Le “Parole del Piccolo Mondo” – Floriana Giovannini

Gli autori di questa sezione hanno collaborato al progetto di scrittura creativa “La Matita per scrivere il cielo” come ospiti esterni, regalandoci immagini e ricordi di quello che loro stessi hanno definito “Il Piccolo Mondo”, cioè il mondo antico della vita quotidiana, che risalta vivida e appassionata.

Il profumo del melograno – di Floriana Giovannini

Quando ero piccola stavo in una casa in campagna con grandi stanze affrescate e un bel  giardino intorno, era una bella casa anche nel ricordo.

Lì c’erano le camere in sequenza e a volte, anche da piccina, mi mandavano a prendere qualcosa nell’ultima stanza:  dovevo passarne due al buio. La consolazione era arrivare all’interruttore: ricordo quella  sensazione del buio che finiva. In quel ricordo c’è anche il grande sollievo che provavo nel ritrovare tutte le cose che sapevo c’erano, ma mi ricordo anche che c’era una specie di sottile piacere in quella paura, come la soddisfazione di vincere una sfida. Da piccoli si cercano anche le paure, affascinano, attirano. Anche se mi ricordo che d’estate pensavo: “meno male fuori ci sono le lucciole!”

Mi ricordo la paura che avevo a mettere la mano sull’interruttore che a quei tempi era come una chiavetta: mi piaceva quel timore lì che io potevo annullare. Mi dava un senso di potere. E’ il ricordo di un attimo, quello in cui annullavo la paura con un solo gesto, girando l’interruttore. Tutte le volte che mi si chiedeva di fare luce per vincere il buio andavo, anche se ero piccola.

La paura da piccoli (8-9-10 anni) è anche gradita. C’è qualcosa che attrae. Sai che c’è qualcosa che ti spinge verso una cosa misteriosa. Allora c’era una ricerca di cose paurose…..si andava in certi posti dove si sapeva c’era qualcosa che faceva tremare… Anche le favole avevano tanto terrore.

Ora le favole svolazzano verso qualcosa di già preparato. Difficile che un bambino ora abbia voglia di andare a cercare qualcosa in un campo. I bambini sono addestrati, strutturati. Non gli si fanno fare esperienze, piuttosto si addestrano alla vita.

In quella casa in campagna mi ricordo una nonna piccola e magra che portava le mezzine. Il marito gliele aveva fatte fare su misura perché non portasse troppi pesi.  La lucentezza rosa del rame veniva quando le strofinavano con il sale e un panno morbido. La forma era fatta apposta perché le donne potessero tenere questa “pancia” della brocca infilata nell’incavo della gamba quando camminavano.

Ce n’era una piccola per l’acqua da bere, si teneva sull’acquaio insieme al secchio. Il secchio era per lavare, la mezzina era piena di acqua da  bere.  Nella montagna pistoiese erano semplici, senza beccuccio e senza tappo. C’erano di diverse misure c’erano anche per le bambine….che andavano a prendere l’acqua con le mamme o le nonne. Si chiamavano BROCCHE.

L’acquaio era di pietra. Bere a brocca era un termine comune….anche se non si poteva fare.

Portare pesi era una regola allora, ma portare il secchio era più difficile perché sciaguattava.

Ho un ricordo come un’immagine scolpita, una fotografia indelebile  di me  a un anno e mezzo e mi rivedo proprio bene  sul pianerottolo della vecchia casa che piangevo disperata e dicevo: “peddo a bache” (perdo le brache) perché mi cadevano giù le mutande. Ricordo la mia disperazione. Ero nella casa di famiglia, aveva un piano terra e un piano superiore con le camere. Tre pianerottoli di 5 scalini. Nel ricordo avevo sceso le scale e ero sull’ultimo pianerottolo. Me lo ricordo come un punto fermo della crescita perché avevo cominciato ad appoggiarmi sulle storie reali non sulle favole, ero entrata nella vita vera.

Lì c’era la nonna Laura, nata nel 1864.

All’inizio quando sono nata la mia mamma non aveva latte e avevo avuto la balia che era stata in casa con noi, poi la balia mi aveva preso e portato con sé a Casaluigi perché non poteva più stare da noi  ed era una casa di contadini isolata in cima a una montagna, nel pistoiese. Poi è nato il mio fratellino e io sono stata affidata alla nonna.

La nonna Laura aveva avuto una vita difficile da ragazza, era stata mandata in montagna a fare la maestra, in un paesino sperduto. Era vissuta a Firenze nel periodo di Firenze capitale. Una donna che leggeva, evoluta, in questo strano paese aveva insegnato  non solo a leggere e scrivere ma anche a mettersi le mutande, a pettinarsi, a quelle persone che lì avevano una vita primitiva. Non sapeva ricamare perché era stata educata a forza di libri, ma aveva imparato poi da sé e aveva insegnato anche agli altri. È morta a 84 anni. Un’altra cosa che “fa punto fermo” nei miei ricordi era il suo dire “chissà se arriverò fino al 1930!” In montagna la vita era dura se uno se la faceva così. Lei ha fatto di tutto per farsela meno stretta. Aveva insegnato a apprezzare la lettura. Aveva insegnato anche a scegliere non solo a leggere e scrivere ma anche a leggere quello che piaceva.

Scegliere è libertà.

Ha avuto due figli: uno mio babbo, Osvald e l’altra la zia    Rina, erano i nomi presi da certe storie di Islanda. Rina era l’angelo delle nevi, per esempio.”

 Si andava a fare la spesa nelle botteghe, allora. Io ci compravo le caramelle, che poi erano pasticche che stavano dentro contenitori di vetro grandi. Le compravo di nascosto. Era una regola di casa che io non dovevo andare nelle botteghe, ma passavo, vedevo le pasticche e le compravo.

Mi ricordo quelle tende che suonavano, erano  fatte anche di tappi di bottiglia o di pezzetti di canna. Erano le tende anche dei contadini,  antimosca. Probabilmente le facevano da sé. Non erano industriali.

  Mi ricordo i soldi, il diecino, una moneta di rame con una mosca stampata sopra e che era il decimo di una lira e mi ricordo la bottegaia che trattava caramelle, sigarette, salumi, che si chiamava Confortina. Il fatto era che tutti ci mettevano le mani nei barattoli e quindi il divieto di comprare da lei  era per l’igiene soprattutto.

Ci facevano mettere le mani dentro, ma la Confortina tanto pulita non doveva essere. Si vendeva di tutto: acciughe, soprassata, baccalà……tutto.

 C’era odore di caffè in quelle botteghe, caffè, sigaro, naftalina…..un odore misto. Vendevano gli acchiappamosche, che erano strisce appiccicose…La Confortina aveva addosso anche questo odore misto di spezie.

