Gli autori di questa sezione hanno collaborato al progetto di scrittura creativa “La Matita per scrivere il cielo” come ospiti esterni, regalandoci immagini e ricordi di quello che loro stessi hanno definito “Il Piccolo Mondo”, cioè il mondo antico della vita quotidiana, che risalta vivida e appassionata.
Il profumo del melograno – di Floriana Giovannini

Quando ero piccola stavo in una casa in campagna con grandi stanze affrescate e un bel giardino intorno, era una bella casa anche nel ricordo.
Lì c’erano le camere in sequenza e a volte, anche da piccina, mi mandavano a prendere qualcosa nell’ultima stanza: dovevo passarne due al buio. La consolazione era arrivare all’interruttore: ricordo quella sensazione del buio che finiva. In quel ricordo c’è anche il grande sollievo che provavo nel ritrovare tutte le cose che sapevo c’erano, ma mi ricordo anche che c’era una specie di sottile piacere in quella paura, come la soddisfazione di vincere una sfida. Da piccoli si cercano anche le paure, affascinano, attirano. Anche se mi ricordo che d’estate pensavo: “meno male fuori ci sono le lucciole!”
Mi ricordo la paura che avevo a mettere la mano sull’interruttore che a quei tempi era come una chiavetta: mi piaceva quel timore lì che io potevo annullare. Mi dava un senso di potere. E’ il ricordo di un attimo, quello in cui annullavo la paura con un solo gesto, girando l’interruttore. Tutte le volte che mi si chiedeva di fare luce per vincere il buio andavo, anche se ero piccola.
La paura da piccoli (8-9-10 anni) è anche gradita. C’è qualcosa che attrae. Sai che c’è qualcosa che ti spinge verso una cosa misteriosa. Allora c’era una ricerca di cose paurose…..si andava in certi posti dove si sapeva c’era qualcosa che faceva tremare… Anche le favole avevano tanto terrore.
Ora le favole svolazzano verso qualcosa di già preparato. Difficile che un bambino ora abbia voglia di andare a cercare qualcosa in un campo. I bambini sono addestrati, strutturati. Non gli si fanno fare esperienze, piuttosto si addestrano alla vita.
In quella casa in campagna mi ricordo una nonna piccola e magra che portava le mezzine. Il marito gliele aveva fatte fare su misura perché non portasse troppi pesi. La lucentezza rosa del rame veniva quando le strofinavano con il sale e un panno morbido. La forma era fatta apposta perché le donne potessero tenere questa “pancia” della brocca infilata nell’incavo della gamba quando camminavano.
Ce n’era una piccola per l’acqua da bere, si teneva sull’acquaio insieme al secchio. Il secchio era per lavare, la mezzina era piena di acqua da bere. Nella montagna pistoiese erano semplici, senza beccuccio e senza tappo. C’erano di diverse misure c’erano anche per le bambine….che andavano a prendere l’acqua con le mamme o le nonne. Si chiamavano BROCCHE.
L’acquaio era di pietra. Bere a brocca era un termine comune….anche se non si poteva fare.
Portare pesi era una regola allora, ma portare il secchio era più difficile perché sciaguattava.

Ho un ricordo come un’immagine scolpita, una fotografia indelebile di me a un anno e mezzo e mi rivedo proprio bene sul pianerottolo della vecchia casa che piangevo disperata e dicevo: “peddo a bache” (perdo le brache) perché mi cadevano giù le mutande. Ricordo la mia disperazione. Ero nella casa di famiglia, aveva un piano terra e un piano superiore con le camere. Tre pianerottoli di 5 scalini. Nel ricordo avevo sceso le scale e ero sull’ultimo pianerottolo. Me lo ricordo come un punto fermo della crescita perché avevo cominciato ad appoggiarmi sulle storie reali non sulle favole, ero entrata nella vita vera.
Lì c’era la nonna Laura, nata nel 1864.
