“A pesca nelle pozze più profonde” di Paolo Cognetti
Dunque andiamo a pesca questa settimana, andiamo in giro con l’anima in spalla e cerchiamo un’idea sotterranea, un sentimento che ci attraversa, un sogno che al mattino non ci lascia….Andiamo a pesca con l’animo leggero e con un cestino per raccogliere le prede.
A casa, come siamo ora, mettiamo sul tavolo il nostro “pesce-idea”, la parola trovata, il sogno sognato e sfilettiamolo, togliamo le spine, raccogliamo le polpe più gustose e …..raccontiamo.
Raccontiamo una storia come se pescassimo a mosca, roteando la canna, usando parole come lanci nell’aria…..concentrati, in un nostro mondo sereno…..
La parola scintilla di oggi potrebbe essere:
O R I Z Z O N T I
Oggi la parola ha significato di sconfinata libertà, ma in realtà deriva dal greco “orizon”, a sua volta derivato dal verbo “orizo” che significa LIMITARE, stabilire un confine.
Dalla chiusura di un cerchio delimitato, i nostri orizzonti infiniti sul mondo.
E’ notte. Fuori imperversa la tramontana fredda e urlante. Io sola, chiusa in questa casa diventata troppo grande per me, tendo le orecchie allarmata da ogni piccola variazione di rumore. Anche il rodere di un tarlo mi turba.
Mi alzo senza accendere la luce, c’è già del chiarore che passa attraverso gli spazi dell’avvolgibile. Mi avvicino ed osservo: non c’è nessuno, solo il vento impetuoso che coinvolge in una danza pazza fiocchi di neve di un inverno che non vuol cedere il passo alla primavera. Ciò mi sorprende piacevolmente. Penso che domani ai miei nipotini sarà permesso di uscire un po’ in giardino per toccare la prima e l’ultima neve di quest’anno. E’ da due settimane che sono chiusi in casa come tutti.
Il mio sguardo vaga spostandosi da destra a sinistra alla ricerca di qualcosa di vivo, ma niente, niente, solo il vento impetuoso che se la prende con tutto quello che trova e lo fa ruzzolare via in una corsa disordinata e violenta.
Trascorrerà la notte, sarà domani ma non sarà molto diverso; non grida gioiose di bambini ai giardini di fronte, non ronzio di motori sulla strada principale: negozi serrati e silenzio innaturale. Qualcuno, come me, osserverà tutto questo con la fronte appoggiata ai vetri della finestra, per poco, poi se ne andrà con aria delusa. Il corona virus ha fatto in modo che ci chiudessimo tutti in casa, prigione dorata, impauriti e impotenti ad aspettare che tutto passi. Ed è lì che ho riscoperto di avere tempo, per fare cose che avevo sempre rimandate ad un poi che non arrivava mai. Ho riscoperto il piacere della lettura, della musica, della cucina e altro. Nessun tipo di chiusura è negativo al completo. Riapriremo le nostre case e i nostri cuori per un domani diverso e migliore? Ne saremo capaci? Io lo spero ardentemente
Tre anni fa, in un torrido agosto, mi sono trovata stesa a letto in una condizione di semi immobilità.
Ero sola.
Non potevo camminare, non riuscivo a badare a me stessa.
Molte cose che mi piacevano come passeggiare e andare in bicicletta, mi erano precluse.
È stato allora che, sentendomi in trappola, in un isolamento parossistico, l’ennesimo della mia vita, pensai alla scrittura come ad un salvagente, per galleggiare nel mare torbido nel quale mi trovavo.
Così, un paio di mesi dopo, fornita di stampelle, sono approdata ad Antella.
Alcune persone le conoscevo, ma i gruppi sono stati sempre il mio problema. Mi manca l’esperienza dell’infanzia.
Mi manca l’autoregolazione.
Mi sento sempre sulle spine.
Mi domando: “Quali sono le norme che valgono qui?”
Esaspero l’attenzione verso gli altri fin quasi ad essere percepita come affettata.
Sono passata attraverso ambienti, lingue, regole sociali, dogmi, … così differenti tra loro da avere alla base una grande confusione che mi rende insicura.
È molto diverso fare la fila nel negozio di alimentari a Palermo, a Milano, a Firenze …: nel Nord non si chiacchiera e le persone dietro di te sollecitano a sbrigarsi.
Una volta una collega mi disse che un suo alunno sudamericano quando era in silenzio, cantava.
Io mi sento quel bambino.
Quando si verifica un disguido patisco molto perché penso di essere responsabile.
Come si fa ad essere schietti?
E se dicendo la mia idea offendo?
Ma il gruppo nel quale mi ritrovavo era protetto.
Sul tavolo intorno al quale ci sedevamo venivano buttate le carte di una partita a poker senza perdite.
Si poteva “vedere”, “rilanciare”, “passare”, “fare buio”, “barare”, …
Il silenzio si alternava alle parole che viaggiavano da sedia a sedia, in un ping pong di sensazioni, emozioni, brividi, …
La stanza si riempiva di vissuti, pensieri, riflessioni, sentimenti, pene, emozioni, … che si insinuavano nella mia mente vuota e la ripopolavano.
Come semi in un giardino deserto.
A poco a poco nascevano piantine.
Mi appigliavo a questi fili tracciati da persona a persona, rammendavo tessuti lacerati, ne tessevo di nuovi.
Aprivo porte, finestre, cieli, ponti, …
Lentamente la mia paralisi affettiva si scioglieva al calore umano.
Mi piaceva scoprire la bellezza delle persone, la loro competenza manuale, cognitiva ed esistenziale.
“Oh, guarda – mi dicevo – si può fare così” e imparavo.
Passo dopo passo sono uscita di prigione, … quasi.
Ho iniziato un viaggio insieme ad altri.
Sono ancora in mezzo al guado, ma vedo l’altra sponda.
Nei giorni passati, con il sole e le finestre aperte, ogni tanto qualche ragazzo intonava una canzone e subito dopo qualcun altro si univa. Oppure dalle case uscivano musiche a tutto volume per condividere, per sentirsi insieme, anche a distanza.
Eccolo il momento. Credevo non sarebbe più arrivato.
E’ una mattina di fine marzo, venerdì 27 per la precisione. Il vento soffia come se fosse inverno e le finestre sono chiuse per non far passare l’aria fredda. Non ci sono rumori e nemmeno suoni.
Devo allacciare bene la cintura di sicurezza perché conosco la pericolosità del viaggio che sto per fare. Tutto a marcia indietro.
Cerco sensazioni, emozioni, ricordi, qualcosa che insomma mi faccia sentire viva in un momento di storia in cui ognuno è solo, ma tutti siamo accomunati. Come sempre, del resto, ma adesso è proprio evidente.
Con un senso di tenerezza ripenso ai momenti in cui ho dovuto affrontare situazioni nuove.