Era una donna alta, secca, con le calze nere, il vestito lungo, con una specie di crocchia sulla cima della testa. Mora, vecchiotta, tinta con chissà che decotto era dunque un po’ rossiccia, era aspra, non bella.

Era da sola, non aveva altro aiuto. Era lei a gestire tutto quanto, forse non aveva supporti familiari. Tutte le botteghe erano UNA bottega. C’era un macellaio, un ortolano, che si chiamava il Cena. “Vai dal Cena a comprare le pesche”. Era un uomo enorme e anche la moglie. Si diceva “Vai dai Cena”. Anche lui per sé, si chiamava Cena. Erano persone tranquille, per forza, per forza di volume…perché erano tutti grossi! La produzione era locale. Il campo di questo ti dava i finocchi, il campo di quell’altro ti dava gli asparagi….era tutto molto locale.

E poi c’erano i pesciaioli lungo l’Arno.

Quello che trovavano nei fiumi, quello che pescavano lo mettevano dentro  zucche grosse svuotate. Dentro le verniciavano con qualcosa di impermeabile. A volte c’avevano i ranocchi, a volte i barbi…..erano tutti pesci d’Arno…

Si mettevano lungo i fiumi e dietro la bicicletta trasportavano nelle strade queste zucche arancioni fuori e nere dentro e urlavano “pesciaio!!”

Giocare ho giocato poco. Mi ricordo una bambola che si chiamava Battina aveva gli occhi che si chiudevano, il visino di bisquit e tutti i vestitini. Non mi faceva provare una sensazione di maternità ma a me piaceva da guardare  …dicevo dammala abattina e per un po’ me la facevano tenere. Le facevo chiudere gli occhi la guardavo un pochino e basta….

Questa bambola c’è ancora perché era per me una bellissima creatura, una bambina piccina, ma non una bambola per giocare. Per me il gioco era scrivere, disegnare….. Non ho molto giocato….sono montata tanto sugli alberi, magari…..la vita era questa.

Non ci sono querce da sughero nella montagna pistoiese. Ma ce n’era una, dove ero io, che avevano piantato apposta e tutti la rispettavano

La sughera che mi ricordo io era un’eccezione per il posto dove era, e quindi era ancora più magica.

Era rispettata, tenuta di conto.

Questa sughera da bambini ci affascinava perché si voleva staccare la corteccia e non si poteva perché bisogna aspettare un tot di anni tra un taglio e l’altro.

 Mi piace anche ora toccare  il liscio dentro la scorza, come ci piaceva allora. Il ruvido fuori è protezione, ma il dentro liscio è il contatto con l’anima della pianta, è forellato per avere il rapporto nutritivo. Anche da bambini eravamo affascinati. Quando mi sono resa conto che ci facevano anche le scarpe e i sugheri del vino la cosa mi è piaciuta meno. Questa leggerezza che non corrisponde alla massa della scorza, questo è il magico del sughero. Prima si facevano tanti oggetti col sughero, tappi, suole, …. Nonostante la friabilità il sughero è un materiale anche forte che può sostenere il peso.

I miei giochi all’aperto erano in un grande giardino che era intorno alla casa. C’erano i contadini oltre ai nonni e c’era una ragazzina che giocava con me, si andava a cercare il fiore nella valle, si andava a cercare il mostro per vedere se era vero che esisteva e si andava nei campi vuoti cioè non seminati. Si andava a cercare il Regolo, un serpentone con le ali. Il Regolo faceva paura perché sembrava che mangiasse i bambini. Quello che mi lasciavano fare volentieri era scrivere, disegnare….raccoglievo gli anemoni, li mettevo un pochino nell’acqua… campare era loro fortuna non cura mia, non ce n’erano tanti….bisognava andarli a cercare. Oppure andare di frodo a raccogliere le albicocche cascate….

Dopo è cambiato. Sono stata con la nonna e gli zii fino alla scuola media. Allora sono stata ripresa a casa mia dove c’era anche mio fratello e insieme si andava al ginnasio. I giochi erano diventati autonomia, con un fratello di un anno e mezzo più piccolo non si poteva condividere troppe cose….

Il distacco è stato doveroso, la casa dei nonni era in collina, fra l’altro splendida, era lontano da qualsiasi mezzo di trasporto e quindi sono tornata a casa dai miei genitori perché il babbo ci portava a scuola con la macchina. Il sabato mi prendevano da scuola mi portavano alla base della collina e io tornavo a casa dei nonni e degli zii fino alla domenica sera. E’ stato arricchente perché ho incontrato culture diverse e importanti per me. E’ quello che poi ho cercato nei viaggi che hanno unito me e mio marito. Si cercavano culture, modi di vivere, non solo luoghi.

Il mio matrimonio è stato una lunga intesa d’amore.

Mi ricordo quando accadde. Fu una festa di famiglia tranquilla, con i cugini della stessa età che nel mio caso erano molto giovani e qualche spizzico di persone anziane, la vecchia zia, la bisnonna…

Ricordo i giovani che venivano a fare colazione dopo la cerimonia. Non si stava seduti a tavola ad aspettare di essere serviti, ma gli invitati andavano in giro stando tra loro…si servivano da sé, nessuno serviva nessuno. Era una colazione tipo “aperipranzo”

Il posto erano i due salotti della casa di mia zia. Le persone che erano stati presenti alla cerimonia erano tutte lì, un po’ in piedi un po’ sedute, ma non intorno al tavolo.

Vedo ancora tutto così nitido.

Vedo i vestiti estivi di luglio, i vestiti nuovi delle ragazze di luglio….

Vedo le mie vecchie zie, che difficilmente si muovevano da casa loro in montagna, all’Abetone. In genere si andava noi, raramente scendevano loro quindi era già un evento che fossero venute. Le zie erano:  Isola e Rina e poi c’era Elena, queste erano le zie vecchie e poi c’era Maria. Erano tutte anziane.

Non accadeva spesso di fare pranzi. Succedeva durante la stagione della caccia che veniva fatta d’inverno..

Vedo la cucina grande con il focolare, il camino, la legna accesa, l’attrezzo per fare l’arrosto girato. Il piano del fuoco era alla mia altezza e guardavo tutto attentamente: lo zio ungeva l’arrosto, seguivo lo scricchiolio della ruota del girarrosto. Tutte queste cose erano non ferme, ma in movimento, c’era il rumore del meccanismo, il rumore del metallo, c’erano suoni, il girare dell’arnese…..

Gli uccellini non erano così protetti come ora. C’erano i tordi, le beccacce, i merli, la caccia era normale ma  era anche una cosa complessa, c’era il rito della cacciata, la spennatura, la preparazione della selvaggina…….in finale il girarrosto. Allora non facevano pena, era cosa normale mangiare gli animali. Era naturale. Non ci si sentiva cattivi a mangiare la carne della natura.