All’inizio quando sono nata la mia mamma non aveva latte e avevo avuto la balia che era stata in casa con noi, poi la balia mi aveva preso e portato con sé a Casaluigi perché non poteva più stare da noi ed era una casa di contadini isolata in cima a una montagna, nel pistoiese. Poi è nato il mio fratellino e io sono stata affidata alla nonna.
La nonna Laura aveva avuto una vita difficile da ragazza, era stata mandata in montagna a fare la maestra, in un paesino sperduto. Era vissuta a Firenze nel periodo di Firenze capitale. Una donna che leggeva, evoluta, in questo strano paese aveva insegnato non solo a leggere e scrivere ma anche a mettersi le mutande, a pettinarsi, a quelle persone che lì avevano una vita primitiva. Non sapeva ricamare perché era stata educata a forza di libri, ma aveva imparato poi da sé e aveva insegnato anche agli altri. È morta a 84 anni. Un’altra cosa che “fa punto fermo” nei miei ricordi era il suo dire “chissà se arriverò fino al 1930!” In montagna la vita era dura se uno se la faceva così. Lei ha fatto di tutto per farsela meno stretta. Aveva insegnato a apprezzare la lettura. Aveva insegnato anche a scegliere non solo a leggere e scrivere ma anche a leggere quello che piaceva.
Scegliere è libertà.
Ha avuto due figli: uno mio babbo, Osvald e l’altra la zia Rina, erano i nomi presi da certe storie di Islanda. Rina era l’angelo delle nevi, per esempio.”
Si andava a fare la spesa nelle botteghe, allora. Io ci compravo le caramelle, che poi erano pasticche che stavano dentro contenitori di vetro grandi. Le compravo di nascosto. Era una regola di casa che io non dovevo andare nelle botteghe, ma passavo, vedevo le pasticche e le compravo.
Mi ricordo quelle tende che suonavano, erano fatte anche di tappi di bottiglia o di pezzetti di canna. Erano le tende anche dei contadini, antimosca. Probabilmente le facevano da sé. Non erano industriali.
Mi ricordo i soldi, il diecino, una moneta di rame con una mosca stampata sopra e che era il decimo di una lira e mi ricordo la bottegaia che trattava caramelle, sigarette, salumi, che si chiamava Confortina. Il fatto era che tutti ci mettevano le mani nei barattoli e quindi il divieto di comprare da lei era per l’igiene soprattutto.
Ci facevano mettere le mani dentro, ma la Confortina tanto pulita non doveva essere. Si vendeva di tutto: acciughe, soprassata, baccalà……tutto.
C’era odore di caffè in quelle botteghe, caffè, sigaro, naftalina…..un odore misto. Vendevano gli acchiappamosche, che erano strisce appiccicose…La Confortina aveva addosso anche questo odore misto di spezie.
Era una donna alta, secca, con le calze nere, il vestito lungo, con una specie di crocchia sulla cima della testa. Mora, vecchiotta, tinta con chissà che decotto era dunque un po’ rossiccia, era aspra, non bella.
Era da sola, non aveva altro aiuto. Era lei a gestire tutto quanto, forse non aveva supporti familiari. Tutte le botteghe erano UNA bottega. C’era un macellaio, un ortolano, che si chiamava il Cena. “Vai dal Cena a comprare le pesche”. Era un uomo enorme e anche la moglie. Si diceva “Vai dai Cena”. Anche lui per sé, si chiamava Cena. Erano persone tranquille, per forza, per forza di volume…perché erano tutti grossi! La produzione era locale. Il campo di questo ti dava i finocchi, il campo di quell’altro ti dava gli asparagi….era tutto molto locale.
E poi c’erano i pesciaioli lungo l’Arno.
Quello che trovavano nei fiumi, quello che pescavano lo mettevano dentro zucche grosse svuotate. Dentro le verniciavano con qualcosa di impermeabile. A volte c’avevano i ranocchi, a volte i barbi…..erano tutti pesci d’Arno…
Si mettevano lungo i fiumi e dietro la bicicletta trasportavano nelle strade queste zucche arancioni fuori e nere dentro e urlavano “pesciaio!!”