Sempre pronta a sperimentare e nello stesso tempo sempre diffidente, insicura, paurosa. Come se il fatto di partecipare contenesse l’aspettativa di un risultato vincente che mi riscattasse, che mi facesse emergere.
Affondare il coltello nel cuore.
Certo che la storia è costellata da grandi geni e mitici eroi. Ma si parla di migliaia di anni durante i quali milioni di persone comuni erano niente e hanno continuato a essere niente.
Se per niente si intende il non emergere alle glorie del ricordo e della storia.
In quella stanza del teatro io mi sono sentita a volte un’estranea.
Quella sera le luci erano spente. Baluginava un lieve alone attraverso un’imposta e sul tavolo tremolava una candelina.
Sembrava una seduta spiritica e dentro di me ironizzavo su quella che mi sembrava un’assurda messa in scena.
Poi è passata una scatola che conteneva alcuni oggetti. Toccandoli sarebbe successa una magia.
Sempre più perplessa, quando è stato il mio turno, ho tastato ad occhi chiusi.
Ora non sorridevo più. La mia sufficienza si era sciolta in una sensazione tenera di bambina che guardava affascinata un albero di natale risplendente di luci.
Ricordo ancora l’accelerazione dei battiti del mio cuore e il profumo del muschio del presepio, come se il tempo fosse stato catapultato in una dimensione diversa eppure profondamente conosciuta. Anche allora avevo ingranato la retromarcia.
Il tutto era stato scatenato da una collana di perle. Toccandola era riaffiorato il ricordo di un filo di palline rosse che il babbo avvolgeva meticolosamente intorno all’abete che odorava ancora di bosco. E accanto c’era il presepe, magico, con i fiocchi di neve fatti con pezzettini di cotone e il muschio sparso qua e là, odoroso anche lui di freddo e semplicità, come solo le cose povere sanno ricordare.
Quando si sono riaccese le luci ognuno ha scritto sulle sensazioni che quella esperienza aveva evocato.
Nessun vincente, solo piccole persone accomunate dalla diversità. Senza il pudore di volerla nascondere.
Ritrovare la propria dimensione. Coccolarla, capirla. Sopportarla, a volte.
E’ un esercizio difficile che non finisce mai. Forse il segreto sta proprio in questa consapevolezza.
In questi giorni di quarantena sfoglio l’album della mia vita.
Dalla nascita ai diciassette anni, fra un trasloco ed un altro, su e giù per l’Italia, sono rimasta chiusa dentro pensieri, idee e relazioni, confinata nell’abitazione, all’interno del ristretto nucleo familiare.
Avevo una sorella, è vero, ma i suoi comportamenti erano molto diversi dai miei e non me li spiegavo.
Pur essendo quasi coetanee, non comunicavamo.
La narrazione di lei, fatta da mia madre, non corrispondeva a ciò che vedevo giorno dopo giorno.
In questo disallineamento tra visto, detto e percepito, la mia mente si paralizzava.
Lasciavo risuonare nelle orecchie quel che mi veniva ripetuto: è normale, è normale, è normale.
Non mi ponevo interrogativi.
Non ho usato la logica.
Solo oggi mi domando: ”Come mai veniva sostenuta quella versione dei fatti? Se fosse stata vera, non ci sarebbe stato bisogno di ribadirla.”
Ho fatto dell’amore e della fedeltà alle idee dei miei genitori un dogma.
All’interno di quel ristrettissimo spazio di movimento, di pensiero e di relazioni ero perfettamente sola.
Mi sono costruita un mondo di sogni, fantasie, speranze, illusioni, utopie, progetti.
Quando è arrivato Giovanni, ha aperto la porta, ha buttato la chiave nel pozzo e siamo scappati via.
Insieme abbiamo costruito un mondo nuovo.
Come Charlie Chaplin e Paulette Goddard in Tempi moderni.
La scena in cui Charlot sistema le assi della capanna mentre la ragazza apparecchia la tavola, ed il finale nel quale i due camminano orgogliosi e fieri, a braccetto, verso il loro futuro, sono sequenze della mia realtà.
Ma Giovanni è andato via.
È ricomparso il passato che mi ha travolto.
Mi sono rialzata.
La segregazione del Corona virus assomiglia molto a quella dei miei primi anni di vita e a quei cinque mesi vissuti in isolamento nel corso della mia prima gravidanza.
Ma c’è una differenza sostanziale: oggi sono libera.
Libera di avere paura.
È vero, non capisco cosa succede, non so cosa succederà.
Sono sospesa nel vuoto ma penso, ascolto, leggo, ragiono, respiro, canto, scrivo, … e ho paura.
Faccio i conti con me stessa.
Faccio ordine dentro e fuori di me.
Esamino uno ad uno fantasmi, incubi, ombre, spettri, apparenze, falsità e calunnie …
Li esamino, li ripiego, li conservo: un cassetto per ognuno.
Sono la riserva per le storie future.
Sono la riserva per i legami.
Adesso ho tutto il tempo.
Così posso filare e tessere sogni, fantasie, speranze … che mi seguono come uno sciame.
Penso a me, a chi conosco, alla gente, al mondo che verrà.
Provo ad imparare ad amarmi e a non avere più timore degli altri.
Non c’è più nessuno che mi picchia.
E cammino, come nella scena finale di Tempi moderni, sul sentiero della vita.
Vi incontro in video, sì, quasi ogni giorno. Riconosco i vostri visini tondi, allegri, ridenti. Mi si apre il cuore solo se dite ciao nonna e mi guardate dentro lo schermo piegandovi, per vedermi meglio nel collegamento strappato, a volte in pausa, come i nostri incontri. Prima della chiamata mi sento con un cappotto di piombo grigio senza futuro, ma basta lo squillo, l’avviso della video chiamata e già sorrido, già mi rassicuro che ci siete, che era tutto vero quello che abbiamo vissuto insieme. Cinque anni. Cinque solo stupendi incredibili anni, cinque anni di scoperte graduali di noi, del nostro bene in crescita, che gonfia e lievita, come uno di questi nostri timidi pani riscoperti in questi giorni, da cuocere ogni tanto come un sollievo nel forno di casa. Cinque anni che parevano pochi e io che dicevo chissà se li vedrò alle medie, se arriverò a vederli grandi, se arriverò a vedere anche da adolescenti i loro capelli al vento così liberi e smaglianti quando corrono verso qualche obiettivo invisibile. Cinque anni diventati tanti giorni, uno di seguito all’altro, i giorni al mare sulle onde a ridere, i giorni dei compleanni e dei “Tanti guri a te”, i vostri, i nostri, i cin cin a tavola e le colazioni che ho condiviso con voi partendo presto la mattina per raggiungervi al risveglio lassù su quei vostri monti che ora vi proteggono. E i giochi sotto la coperta che era la casa al riparo dal lupo e i baci e gli abbracci stretti e la “pampa” fuori, da prendere a pedate nel prato. Cinque incredibili anni, cinque perle smaglianti che brillano con tutta la loro forza imperiosa. Cinque splendidi scoppi di un amore che ha saputo accendere tutto il sapore più buono della vita.