Oggi, tra questi profumi, mi ha solleticato uno che ho riconosciuto come di melograno. Mi ha riportato al periodo in cui, da bambina, facevo la caccia ai melograni. Il fiore del melograno aveva una consistenza grassosa, morbida, sostenuta ma anche elastica e un certo profumo che non può essere considerato profumo ma solo un alone di giovinezza del fiore. Andavo a caccia di melograni e li prendevo a chi li aveva e li schiacciavo e l’odore era così diverso da tutti gli altri frutti conosciuti, soliti, la mela, la pera, la pesca….

Era un profumo costretto a venir fuori per farmi piacere, non era un profumo spontaneo.

In oriente era un profumo abituale e i miei viaggi in oriente mi hanno poi riportato al vecchio odore, colore, sapore del melograno di quando ero bambina.

Il melograno non ha un sapore intenso da ricordare, ma nel suo insieme quei chicchi, quei colori danno questa sensazione di particolarità che, anche se non va in modo prorompente direttamente al cervello,  razzola più lentamente nei meandri della memoria.

Ora mi ricorda i viaggi con mio marito, la mia vita con lui. Mi piaceva, ci piaceva  il viaggio dal punto di vista del contatto con la gente. Ci ha unito,   questa voglia di andare, quando si tornava  si pensava già a quello dopo.

Volevo conoscere i modi di insegnare, quello che fanno a scuola, come fanno a imparare, cosa che è diversa da mondo a mondo…in Africa è un modo, in Russia è un altro, questa strada diversa ti fa trovare la tua, la grande risorsa della geofisica, del terreno, delle rocce: dai diamanti dell’Africa alle cascate dell’Islanda.

Conoscere è sempre stato il mio lavoro ….era un piacevole modo di lavorare. Sono stata farmacista per 7- 8 anni poi ho fatto tutto quello che ci voleva per insegnare e poi ho lavorato per la camera di Commercio di Firenze e di Prato e poi per gli editori…..ho avuto sempre la curiosità di stare al mondo. Oppure si può dire che il mio è stato uno stare al mondo con curiosità.

In fondo ricordiamoci che il destino te lo fabbrichi da te.

L’isolamento e la ricerca del passato

Il coronavirus ci isola. Ci porta a rimanere da soli, a scavare nel passato, a cercare di capire chi siamo e cosa rimane di ciò che siamo stati. Ci sono cassetti in cui conserviamo appunti scritti. La parola scritta non si ammala, non mente, rimane testimone eterna di ciò che abbiamo vissuto.

Un esempio? Una pagina di diario del 2002 riferita a un viaggio di studio di mia figlia in Amazzonia. Quasi due mesi isolata nella foresta con ogni tipo di pericolo davanti. Pochi contatti via internet a distanza di giorni uno dall’altro. Una grande prova. Coraggio e amore. Un ricordo, una traccia di ciò che siamo stati, di ciò che siamo ancora.

31 luglio 2002

Ieri sera, dopo aver guarducchiato il film perché Claudia parlasse in pace per conto suo (via internet) con la sua complice amazzonica (che guarda caso si chiama Cecilia anche lei …o che nome abbinato sempre a gente inquietante!) l’ho raggiunta in camera sua e mi sono distesa sul suo letto a guardarla. Lei mi leggeva la descrizione dei luoghi dove andrà, che in effetti non sono “il bagno Maria” di Rimini con le discoteche e gli spinelli, ma le coste del Rio delle Amazzoni e mentre mi elencava le innumerevoli specie di insetti che vivono SOLO lì e le razze di alligatori che, dice, sono pericolosi SOLO SE SI PESTANO, e mi elencava la percentuale mondiale dei primati, degli uccelli, dei rettili, degli anfibi, dei pesci che sembrava mi sciorinasse tutto il regno animale e vegetale dell’enciclopedia Treccani, mano a mano vedevo i suoi occhi illuminarsi e riempirsi di tutti quei riflessi. E gli occhi suoi riflettevano tutti i colori e i verdi di quelle foreste, si riempivano dei riflessi delle scaglie dei pesci, dei mantelli di ocelot e di giaguari, delle penne di uccelli quasi immaginari, di are, pappagalli e altri nomi neppure mai sentiti. E mentre ero lì sentivo il mio cuore come le crete di Siena, un po’ crettato e diviso in settori. Uno era decisamente di paura “ma dove sta andando questa pazza scatenata?” ma le altre scaglie erano di gioia. Di gioia nel vedere i suoi occhi pieni di gioia. Di gioia perché ce l’ho fatta a portarla fino a qui, ce l’ho fatta a permetterlo. E molto ha voluto dire questo progetto inatteso che mi ha dato i soldi per  questi suoi viaggi e questi studi incoscienti!

Un’altra creta  mi diceva: “forse non sei stata una mamma giusta. Potevi insegnarle l’uncinetto, dovevi proteggerla di più”….ma più pensavo così e più qualcosa dentro mi spingeva a pensare “vai vai vai, vai libera, vai felice, è la gioia più grande vederti così, dolce, con quei capelli che saluto addormentati ancora ogni mattina, così fini e teneri e con quello sguardo che è un misto di dolcezza e di diamantina determinazione. Io morirò di ansia, ma ti proteggerò anche da lontano perché non esiste lontananza per un amore, quando è grande davvero….”

E poi ho pensato che se sopravvivo alla paura, questa prova sarà importante anche per me. E allora penso che come ora io aiuto Claudia a realizzare i suoi sogni, sarà lei a dare forza a me e mi aiuterà a liberare la mia energia, e mi darà la spinta perché incontri davvero la persona che è in me.

Cecilia

Le Matite incontrano la LIS – Parole come farfalle

Lucia Daniele e la poesia Matite in lingua dei segni
Rosaria Giuranna – L’orologio in Lingua dei segni

Le Matite per scrivere il cielo incontrano la lingua dei segni con Alessandra Biagianti, insegnante e ricercatrice LIS.

Le parole, le emozioni hanno molte possibilità e molte strade, a volte sconosciute, da poter percorrere. Le parole possono anche volare per attraversare gli spazi che ci separano e farci sempre e comunque incontrare.

Alcune ispirazioni da L’Orologio di Rosaria Giuranna

Carmela

L’orologio

1…2…3…tac…tac..tac..

Giorni? Mesi? Anni?