Giocare ho giocato poco. Mi ricordo una bambola che si chiamava Battina aveva gli occhi che si chiudevano, il visino di bisquit e tutti i vestitini. Non mi faceva provare una sensazione di maternità ma a me piaceva da guardare …dicevo dammala abattina e per un po’ me la facevano tenere. Le facevo chiudere gli occhi la guardavo un pochino e basta….
Questa bambola c’è ancora perché era per me una bellissima creatura, una bambina piccina, ma non una bambola per giocare. Per me il gioco era scrivere, disegnare….. Non ho molto giocato….sono montata tanto sugli alberi, magari…..la vita era questa.
Non ci sono querce da sughero nella montagna pistoiese. Ma ce n’era una, dove ero io, che avevano piantato apposta e tutti la rispettavano
La sughera che mi ricordo io era un’eccezione per il posto dove era, e quindi era ancora più magica.
Era rispettata, tenuta di conto.
Questa sughera da bambini ci affascinava perché si voleva staccare la corteccia e non si poteva perché bisogna aspettare un tot di anni tra un taglio e l’altro.

Mi piace anche ora toccare il liscio dentro la scorza, come ci piaceva allora. Il ruvido fuori è protezione, ma il dentro liscio è il contatto con l’anima della pianta, è forellato per avere il rapporto nutritivo. Anche da bambini eravamo affascinati. Quando mi sono resa conto che ci facevano anche le scarpe e i sugheri del vino la cosa mi è piaciuta meno. Questa leggerezza che non corrisponde alla massa della scorza, questo è il magico del sughero. Prima si facevano tanti oggetti col sughero, tappi, suole, …. Nonostante la friabilità il sughero è un materiale anche forte che può sostenere il peso.
I miei giochi all’aperto erano in un grande giardino che era intorno alla casa. C’erano i contadini oltre ai nonni e c’era una ragazzina che giocava con me, si andava a cercare il fiore nella valle, si andava a cercare il mostro per vedere se era vero che esisteva e si andava nei campi vuoti cioè non seminati. Si andava a cercare il Regolo, un serpentone con le ali. Il Regolo faceva paura perché sembrava che mangiasse i bambini. Quello che mi lasciavano fare volentieri era scrivere, disegnare….raccoglievo gli anemoni, li mettevo un pochino nell’acqua… campare era loro fortuna non cura mia, non ce n’erano tanti….bisognava andarli a cercare. Oppure andare di frodo a raccogliere le albicocche cascate….
Dopo è cambiato. Sono stata con la nonna e gli zii fino alla scuola media. Allora sono stata ripresa a casa mia dove c’era anche mio fratello e insieme si andava al ginnasio. I giochi erano diventati autonomia, con un fratello di un anno e mezzo più piccolo non si poteva condividere troppe cose….
Il distacco è stato doveroso, la casa dei nonni era in collina, fra l’altro splendida, era lontano da qualsiasi mezzo di trasporto e quindi sono tornata a casa dai miei genitori perché il babbo ci portava a scuola con la macchina. Il sabato mi prendevano da scuola mi portavano alla base della collina e io tornavo a casa dei nonni e degli zii fino alla domenica sera. E’ stato arricchente perché ho incontrato culture diverse e importanti per me. E’ quello che poi ho cercato nei viaggi che hanno unito me e mio marito. Si cercavano culture, modi di vivere, non solo luoghi.
Il mio matrimonio è stato una lunga intesa d’amore.