Non volevo entrare in questa prigione… Mi sono ribellata fino all’ultimo… Per una che non riesciva a stare in casa, trovava tutti gli impegni per uscire e stare insieme alle persone, è stata dura adeguarsi a questa realtà. Fino all’ultimo sono andata a passeggiare da sola, ma poi ho dovuto cedere, non ero in pace con me stessa. Mi sentivo osservata, provavo un senso di vergogna e di responsabilità verso gli altri.
Ho iniziato, anche se la voglia non era molta, con la pulizia della casa. Quando ho finito mi sono inventata un po’ di giardinaggio, ma non ho il pollice verde, chissà che non migliori! Con il passare dei giorni mi sono venute altre idee, qualche telefonata, un po’ di lettura, qualche ricetta che volevo provare da tempo, un p’ di movimento, qualche lavoretto manuale. Le giornate sono passate svelte e spesso alla sera non ero riuscita a fare tutto quello che avevo in testa.
In queste settimane di clausura ho riscoperto che, quando si sta bene con noi stessi, possiamo essere in qualunque posto e, anche se la vita continuamente si diverte a metterci davanti a prove e difficoltà ci accorgiamo che, una volta superate siamo più forti e migliori.
Dalla finestra vedo la strada dove tre fratellini portano a passeggio il cane: il grande tiene a guinzaglio il grosso cane nero, il piccolo è seduto dentro il carrettino a forma di macchina, la bambina lo spinge, si fermano, il piccolo scende, si spostano un po’ avanti, il cane li costringe a cambiare rotta, torna indietro, si ferma, annusa l’erba del balzo, i bambini parlano fra loro e ridono (è una gioia vederli). Il cane riparte, dopo pochi passi altra fermata, odora con più intensità: ha trovato il posto giusto.
Il ragazzo grande mima il cane nei suoi movimenti, il piccolo da lontano si china un po’, per veder quello che esce, tutti ridono divertiti, la bambina apre un sacchettino verde e insegna al piccolo come metterlo avvolto alla mano.
Il vento dispettoso lo fa volare via, lo rincorrono, ma una folata di vento lo sposta nel giardino di sotto.
La bambina sparisce, eccola con un altro sacchetto, lo mette intorno alla mano, guarda lungo il balzo, non vede più dove il cane si è fermato, cerca il punto con il piccolo, lo vedono, lei si china con manina esperta e raccoglie il tutto e corrono via verso casa ridendo.
Il vento continua a far volare il piccolo sacchetto verde, lui sembra essere felice di esser scampato all’uso a cui era destinato. Folate di vento lo fanno danzare sul prato mentre il sole lo illumina.
Di recente stavo leggendo un libro su come riconoscere i talenti nei bambini. Mentre leggevo, ho pensato a Cecilia che dice siamo titolari di talenti, ma non ci crediamo, forse, ce lo dice per incoraggiarci visto che, alla nostra età, ci siamo messi a fare cose a cui non pensavamo. Potrebbe essere che lei abbia capito subito il senso di quel libro cosa che a me non è capitato ancora. Rileggendolo forse, troverò il bandolo della matassa. Ritornando ai talenti dei bambini, e guardando nella platea che mi circonda, mi sono accorta che quella che sembrava una gattamorta ciucciadito e strusciona,è una vera artigiana, cocciuta e difficile da convincere: le passano per la testa idee che deve realizzare a tutti I costi, senza limiti di tempo, materiale o stanchezza. Come la capisco pero’, spesso succede anche a me. Sarà quello il suo talento? voler costruire borse, scatole, un lampadario per il compleanno dello zio,o una borsa per la nonna? Si, alla luce di queste riflessioni ho provato a rivedermi bambina, per capire se avevo dei talenti e dove sono andati a finire. Avendo fratelli maschi, ero sempre con le ginocchia sbucciate spettinata,a fare giochi con la mota ,i sassi e,legni. Nella carrozzina portavo la mia gallina preferita, accuratamente vestita con un fazzoletto che le teneva ferme le ali. Mi raccontano che non avevo voluto aprire la bocca al nuovo medico e ero stata spedita in ospedale per sospetta difterite. Si, mi chiamavano Zoe ,facevo coppia con Arturo mio fratello, i personaggi di un fumetto di allora. Quello che poteva fare Arturo ero capace di farlo anch’io! In un litigio con una bambina le strappai una ciocca di capelli, non vi dico che fama mi feci. Un giorno a scuola, vidi il teatro delle marionette fatto da un ragazzo che si chiamava Ettore, era albino, rimasi cosi affascinata che poi nella mia professione ho amato costruire burattini e realizzare piccoli spettacoli. Un giorno a carnevale, salii sul palco in parrocchia e intrepretai la Marchesa delle Carabattole che avevo imparato al doposcuola. Fu un successo insperato, per anni si ricordarono di me. Ero anche abile nei lavori manuali, imitando mio fratello usavo il seghetto per creare giochi e personaggi col traforo, avrei potuto fare il falegname.? Mi ricordo che la mia maestra, bella donna vestita alla francese, con una piccola crocchia sulla testa e il rossetto deciso, non particolarmente disponibile nei miei confronti ,forse perché poco vezzosa, si inteneriva tutta quando scrivevo storie fantasiose e divertenti che, regolarmente, faceva leggere al medico scolastico con grande orgoglio. Un giorno mi regalo’ una scatola di matite colorate (Stabilo) per premiarmi del mio impegno per il disegno. Allora, posso dire che i germi di quello che mi sarebbe piaciuto fare c’erano già? Oppure che sono stata fortunata a nascere in questo mondo che mi ha capita e lasciata libera di diventare quello che ero?
Mi è capitato di leggere questa frase di Oscar Wilde: “Il guardare una cosa è ben diverso dal vederla. Non si vede una cosa finché non se ne vede la bellezza”.