Tanti anni…

Ne sento tutto il peso

E vorrei buttar via tutto, cancellare

 tornare indietro e fermarlo

Ma lui, il tempo, guarda e passa

Non ha pietà di nessuno

Gabriella

E uno, e due, e tre, e quattro

Pa   pa   pa   pa   pa

non  si muove nulla

il tempo passa

Tempo perduto

a rincorrere un filo

che non c’è più

Via via via

mettilo via

pa  pa  pa  pa  pa

Ma che fai!

mangi

dormi

Pa  pa  pa  pa  pa

poi rimangi

e ridormi

Donna inutile

voli nel vuoto

pa  pa  pa  pa  pa

Sopra sotto

destra sinistra

giri rigiri

Stravolgi tutto

rimescoli vortici

nello spazio

Pa  pa  pa  pa  pa

PA      

BASTA

Adesso basta

ferma il nulla

vuoto

Maria Laura

Il trascorrere del tempo è ineluttabile. Quando le ore passano troppo veloci hanno il rumore degli spari.

Carla

Non capire…sforzarsi di capire…male alla schiena.

Sforzarsi ancora di più…male al collo.

Voglio capire…male alla testa.

Ci rinuncio, sto meglio, bella la gestualità, sto bene!

Mi godo il video e non voglio cercare di capire. Perfetto!

Eppoi c’è l’orologio…ormai ci sono abituata.

Mi piace da subito, il video ha ritmo, come le ore, come il tempo. Tanto tempo, tempo veloce.

C’è troppo tempo da non riuscire a trovare il tempo.

Nadia

Orologio che scandisce le ore del giorno, quelle belle, quelle brutte,

quelle in cui è l’ansia a dominare,

quelle in cui tutto è tranquillo,

quelle in cui la stanchezza ha il sopravvento e ci si può abbandonare finalmente al sonno!

Rossella

Una, più una, più una, ed un’altra ancora…

Passa il tempo, inesorabile e monotono..

Allontanandomi da te…nel suo passaggio ne scoprirò la musica, ma solo io dirigerò l’orchestra…

Vivrò scappando, ignorando le ore, sarà domani di nuovo, un altro giorno, un’altra me…ma tu, tu, non scappare.

Sandra

Una donna  dall’aspetto severo, con capelli neri e vestito nero, è arrabbiata con quell’orologio che fa trascorrere il tempo…ore,  giorni, mesi,  anni sempre con il solito tic tac tic tac e non cambia  niente.

Finalmente in un momento sembra che qualcosa sia mutato, ma è un’illusione, e tutto  torna come prima. 

Decide che, il tempo ormai trascorso  non tornerà più,  comunque è stato sempre migliore del presente e forse del futuro.

Stefania

Girano le lancette segnando ore sempre uguali. Durano lo stesso tempo, le ore di giorno e le ore di notte. Le ore serene e le ore di ansia. Le ore di giorno, assolate, e le ore dei giorni di pioggia, grigie.

Durano lo stesso giro di lancette, i giorni che non passano mai, e quelli che non hai finito di veder sorgere, che già  finiscono.

Quell’orologio ha accompagnato la vita, fino al momento in cui fu così responsabile di scadenze ineluttabili, da essere sopraffatto. E scoppiò: in un groviglio di numeri e lancette, lasciò  rotolare per terra ore, minuti, secondi, giornate intere. E si mescolarono. Si intrecciò il giorno più  buio dell’anno, con quel giorno d’afa soffocante, le ore più  tristi, quelle insopportabili, con i momenti sereni, giocosi.

Formavano dei mucchietti, non si distinguevano più.  Continuavano a mescolarsi, a scappare, e ad essere attratti. Non trovavano una definizione. Ricominciarono ad esplodere. Si toccavano e scoppiavano.

Ed erano fuochi artificiali, colorati.

Tina

Passa il tempo, ora, ieri, domani

Oggi, passa, passa, passa

Veloce, piano, passa

Se sono felice il tempo passa veloce

Se sono triste, è lento lento, pesante.

Mirella

  • L’orologio

1,2,3, 4…tic tac..

Il tempo passa, arriva il giorno e poi la notte.

Gira gira, gioiosamente o tristemente?

Sicuramente velocemente nel tempo felice e lentamente nella sofferenza.

Impazientemente o stancamente?

Tic tac, 1,2,3,4….quando si fermerà? Ma si fermerà?

Capelli come rami

…tra i rami… – di Rossella Gallori

Il cappotto striminzito, che…strano l’ anno passato le stava quasi bene, di un verde “ arreso” più simile al pantano, che al prato, gli scarponcelli senza lacci più per trascuratezza che per moda, i capelli,  increspati dall’umido si sollevavano ad ogni passo, verso il cielo, come rami secchi, tremando quasi, come le sue mani rattrappite dal freddo, nei guantini bucati color neve sporca….

A vederla da lontano sembrava una bimba, una bimba stanca, un po’ persa, dall’incedere lento, pesante…anche il suo berretto l’ aveva abbandonata…un calzerotto di lana rossa un po’ infeltrito, con un  pompon  spennacchiato, che ora giaceva a terra come una briciola di Pollicino nel viottolo decretando il suo passaggio a tre, quattro merli infreddoliti ed umidi.

Si era, poi,  fermata di colpo al culmine della salita, in un silenzio peso come la croce di Cristo, con la nebbia che aveva solo voglia di ingoiarla, infondo aveva voglia di essere inghiottita da qualcosa, anche solo per pochi minuti, ore, riposare in uno stomaco caldo ed accogliente, appoggiata a solide pareti, senza spigoli, camminare dentro qualcuno…farsi trasportare…

Fuori c’era l’inverno…forse da sempre…

Udì una voce, non si voltò  aveva paura di perdere quel poco equilibrio che le era rimasto, di cadere e sporcarsi fuori oltre che dentro, il fango sembrava invitarla ad un amplesso cattivo……

Riudì la voce ed ancora una volta…non si voltò.

L’albero di quercia

Incontro – di Elisabetta Brunelleschi

Albero spoglio.

Albero d’inverno.

Sembra una grande quercia, è circondata da fitte canne con lunghe foglie gialle, piegate verso il basso.

Non ci sono persone, ma solo piante addormentate nel sonno invernale.

È una natura svettante e rigogliosa che sembra aver preso il sopravvento su uno spiazzo erboso che in antico poteva essere usato come pascolo. Le pecore brucavano e il pastore le sorvegliava riparandosi sotto le fronde della quercia.

Io amo molto questi scorci. In ogni stagione mi piace camminare tra campi e boschi, guardando intorno, osservando ogni segno animale o vegetale.

Ma non cammino da sola, temo incontri strani,soprattutto con cani randagi. Quando percorro viottole o sentieri preferisco essere in compagnia.

Quindi in questa scena mi immagino insieme ai miei abituale compagni di escursioni. Siamo fermi e i nostri occhi si posano sulla grande quercia che pare abbracciare il cielo. Ci riposiamo nel silenzio di una natura addormentata e poi, lentamente, riprendiamo il cammino.  

