fare attenzione perché i contagi si riducano.

Attenzione dovuta a me e agli altri, una necessaria copertura come i cappucci per le mie piante.

Non sono sicura che le cautele igieniche e qualche restrizione alla nostra libertà di agire ci protegga  da questa brutta malattia ma so anche che di più non possiamo.

Limitare le scelte, gli incontri, i movimenti è faticoso, ci accorgiamo della nostra fragilità quando la quotidianità si interrompe ma lo sforzo è importante per contenere i danni e per il rispetto che dobbiamo alla vita.

E quando potremo spogliarci dalle restrizioni torneremo ad essere forti e pronti a ricominciare, io ho fiducia.

Le “Parole del Piccolo Mondo” – di Jolanda V.

Gli autori di questa sezione hanno collaborato al progetto di scrittura creativa “La Matita per scrivere il cielo” come ospiti esterni, regalandoci immagini e ricordi di quello che loro stessi hanno definito “Il Piccolo Mondo”, cioè il mondo antico della vita quotidiana, che risalta vivida e appassionata.

Il rosa del pepolino – di Jolanda Vignoli

Sono nata nel Casentino. Il mio paese era di montagna, c’era sempre la neve alta, il lume a petrolio, il foco per riscaldarsi, le mezzine per prendere l’acqua alle fontane. Si chiamava Cozzo, vicino a Montemignaio. Nevicava sempre tanto. Quando s’andava a scuola d’inverno ci dovevano spalare la strada.

Era un paese povero, qualcuno  lavorava nei campi o  alla macchia. Ma il lavoro non c’era: molti andavano in Sardegna.  Andavano a Grosseto, in Romagna, verso Roma, ….per tagliare la legna, ma anche per qualsiasi altro lavoro.

Stavano via 5 o sei mesi. Partivano con una cassettina di legno con un po’ di roba…mica si lavavano, mica si cambiavano tanto, quindi avevano bisogno di poche cose.

Andavano col treno merci a carbone e s’era tutti sporchi quando si scendeva per colpa di quel vapore….mettevano la paglia in terra sul vagone merci, ci si stava sopra come le bestie…

S’andava alla macchia anche noi bambini e non s’andava nemmeno a scuola se si stava lontano.

Andavano con la Sita o coi somari o coi ciuchi e andavano a prendere il treno a Porrena per prendere poi un altro treno per Arezzo. Anche per andare a Firenze si doveva fare un pezzo nel bosco con l’asino per andare alla Consuma. Allora i bambini si operavano tutti di tonsille. Si partiva per l’ospedale di Firenze con un ciuco carico. Per arrivare alla Consuma dove si prendeva la Sita per Firenze, bisognava alzarsi presto, passare  per i boschi anche se pioveva. Ci lasciavano un giorno ricoverati e poi il giorno dopo i familiari venivano a riprenderci alla Consuma coi ciuchi e poi ci portavano a casa.

Non c’erano strade.

La Sita ci faceva male perché c’era quel puzzo di benzina e ci faceva dare di stomaco.

Ho fatto tante volte questi viaggi: si pativa freddo, i vestiti addosso erano tutti di lana e pizzicavano, non ci si poteva stare nemmeno dentro, sembrava d’averci gli spini dentro la schiena

Io ho giocato poco, c’era da fare le cose in casa…..i giochi non c’erano….Al mio fratello gli  compravano il cavallino di cartapesta con le rotine …un genitore lasciava tutto al maschio, ma le donne non erano considerate….s’era anche gelose. Io ero gelosa del mi’ fratello. Un s’aveva nulla tutto ci pareva bello, le bambole si facevano con le spannocchie di granturco, si pettinavano…..si facevano con un mattone o un pezzo di legno, si vestivano… erano quelle le bambole. Ci mettevano un cencio o una sciarpa attorno a un pezzo di legno e ci bastava, si teneva abbracciata come una bambola vera. A Firenze c’era qualcosa, ma lassù un s’aveva nulla.

D’inverno andavo poco a scuola perché avevo sempre la sinusite mi sono operata a 18 anni , sono del 39….. quanto avrò patito…..sempre mal di testa….

Alla fiera ci compravano il croccante, l’anellino con la madonnina,….s’era felici di queste piccolissime cose . D’estate ci davano il pane con il cocomero, l’arancia col pane d’inverno…o bagnavano il pane e ci mettevano un po’ di zucchero se c’era. Nei campi si aveva tutti qualcosa….di fame non si moriva…si mangiava tante castagne …o c’era le mele, le more, le fragole….le patate…

Le balle di canapa, una volta usate, si ricamavano e si facevano le tovaglie. Le persone più anziane le ricamavano a punto a croce, filo erba, punto quadro….giornino.