Mi è piaciuta e l’ho copiata. A mano, con la mia calligrafia stronca e indecifrabile, piccola e grande secondo l’umore, su un foglio che tengo a portata di mano a fianco del computer, dove annoto un po’ di tutto quello che mi capita, dagli indirizzi della spesa a domicilio, alle poesie che qualcuno segnala, ai siti che potrebbero tornare comodi e ai numeri di telefono di cui dimentico di scrivere i proprietari. La potreste trovare lì, scritta in un inchiostro marrone, con frasi spezzate e abbreviate, subito sotto la trascrizione di un vocale w.a. che mi interessa. Accanto c’è il mio registratore digitale. Ora fermo in questi giorni di clausura, ma di solito mio compagno di avventura perché mi aiuta a fermare quello che accade, gli incontri e le parole che ci siamo detti. Parole che volano, restano in sospensione appena un po’ e poi spariscono leggere, dimenticate, pronte per ripartire per una prossima volta perché loro, le parole, sono sempre le stesse in fondo ma si moltiplicano in infinite combinazioni e intonazioni multicolori, per costruire immagini sempre diverse. Conservo. Questa è la mia prima parola. Conservo per non perdere, per non disperdere. Quanti sogni sono andati persi perché non li abbiamo scritti la mattina, quante indicazioni preziose abbiamo dissipato nell’oblio del quotidiano. Quanti incontri importanti, quante risate sulle panchine o al tavolo di un bar, quante parole d’amore sono rimaste un poco sospese nell’aria intorno a noi e poi si sono smaterializzate? Fanno così anche i virus. Partono da una bocca all’altra, restano un po’ sospese e poi spariscono……ci abbiamo mai pensato? I virus fanno come le parole, lo dice anche Burioni!
Conservo e raramente riascolto. Ma qualche volta l’ho fatto. Non sapete come la voce conserva i sentimenti. Quante volte, in casi di piccoli conflitti ho riascoltato le parole per capire. Rivelazioni. La durezza su una frase, la troppa velocità delle risposte, il parlarsi sopra senza ascoltare un punto di vista diverso, un portare avanti un’idea che dal vivo non avevo capito, un’esperienza passata che fa sentire la sua ferita apparentemente a sproposito …..quante rivelazioni inedite in quelle parole digitali. E c’è un ritmo in quella sequenza di parole, un ritmo personale. Non è solo dalla voce che vi riconosco, ma anche dal ritmo, da come a volte vi controllate e a volte no, dalle vibrazioni. Ci sono vibrazioni fisiche, percepite dal vivo e percezioni sublimi, percepite dalla voce. Ci sono colori, nella voce e sono quelli che vogliamo dare all’anima nel momento esatto in cui dona se stessa. Non ho più bisogno, ormai, di riascoltarvi, ho un buon allenamento anche in diretta.
Ma torniamo alla frase iniziale che mi ha colpito. “Non si vede davvero finché non si vede la bellezza che c’è in ogni cosa”. Oscar Wilde parla di cose, ma per me il concetto vale per tutto. Soprattutto per le persone. Non esiste nessuno che non abbia bellezza. Vi ricordate? Così avevamo iniziato quest’anno: “In tutto c’è stata bellezza”. Era questo che volevo raccontare, come in tutte le cose c’è una nota di bellezza così anche in tutte le persone. E nelle scritture. Il “non diario” anche. Voleva far osservare il bello che c’è nelle piccole cose.
Poi questo VIRUS ha dato la botta finale: ce lo ha fatto davvero capire quanta bellezza c’è nelle piccole cose. Come dice Rossella noi anticipiamo sempre le mode. Anche questa dell’apprezzare le piccole bellissime cose di ogni giorno l’avevamo azzeccata! Il caffè al bar, le strette di mano, gli abbracci, le giratine inutili senza meta, il sole quando ci pare, l’erba sotto i piedi……Qualcuno si lamentava perché non poteva andare alle Canarie e ora chissà che darebbe per una giratina al mercato di Sesto! Come tutto si è rimesso al suo posto!
Ma io avevo pensato tutto questo. Già in estate mi metto a pensare cosa farò alle Matite, raccolgo, leggo, cerco. E quest’anno volevo non essere solo io il polo centrale, volevo spiazzare, cambiare…ho pensato a chi poteva aiutarmi, a chi avrebbe capito, a chi era abbastanza capace per stupire, meravigliare, affascinare, ho chiesto, convinto, proposto…..Ho amici speciali, mi rendo conto. Ho trovato altro entusiasmo e insieme abbiamo creato le “Contaminazioni” che hanno spiazzato qualcuno, lasciato perplesso qualcun altro.
Però vi siete fidati e avete fatto bene. Perché pensavo che partendo dalle P A R O L E che sono il nostro tesoro e il nostro bagaglio nella borsa da Mary Poppins che mi porto dietro, potevamo volare più alto.
Lasciare il nostro salotto comodo e conosciuto e andarcene in giro per parole altre. Parole che volano come farfalle, parole solide come quelle della letteratura intelligentemente mediata. …PAROLE.
Ho costruito un programma quest’anno. Un programma vuol dire avere in mente un cammino senza sapere cosa accadrà veramente. Un programma è una scommessa di fiducia, basata sul noto e sull’ignoto, e avere fiducia che l’imprevisto sarà affrontato, sarà piegato con le nostre capacità e la nostra inventiva.
Così è stato. Nonostante tutto abbiamo fatto tutto il cammino.
Compreso questo imprevisto doloroso che ci ha dato l’opportunità di mostrare di che pasta siamo fatti tutti noi. Ci disperiamo, piangiamo, ci manchiamo, ma siamo ancora qua, scriviamo e ci pensiamo.
E progettiamo un futuro che non tarderà ad arrivare.
Cosa mi hanno lasciato, questi anni, con il gruppo e con Cecilia? Mi hanno lasciato molto, poichè per me questi ultimi anni sono stati difficili a livello familiare e quindi affettivo, sentimentale. Talmente difficili da causarmi disorientamento, perdita di certezze, delusioni… La sicurezza di incontrarci, ogni martedi, a depositare sul nostro tavolo le emozioni, i pensieri e, come accade scrivendo, più o meno consapevolmente, parti nostre, mi è stato veramente di grande aiuto: un binario che al di là di tutto, mi dava una direzione ma anche un motivo di evasione da ciò che mi tormentava. Non solo questo, gli incontri sono stati un modo per sublimare situazioni all’impatto inaccettabili: non per “stendere un velo pietoso” su ciò che non avrei voluto vedere ma per ridimensionare, divenire consapevole che esistono vie di fuga che la nostra mente può nobilitare, per raffinare gli eventi e quindi renderli affrontabili. Per questo grazie a tutte/i voi. La domanda di Cecilia è anche: “Può una prigione rendere libero chi vi entra ?” A mio avviso si, se viene vissuta nella certezza di un cambiamento positivo. Dobbiamo, pertanto, attivare l’immaginazione, stimolare tutte le nostre facoltà più creative. Perché non farlo?. Pensiamo alla germinazione del seme nella terra. Come scrive Gibram: “La civiltà ebbe inizio quando per la prima volta l’uomo scavò la terra e vi gettò un seme.” Il seme, grazie alla protezione del terreno, alla “chiusura benefica” e non alla “sepoltura” sviluppa tutte le capacità per diventare pianta. L’ambiente naturale, celato, riservato, unito alla creatività e alla speranza, daranno senz’altro ottimi frutti. L’umanità ha spento le proprie lanterne e ci è parso di rimanere al buio, ma stando al buio, pian piano si intravedono le cose ad una luce più fioca, forse più fascinosa. Ogni essere umano raccoglie in sé, inimmaginabili potenzialità. La libertà è dentro di noi, dobbiamo trovarla e tirarla fuori. Stando in casa, non cerchiamo rifugio nella mera consultazione del computer o nella televisione, non “chiudiamoci” negativamente nella passività… Vediamo se nell’intimità e nel silenzio, nel non contatto, mantenendo viva la comunicazione vera, riusciamo a ritrovare il nostro “io” più profondo, accarezzarlo, farlo germogliare e crescere come merita. Nel momento in cui abbandoneremo i nostri costrutti, le nostre difese, ci sentiremo meno impotenti. Ritroveremo la “libertà mentale” che può sussistere in tutti gli ambienti, aperti o chiusi, la “libertà interiore.” Quando avvenne il diluvio Dio promise a Noè la salvezza, per questo Noè si industriò a raccogliere le persone, gli animali e le cose più care e indispensabili nell’Arca. Quella chiusura fu salvifica perché sostenuta dall’idea di un cambiamento promesso. Nell’immaginario collettivo il diluvio ha una spiegazione catartica, purificatrice dai mali del mondo, è un ”controllo” del male, non è solo una punizione. Io spero che, quando tutto ciò che stiamo vivendo finirà, saremo più genuini, ci abbracceremo con più sincerità, saremo meno avidi perché avremo capito che difronte alla “possibilità di morte” siamo tutti uguali
Alla notizia che avrebbero chiuso tutto e che per il virus non sarebbe più potuta uscire di casa per un bel po’, il suo cuore si fece di ghiaccio!