L’albero del mercato

L’albero del pentolaino – di Carla Faggi

Aveva un’apina carica di pentolame, faceva la gita di paese in paese.

– Forza spose che l’è arrivato il pentolaino!

Al suo richiamo le donne uscivano dalle loro case per cercare e poi acquistare un mestolo, un tegame, una scodella.

Era un bell’uomo, il pentolaino, magro, simpatico, volto intelligente.

Molte finivano per comprare qualcosa solo per potersi intrattenere in sua compagnia.

Aveva molte fidanzate, più di una per paese, però la sera tornava sempre a casa dalla moglie e dai figli.

Era un girellone, si diceva allora.

Era uno che piaceva, c’era poco da fare!

Però il marito di una sua cliente, uomo forte e un po’ manesco, decise di non essere daccordo sul “c’era poco da fare”.

Non picchiò il pentolaino ma si sfogò sul prezioso mezzo di trasporto.

Povera apina, tutta accartocciata, le ruote perforate, gli sportelli divelti.

Fu peggio di un pugno in testa, come poteva fare ora con le gite?

Fu così che il pentolaino decise di aprire un banco sotto un grande albero in mezzo al paese, ci espose tutti i suoi tegami e aspettò che le spose dei paesi vicini venissero direttamente lì.

Fu un successo!

Si mormora che il sindaco del paese, conquistato dall’idea, decise di far proprio in quel luogo, sotto il grande albero, il primo mercato cittadino.

Ad oggi a Sesto la piazza del mercato la chiamano tutti la piazza del pentolaino.

L’albero grande

ll grande albero – di Tina Conti

La vita lo pressava con impegni e responsabilità, era soddisfatto delle mete raggiunte ma  gli mancavano i suoi momenti di  rilassamento e vagabondaggio nei posti della giovinezza.

Guardava fuori dalla finestra e sognava  quelle sensazioni, e i posti cari dei  ricordi.

A volte non ce la faceva  e doveva scappare.,

Indossava le  scarpe ammorbidite con il grasso , un regalo del suo amico  di avventure che ritrovava in estate  per  una ricerca  in montagna.

La giacca, comoda e con tante tasche e lo zaino piccolo sempre pronto  con  un  corredo di sopravvivenza.

Coltellino, spiccioli, fazzoletti, una borraccia, cappellino  e ultimo acquisto il telo termico super leggero  .cose che rimanevano sempre  ad aspettarlo per le fughe.

Nelle tasche della giacca, rotolavano noccioli, sassi di forme arrotondate, una noce.

Non ce la faceva a non piegarsi a raccogliere quelle  cose cosi belle che dentro la tasca accarezzava e indovinava.

Il bastone stava dietro la porta, nessuno lo doveva spostare, era di nocciolo, forte e nodoso ma rassicurante  durante la strada.

I primi passi erano energici, frettolosi, infilava le viottole ,tagliava i campi.

Sentiva la bramosia di arrivare al suo posto speciale.

Ascoltava il vento sul viso, il profumo dell’aria, riconosceva gli odori dei posti che percorreva; il fossato, la concimaia di Rosetta, la capanna dei conigli, il bucato steso al sole il vento di primavera portava l’odore di primi fiori

Passata la spianata, intravedeva la chioma elegante e maestosa della sua quercia.

Sentiva lo svolazzare  dei passerotti, il cinguettio dei merli e pettirossi.

In inverno pace, quiete e la brezza di tramontano che lo costringa  a chiudersi il

colletto della giacca.

Si illuminava di sorrisi, godeva ogni attimo, i passi felpati sul tappeto di muschio lo facevano volare, ascoltava il frusciare delle foglie secche, il canneto che sventolava.

Il capanno dei cacciatori era sempre più rovinato, si erano fatti vecchi  quelli e avevano poche energie, ma  a caccia ci andavano ancora.

Si metteva seduto appoggiato al tronco, spiava  i segni della natura, le foglie che si sbriciolavano fra l’erba i primi fiori coraggiosi.

Che emozione la prima violetta, i boccioli di zampe di gallo.

L’aria lo incantava, chiudeva gli occhi e si immergeva in quelle emozioni.

Ricordava le corse dopo la scuola, la nonna che cantava quando cercava erbe e chiocciole, il rumore del pennato del nonno che faceva fascine.

Stava bene, si riconciliava col mondo, rientrava energico e sorridente, portava in tasca i suoi tesori.

L’albero grande

L’albero grande – di Chiara Bonechi

Chi sa da quanto era lì!

Ricordava di averlo ammirato da quando, giovane sposa, era andata ad abitare in quella casa fuori dal paese, verso la campagna.

Si stagliava nel cielo superando in altezza ogni elemento intorno: campi incolti, vigneti e colline.

Al mattino, spingendo la persiana per far entrare le prime luci del giorno, l’albero grande era la prima immagine che i suoi occhi percepivano. Non si era mai chiesta cosa fosse, per lei era soltanto l’albero grande che annunciava, prima di percepirlo sulla pelle, il cambio delle stagioni.

Si spogliava in inverno e sui rami si potevano scorgere intrecci più fitti: un nido, a volte due.

E quando a primavera si ricopriva di foglie, si trovava incantata ad osservare il via vai ritmato dei diversi abitanti dell’aria che fra quei rami trovavano riparo.

“Un airone! Ed eccone un altro!”

“E quelli piccoli, saranno tutti passerotti?”

La finestra della cucina e anche il terrazzo erano ottimi punti di osservazione, spesso prendeva il binocolo, metteva a fuoco e penetrava in quel segreto mistero della natura.

L’albero spoglio

L’albero e il canneto – di Anna Meli

            Quell’anno l’estate era stata veramente torrida, tutti eravamo stanchi di quel clima afoso e aspettavamo ardentemente l’arrivo dell’autunno.

            Anche la campagna ne aveva risentito e aveva assunto dei colori bruciaticci; gli alberi in particolare stavano già perdendo le foglie aride e accartocciate. Giunsero finalmente le prime piogge a rinfrescare la terra e ogni cosa sembrò brillare in modo particolare come se un filo di tristezza si fosse posato su ogni luogo.

            Là, in fondo, fra il bosco e i campi, c’era un albero spoglio e ingiallito con accanto un canneto che, non essendo più stato tagliato, cresceva in modo anomalo a ciuffi disordinati e per metà secchi.

            Quella scena mi riportava indietro nel tempo e in altre stagioni della vita. Sentivo quel luogo e in particolare quell’albero come un amico immobile e fedele. Da piccola, con altri ragazzi, ci ritrovavamo là alla sua ombra a far merenda, ognuno col proprio panino e la bottiglietta dell’acqua e non mancavano giochi inventati, bonarie canzonature, storie di paura che i più grandi raccontavano per sentirsi importanti e assumere atteggiamenti protettivi verso i più piccoli spaventati e timorosi.