Mi ricordo quando accadde. Fu una festa di famiglia tranquilla, con i cugini della stessa età che nel mio caso erano molto giovani e qualche spizzico di persone anziane, la vecchia zia, la bisnonna…
Ricordo i giovani che venivano a fare colazione dopo la cerimonia. Non si stava seduti a tavola ad aspettare di essere serviti, ma gli invitati andavano in giro stando tra loro…si servivano da sé, nessuno serviva nessuno. Era una colazione tipo “aperipranzo”
Il posto erano i due salotti della casa di mia zia. Le persone che erano stati presenti alla cerimonia erano tutte lì, un po’ in piedi un po’ sedute, ma non intorno al tavolo.
Vedo ancora tutto così nitido.
Vedo i vestiti estivi di luglio, i vestiti nuovi delle ragazze di luglio….
Vedo le mie vecchie zie, che difficilmente si muovevano da casa loro in montagna, all’Abetone. In genere si andava noi, raramente scendevano loro quindi era già un evento che fossero venute. Le zie erano: Isola e Rina e poi c’era Elena, queste erano le zie vecchie e poi c’era Maria. Erano tutte anziane.
Non accadeva spesso di fare pranzi. Succedeva durante la stagione della caccia che veniva fatta d’inverno..
Vedo la cucina grande con il focolare, il camino, la legna accesa, l’attrezzo per fare l’arrosto girato. Il piano del fuoco era alla mia altezza e guardavo tutto attentamente: lo zio ungeva l’arrosto, seguivo lo scricchiolio della ruota del girarrosto. Tutte queste cose erano non ferme, ma in movimento, c’era il rumore del meccanismo, il rumore del metallo, c’erano suoni, il girare dell’arnese…..
Gli uccellini non erano così protetti come ora. C’erano i tordi, le beccacce, i merli, la caccia era normale ma era anche una cosa complessa, c’era il rito della cacciata, la spennatura, la preparazione della selvaggina…….in finale il girarrosto. Allora non facevano pena, era cosa normale mangiare gli animali. Era naturale. Non ci si sentiva cattivi a mangiare la carne della natura.
Oggi, tra questi profumi, mi ha solleticato uno che ho riconosciuto come di melograno. Mi ha riportato al periodo in cui, da bambina, facevo la caccia ai melograni. Il fiore del melograno aveva una consistenza grassosa, morbida, sostenuta ma anche elastica e un certo profumo che non può essere considerato profumo ma solo un alone di giovinezza del fiore. Andavo a caccia di melograni e li prendevo a chi li aveva e li schiacciavo e l’odore era così diverso da tutti gli altri frutti conosciuti, soliti, la mela, la pera, la pesca….
Era un profumo costretto a venir fuori per farmi piacere, non era un profumo spontaneo.
In oriente era un profumo abituale e i miei viaggi in oriente mi hanno poi riportato al vecchio odore, colore, sapore del melograno di quando ero bambina.
Il melograno non ha un sapore intenso da ricordare, ma nel suo insieme quei chicchi, quei colori danno questa sensazione di particolarità che, anche se non va in modo prorompente direttamente al cervello, razzola più lentamente nei meandri della memoria.
Ora mi ricorda i viaggi con mio marito, la mia vita con lui. Mi piaceva, ci piaceva il viaggio dal punto di vista del contatto con la gente. Ci ha unito, questa voglia di andare, quando si tornava si pensava già a quello dopo.
Volevo conoscere i modi di insegnare, quello che fanno a scuola, come fanno a imparare, cosa che è diversa da mondo a mondo…in Africa è un modo, in Russia è un altro, questa strada diversa ti fa trovare la tua, la grande risorsa della geofisica, del terreno, delle rocce: dai diamanti dell’Africa alle cascate dell’Islanda.
Conoscere è sempre stato il mio lavoro ….era un piacevole modo di lavorare. Sono stata farmacista per 7- 8 anni poi ho fatto tutto quello che ci voleva per insegnare e poi ho lavorato per la camera di Commercio di Firenze e di Prato e poi per gli editori…..ho avuto sempre la curiosità di stare al mondo. Oppure si può dire che il mio è stato uno stare al mondo con curiosità.
In fondo ricordiamoci che il destino te lo fabbrichi da te.