Le pareti dell’appartamento le sembrarono di colpo ancora più strette di come le vedeva ogni santo giorno.
Se le sentiva addosso, con i loro artigli e la stringevano, la pressavano fino a soffocarla, fino a farle male !
In quella mattina di marzo si svegliò presto. Cadeva la neve incurante della primavera segnata sul calendario e non provò nel vederla nemmeno un briciolo di allegria.
Pensò che il cielo cupo e quel bianco uniforme del cielo al posto dell’azzurro dei giorni precedenti, non le erano di nessun aiuto.
Soffocavano l’anima e non lasciavano nemmeno un piccolo spiraglio cui potersi aggrappare per trarne un sorso di tranquillità.
Non pretendeva troppo. Solo un piccolo sorso in quel mare in tempesta che ogni giorno era costretta ad affrontare e senza scialuppa di salvataggio.
Aveva provato a vedere nei mesi precedenti se fosse possibile individuarne qualcuna. Purtroppo aveva dovuto concludere che attorno a lei non ce n’erano.
Il palazzo in cui viveva era un casermone chiassoso della periferia. Sulle scale e nell’ascensore era tutto un gran via vai, ma se ne stavano in disparte gli uni dagli altri. Solo qualche buongiorno e buona sera a sorrisi tirati ma poca confidenza e familiarità.
A mala pena sapeva il nome dei vicini e solo perché si era presa la briga di leggere la targhetta accanto alla porta.
Nulla più. Le porte rimanevano chiuse. Ognuno pensava solo ai casi propri.
Si sentì sola come non mai in quella mattina di un marzo più pazzo del solito. L’inverno che tornava a far capolino era l’inverno che da tempo albergava nel suo cuore.
Lo vide che dormiva ancora sul divano con quella orribile canottiera sempre più grigia e quei pantaloni sformati e pieni di patacche dei tanti pasti consumati davanti alla tv senza attenzione per il cibo, né per quello che vedeva.
Occhi fissi da leone in gabbia. Un leone da tempo sempre più cattivo che la semiprigionia di quei giorni aveva contribuito a rendere più pericoloso e aggressivo.
Si girò appena nel sonno e lei sentì scattare la morsa ferrea della paura sua compagna fissa ormai.
Quello che era stato l’amore della sua vita era cambiato giorno dopo giorno precipitando in un abisso di brutalità.
Vedeva la rabbia montare per giorni, in ogni suo gesto, in ogni suo sguardo, fino all’esplosione.
Spesso erano solo parole cattive che tagliavano l’anima. Parole che ferivano, sminuivano, offendevano in un fiume di rancore e di rabbia.
Poteva essere per il caffé non troppo caldo, per la pasta troppo al dente o qualsiasi altra sciocchezza del genere.
Non li contava nemmeno più i motivi futili che generavano uragani di insulti.
Nel suo cuore trovava ancora modo di giustificarlo.
“A differenza di me lui è abituato a muoversi, andando al lavoro, a incontrarsi con i colleghi in ufficio. Trovarsi costretto qui col terrore di questo virus maledetto e infido, si capisce che non è facile e fa scattare molle che non gli sono proprie. Oddio, è vero che dopo poco che ci siamo sposati ha mostrato subito scarsa considerazione per me. Il lavoro l’ho dovuto abbandonare perché tanto non guadagnavo abbastanza “.
Non succedeva, diceva lui, perché anche gli altri sapevano che non valevo nulla.
“Che avrai studiato a fare quelle inutili materie che nel mondo di oggi non servono a nessuno?”
Quando invitava qualcuno dei suoi colleghi con le mogli non si peritava a dire “ Ha fatto filosofia, lei”, con tutto il disprezzo che aveva in corpo e con una risata intrisa di velenoso sarcasmo.
In silenzio lei faceva la spola fra cucina e salotto per servire quella compagnia di estranei che nemmeno cercavano di entrare in sintonia con lei.
Ridurla al rango di domestica non bastava. Quelle serate dovevano finire pure con urla e scenate perché lei non era stata socievole con i suoi colleghi, aveva tenuto il muso ed era stata per lo più in silenzio.
“ Cosa penseranno di me, con una moglie così “urlava ogni volta!
Temeva il suo risveglio più di sempre quella mattina. La sera prima aveva provato a dirgli che non ce la faceva più a reggere quella situazione. Aveva bisogno di stare un po’ da sola per pensare a come poter andare avanti.
Erano giovani. In due non arrivavano a 60 anni, avevano tutta la vita davanti. Non era giusto rimanere chiusi in un rapporto che evidentemente non andava bene, era malato.
Appena quell’aggettivo era scivolato nella conversazione il tono si era fatto acceso. Gli occhi che si era vista di fronte si erano fatti cupi e cattivi come non mai.
Era riuscita a schivare quasi tutte le stoviglie che lui le aveva scaricato addosso ad eccezione di una che la centrò sopra l’occhio sinistro.
Il sangue che iniziò a uscire copioso lo aveva fermato, per fortuna.
L’espressione era cambiata. Non dolce, perché dolce non lo era mai, colpevole si.