Sfilavano la stoffa, facevano il giornino e poi  le frange e le mettevano sulle tavole come tovaglie. Io non lo facevo ma la mia mamma sì….Magari quando pioveva quando non potevano andare ne’ campi, non potevano fare il bucato facevano queste cose qui…rassettavano, facevano  ricami, lenzoli federe…..camiciole….calzettoni, golfi…. la calza….e con queste facevano le tovaglie non per mangiare ma per bellezza….Le balle le vendevano , ci mettevano le castagne, la zanza delle castagne, le patate, il grano…le utilizzavano per queste cose qui….vengo da Montemignaio….le castagne le seccavano nei seccatoi…..mettevano le assicine, con uno spazio sufficiente perché non cascassero  e a forza di foco le facevano seccare. Le mettevano poi nelle balle e le portavano a macinare. Poi tenevano anche i minuzzolini, per fare il foco durante l’inverno e anche questa zanza la mettevano nelle balle e via via d’inverno la bruciavano….

Ora ci sono tutti questi sacchettini che non son boni. Le balle invece le lavavano e le riponevano per l’anno dopo. Prima non si buttava via nulla.

Con la canapa facevano anche i lenzoli duri che non si bucavano nemmeno con l’ago. Facevano tutto da sé. La lana la filavano con il rocchetto e poi facevano i golfi, le camiciole, le calze…

La lana la filavano, la lavavano, la stendevano, l’aggomitolavano e poi ci facevano i golfi.

Prima era tanto freddo in Casentino ma i cappotti non si portavano. Ci si vestiva a strati e si avevano i geloni alle mani e gli zoccoli di legno con i calzettoni fatti a mano. Freddo non si aveva, ma si pativa una vita dura. Io avevo solo una sottanina e una volta che dovevo andare a Firenze la mamma la lavò la sera e la fece asciugare al foco durante la notte. Ci pativo perché ero ambiziosa. Dopo però, da adulta, non mi sono mai più fatta mancare i vestiti e le scarpe. Ho sempre speso per comprarmi quello che mi piaceva. Poco tempo fa, quando sono  tornata in Casentino e ho ritrovato una mia amica di allora gliel’ho detto: “Ti piace ora come mi vesto? Guardami bene!”

 La primavera veniva tardi e allora tutto si riempiva di fiori. I campi erano pieni.

Il pepolino si metteva nel minestrone: fa dei fiorellini piccolini ma con tanto profumo, delicato. E’ festoso  con  i suoi fiorellini rosa sulle prode dei campi! In primavera tutti i prati si coloravano del rosa del pepolino. Si raccoglieva da bambine, si facevano mazzolini che poi si mettevano sulla tavola, o nelle cappelline. Ce n’era tanti di fiori prima, viole, fiordalisi, papaveri. Quando si tornava da scuola o si usciva ai primi giorni di festa si raccoglievano questi mazzolini e si mettevano nei vasi alla madonnina. Si faceva la gara a chi li faceva più belli. A volte vincevo io a volte le mie amiche, si faceva da noi a dire chi vinceva. “Oggi tu hai vinto te, c’hai più colori, più fiori.” Noi si faceva sempre, ora non ci sono più tutti questi fiori. Si sono persi. C’erano tante belle campanine che sono sparite. Hanno bruciato ogni cosa..

Un sorriso nella paura

LA PAURA DI RINO – di Simone Bellini

Era una notte buia e tempestosa.

I lampi, muti, in lontananza, facevano presagire l’arrivo di una bufera.

La solitudine della casa in mezzo al bosco era il motivo per cui la famiglia Vampi l’aveva scelta. La quiete che vi regnava li allontanava dallo stress imperante della vita moderna.

Ma in quella notte irrequieta, gli ululati dei lupi incupivano i raggi di luna, oscurati da nubi minacciose portate dal vento che si rafforzava sempre piu’,facendo sbattere i contorti rami sui vetri della finestra, insieme ad una miriade di pipistrelli disorientati.

– ORA BASTA !!! – Gridò il giovane Rino, per niente spaventato – ANDATE VIA, stanotte voglio dormire !!! –

Tutto sembrò obbedirgli ; i pipistrelli si dileguarono, i lupi tacquero, il vento cessò, i rami smisero di battere sui vetri. Tornò il silenzio, mentre Rino chiuse le ante della finestra per maggior tranquillità.

– SVEGLIA SIGNORINO ! –

 La voce squillante della nuova governante, appena assunta, scosse il torpore dall’ agognato sonno, mentre ella si apprestava ad aprire le imposte della finestra.

– NOooo ! – Urlò il giovane terrorizzato, mentre il primo raggio di sole bruciò la sua mano protesa a difesa del corpo che in un attimo si decompose, riducendo in cenere la vita del giovane Vampi Rino