            Col passare del tempo nacquero storielle fatte di tenerezza e bacetti innocenti e l’albero sempre là fu punto di riferimento di incontri. Mi sembra di sentire l’eco di voci lontane: “Ci ritroviamo domani, stessa ora, ciaoooo!”

            Poco tempo fa mi è venuta voglia di ritornare all’albero con i miei nipotini e l’ho ritrovato più alto, più vecchio, come me, ma con rami allargati come se volesse abbracciare qualcosa o qualcuno. Un nido ormai vuoto si dondolava lassù in attesa della primavera l’albero amico di sempre e di tutti lo avrebbe protetto a lungo.

Appoggiarsi all’albero

Faticosa solitudine – di M.Laura Tripodi

La strada scelta era fra le più faticose, ma dicevano che sarebbe stata anche la più breve.

Invece la boscaglia ci aveva inghiottiti in sentieri che non si riconoscevano. Forse una volta erano stati dei tratturi, ma gli animali non c’erano più da tanto tempo e la vegetazione si era allargata in  maniera selvaggia, forse obbedendo a un  proprio disegno.

La giornata era nebbiosa e si sentiva l’umido che entrava nelle ossa. L’orientamento era andato, ma oltre gli sterpi si intravedeva una distesa azzurrina e immobile che poteva essere cielo o mare, o entrambi in un abbraccio confuso.

Si percepiva anche un profumo sconosciuto. Come lupi che fiutano l’aria cercavamo di riconoscere un aroma,  ma anche gli odori sembravano abbracciarsi e confondersi. Forse stavano imitando il cielo e il mare.

Affaticati e anche un po’ preoccupati ci fermammo per fare il punto della situazione. Era tanto tempo fa e l’unico strumento a nostra disposizione era un sole pallido e malaticcio che stava tramontando.

A ovest, dovevamo andare a ovest seguendo il cammino del sole.

Il gruppo si era riappropriato degli zaini, qualcuno si scuoteva la terra di dosso.

Appoggiata a quel solitario albero stecchito avrei voluto rimanere lì, anche io unica superstite in un deserto di sterpi, natura addormentata, fatica e solitudine. 

I resti dell’albero

Quel  che resta dell’anima – di Vanna Bigazzi

In un cielo madreperla

s’imprimono i resti dell’animo mio,

niente rimane di verde,

nessun movimento di foglia.

Da un arido letto di spine

uno scheletro a rami si erge,

severo, impone la sua maestà.

Pare che dica:

“Guardate, questo è rimasto…”

In tale deserto intristito,

canne gialle e spaurite

emettono uno sterile canto.

Albero secco

L’albero secco – di Stefania Bonanni

Non l’ho vista, la foto. Ma mi sono accorto che l’hanno scattata: io che svetto altissimo,  secco e solitario, alle spalle di un gruppo di canne fruscianti, sibilanti, sfrigolanti quando il vento le costringe a strusciarsi le une con le altre.

Era inverno, come adesso, io non cambio mai  in inverno. Sarei stato meno solo, fossi stato una canna. Sarei nato verde, con le radici nell’acqua fresca del fosso, radici vicine al tronco. Mi hanno raccontato che il fresco bevuto dalle radici arriva subito fino alle foglie in testa alla canna, fino al pennacchio, quando c’è. Invece le mie, di radici, affondano per metri e metri, in giù,  poi si ingobbiscono e qualche ramo risale, ma sempre lontano dal mio cuore, come fossero un’altra creatura. Non le sento. Lo so, mi alimentano,  Ma non mi parlano, non guardano fin quassù.

Le canne parlano in continuazione. Fruscianti, ridono, il suono non è  molesto, ma mi accende d’invidia. Soffro la solitudine.  Guardatevi intorno: per centinaia di metri, fin dove si vede, sono io l’essere più alto. Nessuno mi guarda negli occhi. Chi guarda in su, tutt’al più vede sotto la mia chioma, e non distingue granché : se c’è il sole resta abbagliato, se ho le foglie vede solo loro, se mi guarda perché seguiva il volo di un uccello che mi si è  posato addosso, non guarda me.

Ho occhi nascosti, mani nodose ricoperte di foglie, semi, fiori, ma solo alle estremita’, specchietti per le allodole, apparenza.

Ho cuore di legno, nascosto bene, corro il rischio mi venga beccato.

Ho pensieri di legno, concentrici. Nascono, crescono, girano su sé stessi , ma restano dentro.Sono quei cerchi  che quando morirò  conteranno. Diranno misurino l’età. Non è  vero. Sono pensieri, nati e morti in me. Pensieri di me, non ho conosciuto altro mondo.

Albero di ciliegio

Un ciliegio, un amore – di Roberta Morandi


Quando una foto ti porta lontano, un ciliegio in fiore ti offre i suoi frutti futuri.
Furono dei lunghi sguardi, intensi, forse inizialmente non complici. Sicuramente assertivi, poi, dopo, molto dopo arrivò la chimica, ma quasi mai le parole.
In fondo a che servono le parole se tutto è  già stato detto  dagli occhi, da quella luce che arriva fino al cuore, che dà spazio alla chimica da cui non puoi sottrarti.
Vorrei ma non posso, ma si che posso, no, non posso, non devo.
E perché mai non devo?
Figli dei tempi dove tutto si manifesta nel turbinio dell’evoluzione dei pensieri contrapposti alle  consuetudini dei padri che ora non contano più nulla, o forse ancora hanno un peso.
Coscienza, autocoscienza, sorellanza, indipendenza, ubbidienza, uniformarsi, ribellarsi. A chi, a cosa?
Facile quando si dice, quando è la bocca a parlare, belle frasi fra compagne, amiche, sorelle.
Agire è altro, senti il divario, la dicotomia che si configura nel mettere in atto un pensiero emergente ma non del tutto assimilato, compreso, condiviso.
Ecco condiviso.           
Chimica che scorre, ci raggiunge, ci travolge  e ci sorprende.
A pelle.
Il turbine dei sensi spinti da una forza incontrollabile.
Estasi irripetibile, terrena, le cui catene  avvinghiano  l’essere alla prigione dei corpi materiali.
Quanto tempo?
Infinito.
Un battito di  ciglia.
Le parole hanno un senso di verità, di complicità.
Si confondono e si frammentano nei giorni, negli anni. 
Le dita si intrecciano, gli sguardi s’incrociano più complici, le mani carezzano anfratti conosciuti, già esplorati eppur nuovi.
C’è  ancora del nuovo nella conoscenza, le parole si sommano alle conferme e tutto si fonde nella quotidianità. 