Si era affrettato a prendere l’occorrente per medicarla e dopo fu tutto un “Giuro, non lo faccio più. Non so cosa mi prende. Lo sai non sono così. Perdonami!”
Dopo poco lui già ronfava sul divano, lei piangeva nel grande letto col suo occhio tumefatto.
Nel ricordare tutto questo in quella mattina di neve e di freddo si fece strada la certezza che non voleva che continuasse ancora in quel modo.
La casa di sua madre non era lontana. Avrebbe potuto raggiungerla anche con quel coprifuoco.
Si vestì in fretta e cominciò a riempire una borsa con poche ed essenziali cose. Non aveva nulla in quella casa prigione da portare con sé.
Era quasi arrivata alla porta quando si sentì afferrare per i capelli.
Il marito si era svegliato ed era furioso. Sentiva arrivare i colpi da tutte le parti. Teneva le mani sul capo per protezione. Sentiva le urla arrivare come frustate insieme alla gragnuola di colpi.
“Puttana dove pensi di andare?Sei mia, solo mia e non puoi lasciarmi se non lo dico io! Hai un altro, vero? L’ho sempre sospettato, ora lo so. Vuoi andare da lui, vero? Ma non uscirai da quella porta. Da viva, almeno!”
Le botte erano sistematiche, arrivavano ovunque.
Urlava lui e urlava lei.
Divennero laceranti quando lui cominciò a usare il martello e rimbombarono nel palazzo silenzioso in quei giorni di prigionia collettiva.
Per fortuna quella volta cominciarono a sentirsi colpi alla porta chiusa. Persone che chiamavano aiuto, dandosi la voce l’un l’altro.
In lontananza nel torpore dolorante che la stava invadendo le sentiva tutte. Le sembrarono compassionevoli e piene di preoccupazione, finalmente solidali.
Perse i sensi nel momento in cui la porta fu sradicata dai poliziotti che entrarono in massa placcando quella furia d’uomo prima che potesse sferrare l’ultimo colpo mortale.
Quando si svegliò in ospedale fasciata quasi ovunque le tornò in mente il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi.
Era un pensiero di liberazione. Quella porta era rimasta chiusa per troppo tempo con lui dentro.
Malgrado le fitte di dolore che la trapassavano il pensiero di quella porta che veniva abbattuta le dette forza.
Al momento non era molto più che un flebile appiglio.
In un angolo del suo cervello e in tutto il suo corpo oltraggiato e ferito ebbe la consapevolezza per la prima volta dopo troppo tempo che in breve sarebbe diventato la molla per ricostruire la sua vita dopo l’orrore di quegli anni.
Chiuso. Chiuso al mondo. Chiuso in un carcere duro insieme al peggior compagno immaginabile: il mio essere, io. . e nessun altro.
In questa notte di Valpurga dell’anima, i pensieri, i ricordi, le visioni, mi appaiono come larve che salgono da un punto lontano.
Mi chiedono di vedere la luce, di ritornare ad essere vive, di risorgere per qualche istante dal buio in cui a suo tempo le ho relegate.
Ne favorisce la rinascita il silenzio. Quel silenzio per cui in tanti sospiravamo, senza pensare che potesse essere più assordante di mille rumori, e grande generatore di echi profondi.
Un film, tanti film, di cui seguire la trama, appassionanti, terrificanti, anche dolci e teneri. . ma tutti, tutti si affollano, chiedono di essere proiettati sullo schermo bianco del passato.
E tutti bisogna rivederli, ripassare tutte le moviole dell’anima…
E ognuno di essi porta con sé le emozioni, come un’iridata cascata dirompente.
Già. . le emozioni. . bisogna scegliere, lasciarsi andare. . quale appare per prima?
A me è successo così: solo un caso, ne sono certo, ma nella prima scena del film appaio io davanti ad un consesso di giudici femminili (almeno così mi parve allora). Mi rammentò i giudici dell’Areopago di Atene, inflessibili e tremendi nelle sentenze inappellabili.
Su cosa stavano dibattendo? Una cosa da nulla: se io dovessi o no essere ammesso nel nobile consesso delle “Matite”, visto che, purtroppo ero un “uomo” e le altre componenti tutte donne.
Solo una voce si alzò in mia difesa, una sola, ma fu sufficiente”. Io credo che la partecipazione di un uomo sia solo un arricchimento per noi”. E la votazione fu unanime. . Fui ammesso e se sono stato un arricchimento non lo so. Per me senz’altro.
Però ho solo cercato di evitare la domanda cruciale: ”Può un carcere farci sentire liberi?”
A prima vista è un terribile ossimoro. Se fosse un VERO carcere la risposta sarebbe un deciso NO.
Se invece lo si pensa in senso “astratto”…. chissà…
Intanto viene in mente che tutta l’umanità è rinchiusa in una specie di “carcere”: il nostro pianeta. Provatevi ad andarvene. . come stiamo tentando. Ma fuori non ci sono guardiani. No, solo un universo ostile e gelido, assolutamente sproporzionato a noi minuscoli abitanti di uno sperduto sistema ai margini della Galassia.
E oltretutto il nostro carcere lo teniamo malissimo. . anche se lo sappiamo che non ne abbiamo altri.
E anche tra noi prigionieri, invece di sentirci solidali, da quando c’è la storia non abbiamo fatto altro che sbudellarci a vicenda.
E ora c’è il cvd19…E ci costringe a guardarci dentro, noi e i nostri compagni di prigionia. . cioè TUTTI.
E il pensare ci strappa l’anima in mille frammenti. . sta a noi ricomporli in un modo migliore di “prima” quando eravamo “felici” e non lo sapevamo.
E’ salito dallo stomaco. Come un sacchetto di farina che all’improvviso si fosse rotto. Un cedimento della carta come uno scoppio e la polvere finissima si è dispersa all’interno per depositarsi a soffocare ogni recettore sensoriale. Ha messo in tilt tutto il sistema sentimentale e razionale . Dentro si è fatto buio. Una sensazione di centralina fusa, un black out di corrente a New York, un precipitare senza paracadute dal bordo di un jet in avaria, il vuoto sotto e sopra. Non è stato un dolore normale, noto, niente di simile a niente. Dentro si è disteso il panico diffondendosi nelle cellule. Il cervello si è spento. Solo il cuore forse non ha smesso di battere. Forse. Urlare un urlo senza parole come unica reazione animale. Io non c’ero più. Non ero lì, vagavo a mezz’aria guardando la finestra attraverso le tende inanimate, guardavo le macchine ferme, me lo ricordo e sapevo di essere nell’aria ma non più lì, sulla terra. Vedevo grigio, in lettere congelate, un gorgo arancio vorticava vicino alle orecchie per uscire scoppiando, premendo forte alle tempie. Il respiro si è fatto viola, senza ossigeno.
L’anima è morta per qualche secondo.
