L’albero – di Cecilia Trinci

L’inverno aveva saltato il turno quell’anno. Forse perché voleva aggiungere altra inquietudine a quella che già serpeggiava. L’albero aveva comunque perso le foglie. Lentamente, sottovoce, soprattutto durante le piogge che avevano massacrato la fine dell’autunno. Nessuna esplosione di colori quell’anno, nessun cielo terso in trasparenza, poche mattine di leggera brinata ed eccolo lì il noce maestoso, contorto da mille piegature di rami, eppure alto, glorioso, allungato verso un cielo bigio e soffuso da una promessa di sole. Gli altri inverni invece c’erano stati. Difficili, pieni di vento e buriane, gelati e bui fino alle Pasque primaticce. Avevano coperto di legno i gomiti duri, addolcito gli spigoli delle ramificazioni. Erano le deviazioni, le crescite, i cambi di programma, le strategie e le perdite che gli avevano dato quella forma, tutto sommato, a vedersi così, aggraziata e tondeggiante come fosse stato in un giardino.
Era in un parco pubblico invece e non gli dispiaceva non appartenere a nessuno in particolare e sentirsi di tutti in generale. Le noci se le erano mangiate: i passanti con i sacchetti, gli scoiattoli con le code al vento. Non credeva ne fosse rimasta qualcuna per la discendenza. Invece sentiva che i rami dovevano nascondere diversi nidi, o almeno approdi comodi per tutti quegli uccelli che si fermavano a tratti. Erano tutti quei canti che nella foto non erano compresi ma che invece davano vita a quel quadro potente. Dal vivo, i rami vibravano non solo per la brezza ma anche per i voli, per quel posarsi frettoloso in punta in punta, per quel dondolare squilibrato ora a destra ora a sinistra per guardare un obiettivo, per scoprire una preda.
Si sentiva una spalla. Le spalle servono per abbracciarsi, per appoggiarsi. Per trasportare. Per pensare. Era così che si sentiva e quel salire su sempre più su ogni anno, sempre più vicino al cielo lo rendeva orgoglioso.
Tra poco ci sarebbero state gemme e poi fiori e foglie. E alla fine frutti grossi e verdi.
Forse l’estate sarebbe stata dura. Ormai lo era sempre da anni. Molto più cattiva di quegli inverni che non venivano più. Avrebbe avuto sete e caldo e avrebbe implorato la notte rossastra sempre troppo corta. Avrebbe dormito solo un po’ sul far della mattina con i primi chiarori. Avrebbe visto albe sempre più arancio e viola e fumi della terra in controluce. Silenzi di uccelli stremati.
Il silenzio soprattutto era cresciuto negli ultimi anni. Lo stupore della terra spaventata, la sonnolenza della gente nascosta. Solo cani abbaiavano in lontananza e non volevano aggiornarsi nelle aspettative.
Eppure l’albero aspettava, le canne gli facevano il solletico, i rovi alle spalle lo proteggevano dal grecale e da lassù guardava in lontananza. Forse vedeva il mare…….