Albero scheletro

BRACCIA CHE CHIEDONO AIUTO – di Sandra Conticini

Questi rami spogli e piccoli sembrano le braccia scarne e magre di persone che non hanno da mangiare. Le alzano verso il cielo nella speranza che qualcuno si ricordi di loro e riescano a vivere ancora a lungo, insieme alle persone care e soprattutto  sperano che i loro figli riescano ad avere un mondo migliore e una vita più semplice.

La quercia grande

Muschio – di Patrizia Fusi

La mattina era serena, l’aria fresca, i primi raggi di sole un po’ ci riscaldavano, l’odore di erba umida mi entrava nelle narici. Vicino alle case coloniche l’odore della legna bruciata mi faceva venire alla mente focolari con fiamme guizzanti e il tepore che producevano.

Avevo le mani fredde ma ero felice di fare quella spedizione con mio fratello, il babbo e Lampo, il suo cane da caccia.

Arrivati a destinazione il paesaggio si modifica, si mischia fra bosco e campagna.

Tratti di quercioli spogli, rovi, erba secca sono sotto gli alberi, macchia di verde del pungitopo, Lampo gira festoso tutto intorno, ha il naso rivolto in terra fiuta odori di altri animali passati di li, quando si allontana troppo il fischio del babbo lo fa tornare subito ubbidiente.

Il mio paniere e quello di mio fratello sono semi vuoti abbiamo trovato pochissimo muschio, il bosco è troppo secco.

Inoltrandoci più in fondo ci troviamo davanti a un grande quercia, che è accerchiata da rovi, erba, ciuffi di canne secche, tutto dorme, il sole filtra tra i rami e forma spicchi di luce sul terreno dove cadono, uno di questi batte sopra ad un piccolo prato di muschio alle radici della grande quercia, i nostri panieri in pochi minuti si riempiono.

Nel ritorno ci fermiamo alla casa del contadino amico del babbo, deve fissare con Gino dove trovarsi per andare a caccia alla lepre, vanno di notte ora che la luna è piena.

 Entriamo nella grande cucina, nel focolare un cumolo di tizzoni con una piccola fiammella tiene tiepido l’ambiente, il tepore ci riscalda. L’Assuntina offre a noi ragazzi dei tozzetti con le mandorle, al babbo e a Gino anche del vinsanto, Lampo si è accucciato tranquillo sotto la tavola.

Arrivati a casa iniziamo a distendere il muschio per il nostro primo presepe, discutiamo un po’ con mio fratello per come disporre i personaggi, se mettere o no la neve, cotone idrofilo o farina?  Troviamo un accordo, alla fine il risultato non è granché anche perché i personaggi sono di cartone piuttosto bruttini.

 Però siamo stati con il babbo, per tutta quella mattina.

Il loro albero

Il loro albero – di Nadia Peruzzi

Era da sempre il loro albero.  Piaceva a tutti e due quell’intrico di rami e arbusti che cambiavano colori e profumi al mutare delle stagioni. 

Era il luogo dei giochi e dei segreti.  Quello nel quale potevano essere come erano nella realtà.  Senza doversi nascondere alle occhiatacce altrui, alle espressioni ammiccanti, a quelle cattive che spesso li accompagnavano quando se ne stavano insieme in una complicità e in una sintonia come ce n’erano poche. 

Gli stessi gusti, gli stessi libri, gli stessi film lo stesso sguardo disincantato sul mondo e sulla vita e la curiosità che li muoveva a sperimentare e a lanciarsi in avventure sempre nuove. 

Era arrivato per loro il tempo della pittura a portarli nuovamente su quel sentiero.  Era una giornata grigia e fredda come il loro umore. 

Tuttavia avevano osato lo stesso dirigersi verso l’albero immenso e spoglio e l’intrico di sterpi che sembrava aver perso tutta la vita delle stagioni migliori. 

Nemmeno una gemma ad impreziosire i rami.  Era il punto dell’anno in cui la morte sembra avere il sopravvento e la natura non sa darsi ancora modo di aprire la strada ad una nuova storia. 

Si piazzarono davanti ai rami sparuti tentando di trarne una immagine che avesse un che di rassicurante e confortante. 

L’intrico che li circondava faceva tutt’uno con quello delle loro coscienze e dei loro sentimenti. 

Non era un momento di gioia per nessuno dei due.   Francesco sarebbe partito di li a poco.  Aveva trovato lavoro all’altro capo del mondo.   

In quel luogo spoglio di vita avevano ritrovato il clima giusto per celebrare un addio. 

Dipinsero fino a che la luce resse. 

Poi se ne tornarono mestamente a casa , con il dipinto sottobraccio.  Nessuno dei due ebbe voglia di mostrarlo all’altro.   Nessuno dei due aveva mai compreso bene il perché di quella scelta. 

Solo a distanza di anni un amico andando a far visita a Francesco trovò la chiave per una possibile spiegazione.  Il quadro di Francesco, nonostante tutto, risplendeva di colori, di atmosfere positive.   Erano colpi di pennello forti, netti, quasi a volersi liberare dai lacci che lo legavano ad un presente che gli stava andando sempre più stretto. 

Quello che era appeso nella casa di Giulio era spento, vuoto, grigio.   Trasudava solitudine e incapacità di pensare e immaginare il futuro. 

Albero triste

ALBERO di prugne triste e solitario – di Mimma Caravaggi

Mi hanno dimenticato ! Sono qui solitario come non mai, attorniato da erbacce secche e invadenti senza neppure un piccolo fiore a rallegrarmi. Ho appena iniziato a muovermi e a mettere fuori le piccole cime di gemme, chissà cosa avverrà se riuscirò ancora a produrre frutta.   Il momento più bello è quello della fioritura e poi la crescita della frutta molto più saporita di quella di qualsiasi mercato che ormai non sa più di nulla, senza sapore. La mia frutta è zuccherina, polposa, invitante, fa venire l’acquolina in bocca al solo vederla. Ero circondato da tanti amici, tutti alberi da frutta : meli, peri, susini, ciliegie, albicocche e dalla primavera all’estate era una gioia per noi e tutte le persone che stavano sotto di noi cogliere la nostra frutta e mangiarla avidamente con canti animati e grida di gioia dei bambini che volevano arrampicarsi sopra di noi. Che bei ricordi! E si, solo ricordi perché il tempo e con l’inquinamento tutto si è pian piano deteriorato. La terra non da più il giusto nutrimento mancando i bachini che provvedevano a tenere areato il terreno, la pioggia si è fatta acida così tutti i miei compagni pian piano, sono stati abbattuti e sono rimasto solo io ma per poco perché inizio a sentire la mancanza di acqua buona, rospetti e bachini che sono migrati chissà dove e qui non è rimasta altro che erbaccia che non muore mai ma che ora mi sta soffocando. Peccato le mie prugne erano squisite e ora hanno anche loro perso il buon sapore. Cosa mai ci faccio più qui solo che neppure un cane viene a fare pipì ? Che brutto il mondo senza prugne buone e succose!