Poi è tornata, non so come, è rientrata nel corpo senza trovarlo subito. Si è stropicciata e rannicchiata senza volerlo fare. Ha ripreso i contatti elettrici delle sinapsi. Ho percepito l’intensità del dolore, di come mi ha strangolato cercando di uccidermi. Ho percepito che dovevo vivere.
Stava festeggiando il suo trentesimo compleanno, tavola imbandita, torta con le candeline, il gruppo degli amici e dei colleghi più cari. Tutto sapeva di festa.
Era lei che ci provava tutte le volte a sentirsi al settimo cielo, ma non ce la faceva proprio. A ogni compleanno una parte di sé sembrava staccarsi da lei per guardarla e giudicarla. L’analisi era per lo più impietosa e la lasciava con l’amaro in bocca e più di un filo di disapprovazione di sé.
Una costante della sua vita. Il troppo pretendere da lei ne aveva fatto una ragazza insicura, esageratamente perfezionista al limite del maniacale. Si era lasciata trasportare sempre dalla maggior parte di quelli che le erano stati accanto.
La famiglia , almeno fino a che lei non aveva deciso di scegliersi un lavoro che la portasse a migliaia di chilometri di distanza, era sempre lì a giudicare ogni sua mossa con severità priva di qualsiasi cenno di tenerezza.
Erano troppo presi dai loro affari e dai loro successi e ne avevano fatto unica misura del vivere per tutti in quella casa prigione. Per ogni cosa era una lotta. Era come stare in una contesa perenne dentro sé stessi e con gli altri fra il farcela e il non farcela. Fra il vincere e il perdere. Era la volontà degli altri e non la sua in campo.
Anche a scuola. Loro volevano che fosse la prima in tutto, lei amava studiare e imparare per sé, senza competizione ma solo per il piacere di arricchire le sue conoscenze e la sete infinita che aveva di sapere. Era curiosa. Lo era sempre stata. La fase dei perché una faticaccia per chi doveva rispondere a domande che spesso erano più da adulti che da bambini.
Era uno scricciolo informe e goffo da piccola ed era pure imbruttita durante l’adolescenza , con tutti quei brufoli che nessun trucco riusciva a coprire. O almeno era lei che si vedeva così. Anche per questo si era mimetizzata e chiusa dentro un bozzolo tutto suo.
Guardava il mondo attorno attraverso fili sottili e avvolgenti come quelli di una immensa ragnatela da cui si lasciava circondare ogni mattina per spogliarsene solo la sera , al momento di andare a letto.
Una bambina e una ragazza trasparente ecco cosa era e come si era sentita per la maggior parte del tempo. Lei vedeva gli altri, li osservava, ne comprendeva i limiti, i difetti , le qualità, ma nessuno guardava o vedeva lei. Gli sguardi , quando c’erano erano fuggevoli, esigenti, perfidamente giudicanti. Poco o nulla che lasciasse trasparire affetto o attenzione per quello che faceva, quello che voleva e gli obiettivi che raggiungeva.
Trasparente anche per i ragazzi che regolarmente la frequentavano solo per arrivare alle sue compagne di classe. Quelle carine, piene di smorfiette e tutte fronzoli.
Si era avvicinata a quella festa di compleanno con il solito stato d’animo. Si era preparata con una certa ansia, quasi temendo il peggio.
Invece da un certo punto di quella giornata qualcosa si era sciolto. Le sarebbe stato difficile dire quando e perché. Era successo , punto. Come se un’acqua cristallina avesse trascinato via con sé ogni incertezza. Si sentì tranquilla come non era mai stata prima. Rivide la ragazza che osservava gli altri dal suo bozzolo di fili trasparenti e lattiginosi e con essa ripercorse ogni attimo in cui man mano aveva sentito quel bozzolo farsi sempre meno schermo di sé fino a che non si era rotto del tutto. Quella sera sentì qualcosa in più: che non ci sarebbe ricaduta dentro per nessun motivo.
Ripensò alla donna che l’aveva aiutata giorno dopo giorno a spezzare uno ad uno i fili di quella prigione dell’anima , ad accettarsi così come era dando un nome ed un cognome a ogni suo difetto con tutta la benevolenza di cui era capace.
Il merito di tutto questo aveva un nome: Giulia.
Un donnone a cui i suoi genitori avevano deciso di affidarla quando aveva poco meno di una decina di anni. Era stato difficile capire perchè un’estranea doveva essere il centro del suo mondo, mentre chi avrebbe dovuto esserlo raramente era a casa e quando ci stava pensava al resto fuori , non a lei.
Pian piano aveva capito che non era solo lavoro per Giulia. Le si era affezionata veramente. Aveva sentimenti quella donna. Un cuore grande che metteva in campo tutte le volte che sentiva che c’era bisogno di tenerezza e comprensione, stimolo a migliorarsi, laddove albergavano severità, indifferenza, distacco.
Più di una volta era arrivata a chiedersi perché i suoi l’avessero fatta nascere, se poi non la consideravano nemmeno quei due egoisti troppo presi da carriere, affari, bel mondo.
In quella sera di agosto pensare che tutto questo era alle sue spalle la fece sentir bene. Con nostalgia ripensò alle braccia forti della Giulia che la accoglievano sempre nei momenti in cui era necessario. Spesso prima che lei lo chiedesse. Rivide il suo seno avvolgente che aveva accolto e consolato i suoi pianti disperati.
In tutti i momenti importanti Giulia c’era stata. L’esame di maturità, la laurea. Era stata la sua confidente per le sue cotte e i suoi amori.
Le mancava come può mancare una nonna. Per lei era questo. Una nonna solida come una roccia, comprensiva, tenera che aveva saputo con leggerezza e acume riconoscere e far emergere il meglio di lei.
A 30 anni si sentiva dentro la ricerca infinita che la vita porta con sé . Ma senza pressioni e appagata per come la stava affrontando. Aveva sconfitto man mano le asperità più negative del suo carattere, pur continuando a lasciare campo libero a quelle che la rendevano unica e non omologabile a schemi prefissati.
Era diventata una archeologa di fama internazionale , con la sua tenacia e la sua voglia di ricostruire i nessi e i fili che legano passato e presente.
La ricerca delle radici che a lei erano mancate era diventata la sua professione. Viaggiava molto e in ogni parte del mondo.
L’aria si stava facendo finalmente tiepida sulla terrazza del suo appartamento nello Yucatan. Il rumore della festa si era un po’ attenuato. Il filo dei pensieri la spinse a sollevare ancora una volta il telefono. Era molto tardi e notte fonda per chi doveva rispondere. Si erano già sentite per gli auguri. Ma ne aveva bisogno in quel preciso momento di quella voce amorevole e calda , anche un po’ impastata nel risveglio forzato, che la faceva ogni volta tornare bambina .
“Ciao, nonna Giulia. Avevo bisogno di perdermi ancora un po’ nella tua voce e di pensare ai tuoi abbracci. Fai buoni sogni !”