L’albero nel parco

L’albero – di Cecilia Trinci

L’inverno aveva saltato il turno quell’anno. Forse perché voleva aggiungere altra inquietudine a quella che già serpeggiava. L’albero aveva comunque perso le foglie. Lentamente, sottovoce, soprattutto durante le piogge che avevano massacrato la fine dell’autunno. Nessuna esplosione di colori quell’anno, nessun cielo terso in trasparenza, poche mattine di leggera brinata ed eccolo lì il noce maestoso, contorto da mille piegature di rami, eppure alto, glorioso, allungato verso un cielo bigio e soffuso da una  promessa di sole. Gli altri inverni invece c’erano stati. Difficili, pieni di vento e buriane, gelati e bui fino alle Pasque primaticce. Avevano coperto di legno i gomiti duri, addolcito gli spigoli delle ramificazioni. Erano le deviazioni, le crescite, i cambi di programma, le strategie e le perdite che gli avevano dato quella forma, tutto sommato, a vedersi così,  aggraziata e tondeggiante come fosse stato in un giardino.

Era in un parco pubblico invece e non gli dispiaceva non appartenere a nessuno in particolare e sentirsi di tutti in generale. Le noci se le erano mangiate: i passanti con i sacchetti, gli scoiattoli con le code al vento. Non credeva ne fosse rimasta qualcuna per la discendenza. Invece sentiva che i rami dovevano nascondere diversi nidi, o almeno approdi comodi per tutti quegli uccelli che si fermavano a tratti. Erano tutti quei canti che nella foto non erano compresi ma che invece davano vita a quel quadro potente. Dal vivo, i rami vibravano non solo per la  brezza ma anche per i voli, per quel posarsi frettoloso in punta in punta, per quel dondolare squilibrato ora a destra ora a sinistra per guardare un obiettivo, per scoprire una preda.

Si sentiva una spalla. Le spalle servono per abbracciarsi, per appoggiarsi. Per trasportare.  Per pensare. Era così che si sentiva e quel salire su sempre più su ogni anno, sempre più vicino al cielo lo rendeva orgoglioso.

Tra poco ci sarebbero state gemme e poi fiori e foglie. E alla fine frutti grossi e verdi.

Forse l’estate sarebbe stata dura. Ormai lo era sempre da anni. Molto più cattiva di quegli inverni che non venivano più. Avrebbe avuto sete e caldo e avrebbe implorato la notte rossastra sempre troppo corta. Avrebbe dormito solo un po’ sul far della mattina con i primi chiarori. Avrebbe visto albe sempre più arancio e viola e fumi della terra in controluce. Silenzi di uccelli stremati.

Il silenzio soprattutto era cresciuto negli ultimi anni. Lo stupore della terra spaventata, la sonnolenza della gente nascosta. Solo cani abbaiavano in lontananza e non volevano aggiornarsi nelle aspettative.

Eppure l’albero aspettava, le canne gli facevano il solletico, i rovi alle spalle lo proteggevano dal grecale e  da lassù guardava in lontananza. Forse vedeva il mare…….

Albero d’inverno

Il vecchio olmo – di Carmela De Pilla

Fili che si intrecciano, si incontrano per dare vita a ricami preziosi, unici e sullo sfondo un cielo a volte limpido e trasparente a volte annuvolato e turbolento proprio come la mia anima.

È sempre stato lì il vecchio olmo, oltre la siepe, imponente e vigoroso, generoso nel donare la sua ombra in quelle giornate afose e soffocanti, ancora oggi osserva e protegge la vita di ognuno di noi come un vecchio padre.

Ne sa qualcosa Piero che si ripara dal caldo violento ai suoi piedi e lui accoglie le sue fatiche, lo rassicura e gli dà nuova forza.

L’ho sempre visto lì il vecchio Piero, curvo sulle spalle, il volto scavato dalle rughe, ma ancora forte e robusto, generoso nel regalare un sorriso a tutti.

Non apparteneva a nessuno il vecchio olmo, era nato e cresciuto in un campo ormai abbandonato, la sua corteccia rugosa scavata da profondi solchi era la testimonianza della sua lunga vita.

A mezzogiorno in punto, dopo ore di lavoro nei campi, come un rituale che si ripeteva da anni si ritrovavano uno accanto all’altro come due vecchi amici,  Piero tirava fuori dalla sacca il suo panino e la borraccia con del buon vino e si godeva quell’attimo di riposo all’ombra della grande chioma.

Flash in una foto

Flash – di Gabriella Crisafulli

Era l’ultimo anno dell’Istituto Magistrale.

All’improvviso si ritrova libera: sua sorella rimaneva a casa.

Lei camminava con Maura e Rosanna lungo il corso.

Portava al guinzaglio un cencio.

Gli parlavano.

Le loro voci si alternavano.

“Vieni Fufi, vieni con noi a passeggio”

“Dai, da bravo, non ti fermare ad ogni albero”

“Che bellino che sei con il tuo cappottino nuovo: ti piace vero?”

“Sii educato: non abbaiare ogni volta che vedi un altro collare!”

Tutte e tre ridevano come matte, piegate in due dal divertimento.

Non è cosa di tutti i giorni parlare ad uno straccio trascinato per terra.

Non è cosa da poco vedere gli sguardi e sentire i commenti delle persone che incrociavano per strada.

La gioia di fare una cosa assolutamente idiota è potente.

Per una volta era uscita dal vaso.

Non era una pianta messa lì in bella mostra nel salotto per essere ammirata come perfetta incarnazione dell’efficacia di un moderno modello educativo, applicato rigorosamente.

È vero, c’era una seconda figlia ma su di lei si glissava.

Era sulla prima che si accentravano i riflettori: niente trucco, niente gonne corte, parlantina sciolta, sorriso smagliante, nessun amico ed un fidanzato lontano che legittimava la proibizione di qualunque svago.

Ma non quel giorno.

Quel giorno aveva la sua età.

Per una volta non era una pianta.

Per una volta non si trovava tra le mummie del Club prestigioso al seguito dei genitori, dove subiva la corte di uomini molto più anziani di lei.

Per una volta non era la custode di sua sorella.

Per una volta non le toccava il ruolo della bella figlia del Comandante circondata dai sottoposti di suo padre.

Era una scema tra le sceme e con le sue compagne di classe si divertiva da matti.

La foto era lì nella stanza a certificare una storia iniziata e mai tessuta.

Aveva un gran mal di testa.

Sentiva solo il bisogno di un paio di bicchieri di vino.