Avresti voglia di scappare, di strapparti l’anima, di urlare e invece rimani prigioniera del tuo stesso essere che non ti lascia in pace.
Giorno dopo giorno ti divora, ti logora e tu ti senti persa, te ne stai chiusa, sempre più chiusa dentro te stessa per non vedere, per non capire.
Meglio starsene in un angolo del proprio buio.
Gli altri ti distruggono, ti fanno sentire ancora di più intrappolato e allora scappi, scappi dalla tua mente, dalle tue emozioni, dai tuoi desideri….
…E se invece di scappare ti fermassi?
Fermati.
Fermati, respira e prenditi cura di te stessa, pian piano capirai che ne puoi uscire fuori, ti ci vorrà del tempo, mesi…anni…ma ce la farai.
Cerca dentro, rovista, fruga, vai oltre il buio, vai a cercare il tuo Io primitivo, quello che ti ha dato la vita e impara a conoscerlo.
Apri la porta e vai…con minuziosa pazienza ricostruisci ogni parte di te cercando di perdonarti e di amarti, vedrai… sarai finalmente libera di essere così come sei.
Il paesaggio al tempo del coronavirus – di Elisabetta Brunelleschi
Dal 9 marzo non ho più varcato i confini del territorio comunale.
Sto tenendo lontano un nemico invisibile, che non so come e quando potrebbe attaccarmi e allora rispetto le regole che ci sono state date: esco di casa solo per la spesa. E mi sento anche in colpa perché il mio uscire quotidiano per il pane, il giornale o gli ortolani pare sia troppo! C’è chi mi rimprovera.
Ma per tutto il resto della giornata me ne sto nelle mie quattro mura e fuggo la smania impiegando il tempo con le più inconsuete attività.
Ricordo il percorso per la spesa di mercoledì 11 marzo, mi guardavo attorno attonita e incredula: paese deserto, molti negozi già chiusi, persone ben distanziate in coda per il fornaio, la cartoleria, l’edicola, pareva di entrare in un sogno.
Ora che siamo al 24 marzo, so con certezza che non era un sogno, è tutto vero, tragicamente vero!
Da questo forzato isolamento non posso sfuggire e in tutti i modi devo ricercare il sentimento che mi permette di accettare questi momenti, perché le giornate sono lunghe e non facili da riempire.
Intorno c’è silenzio e tranquillità. L’aria è chiara e trasparente. Qualcosa di buono lo sto trovando.
Trascorro il mio tempo senza scadenze di orari, parcheggi, appuntamenti, documenti in scadenza…, La famiglia, per quanto minima, è presente e vicina. Controllo la casa, mi diletto con la cucina, scrivo per passatempo.
Ai pochi parenti rimasti mi legano telefonate quasi giornaliere, arricchite da messaggi e invii di foto. Lo stesso con gli amici, con cui ci subissiamo a vicenda dei più incredibili whatsapp, dal serio al faceto, ma è l’unico modo per sentirci uniti.
Dobbiamo ammettere che i moderni mezzi di comunicazione sono una gran cosa. Per questo dovremmo farne un uso corretto e misurato.
Certamente i social non sono la realtà. Mi chiedo a volte cosa sarà rivedersi e parlare da vicino con gli odori, i suoni, gli abiti, i movimenti. Viso a viso senza lo schermo di un telefono o di un computer. La realtà del reale contrapposta a quella virtuale.
Ricominceremo, non so quando, ma dovremo ricominciare.
I pochi passi che faccio intorno a casa mi hanno permesso di vedere cose mai osservate: alberi, arbusti, uccelli svolazzanti, fiori appena sbocciati. È stato proprio da questo vedere che mi sono inventata un passatempo, elencare le specie arboree e erbacee presenti in un raggio di 100\150 metri dalla mia abitazione. È stupefacente la ricchezza della flora che ci circonda. In un paese che ormai è periferia della città, esiste una biodiversità vegetale pochissimo valorizzata e dai più sconosciuta! Collegata a questa vi è senz’altro la biodiversità animale. Penso soprattutto agli invertebrati (insetti, aracnidi, molluschi terrestri e vermi di ogni specie) che si aggirano sopra e sotto questo verde mondo. Potrà essere la prossima osservazione.
Mi chiedo spesso chi potrà trarre vantaggi da questo mese di forzato isolamento. I soliti sciacalli della finanza e del commercio avranno già i loro frutti e di alcuni ne verranno a sapere solo i posteri.
Sicuramente stanno guadagnando le farmacie, i produttori e commercianti di generi alimentari e gestori di luce, gas e acqua. Almeno una volta in farmacia siamo passati tutti. I supermercati super richiesti. Non c’è amico o conoscente che non si sia cimentato in ricette aumentando il consumo di energia per far funzionare fornelli, forni, lavastoviglie ecc. Chi mai in tempi di “libertà” si era dedicato così tanto alla cucina? Attenzione mi aspetto lamentele anche su questo!
Ma alla fine, noi, comuni e normali mortali, come ne usciremo? Molti, genitori, nonni, fratelli …, non ne usciranno, sono morti, muoiono e moriranno. Di quelli che resteranno vivi, in tanti, lo spero, alcuni ne usciranno più poveri, altri rimarranno quelli sono. Ma non è facile fare previsioni, nemmeno gli scienziati possono dirci qualcosa di certo.
Una cosa è certa, questo stare chiusi in casa che ci impedisce l’uso pluri-quotidiano dei mezzi a motore insieme al silenzio sta portando un deciso abbassamento dei livelli di inquinamento. Finalmente si respira …. Aria tersa, niente odori di gas di scarico, niente invisibili rilasci di pneumatici, parcheggi incredibilmente vuoti, … il prezzo della benzina forse calerà?
Mi immagino i boschi non più calpestati, nessuno, o pochissimi, all’assalto degli asparagi che in marzo iniziano a spuntare, chino a raccogliere il fiorellino, a rovistare nell’humus per l’ultimo fungo di stagione. I boschi e i campi si rigenerano.
E gli animali? Liberi di muoversi senza lo spavento del nemico a due zampe che in un attimo può incombere; cinghiali, caprioli, le vituperate volpi, le lepri, i tassi, gli istrici e ancora tanti altri come i relitti che con la primavera si stanno risvegliando.
Quelli che per noi sono giorni di timore per la natura si trasformano in intervallo di pace.
E allora?
Noi costretti in casa da oscuro morbo, recuperiamo ciò che vi può essere di semplice e genuino, abbiamo più tempo per i passatempi preferiti e svolgiamo attività che in tempi di libera uscita avremmo messo da una parte. Senza dimenticare, però, che il fuori ci sta aspettando.
E allora, quando potrò andare dove voglio, mi vorrò sentire come nella poesia di Ungaretti: