Intrecci

Sassolini nella testa…. – di Sandra Conticini

Dalla prima volta che l’aveva vista passeggiare a Cordova lungo il mercato colmo di merci e gente frettolosa, non l’aveva più scordata, lei, che sembrava l’unica a fermarsi, calma e tranquilla ad osservare tutto, in particolare quel coso strano. A lui sembrava solo un pezzo di corteccia di sughero che era stato tagliato da un albero. Lei invece lo carezzava, lo baciava, lo odorava e rideva, rideva, rideva. Così si incantò a guardarla e si lasciò attrarre da quella calamita, che erano quegli occhi nocciola così vivi e pieni di scintille.

Disse allora che il sughero per lei era importante, le ricordava il babbo che aveva visto poco, e quando trovava pezzi di sughero più grandi se li coccolava e le sembrava di essere con lui a tagliare gli alberi per guadagnarsi il pane.

In quella vacanza nacque un’amicizia importante.Quando lui partì le promesse si buttarono via ma poi lei sparì nel nulla. Quell’anno si fece forte e decise di tornare a cercarla in quel mercato dove si erano conosciuti.

Era sicuro fosse lì, non sapeva come, ma percepiva la sua presenza. All’improvviso sentì  sullo sterrato che riecheggiavano passi, come se milioni di sassolini avessero cadenzato il ritmo di una clessidra.

La vide, le sembrò più bella di quando l’aveva lasciata, con quel vestito di trina rosso, attillato, con uno scollo profondo e quella rosa rossa tra i capelli neri quasi blu.

La chiamò più di una volta, ma lei non lo riconobbe. O fece finta di non riconoscerlo?  Non era possibile che si fosse scordata di lui…

Sentì un movimento quasi impercettibile alle sue spalle e nell’ oscurità vide un bambino che le correva dietro piangendo….avrà avuto quattro o cinque anni. I lineamenti non assomigliavano a quelli della mamma, non sembrava di origine spagnola..

In testa gli iniziarono a frullare strani pensieri ai quali non riuscì  dare una spiegazione. Avrebbe voluto chiarirsi le idee, domandare, parlare con lei, ma  non riuscì a vederla nei giorni che rimase a Cordova. Così tornò  a casa con più pensieri di quando era partito. 

Intrecci

Ballando in rosso – di Carla Faggi

Manuel uscì di casa quasi correndo, aveva fretta di arrivare.

Lo attendeva una serata tra amici, a casa di Juanito.

Avrebbero festeggiato il ritorno di Carmen dall’Andalusia.

Gli era sempre piaciuta Carmen, una donna di carattere, corpo asciutto ma generoso dove occorreva, occhi neri penetranti, una femmina da perderci la testa e Manuel l’aveva persa.

Era convinto che pure Carmen provasse per lui interesse, sentiva che tra loro c’era un filo che li teneva attratti, una tensione amorosa che li univa.

Carmen aveva promesso che al suo ritorno li avrebbe deliziati di una sua performance di flamenco assieme ad una amica andalusa.

Meno male, pensò Manuel, fosse stato un amico mi sarei preoccupato!

Arrivato davanti all’abitazione di Juanito, si soffermò incantato ad osservarla quella splendida casa sulla collina, sullo sfondo i Pirenei, di lato un piccolo lago.

Gli era sempre piaciuta fin da piccolo, quando assieme a Juanito e Carmen giocavano alla corrida, lui faceva sempre il matador, il toro lo facevano a turno gli altri. Carmen piangeva sempre quando toccava a lei.

Che tenerezza, non vedeva l’ora di incontrarla!

La casa è piena di amici, la festa è iniziata, Carmen danza, la sua amica fa il ballerino.

Il ritmo incalza e la danza e il pizzo rosso della mantilla sui capelli corvini e si beve e si canta e ancora il ritmo e le gambe di Carmen e la gonna che ondeggia e il seno di lei che balla con la musica e eccola è vicina. Si , ora le dico che l’amo.

La musica finisce. Manuel si avvicina entusiasta. Carmen sorridendo si avvicina: “ciao Manuelito, ti presento Lucilla, la mia compagna. Ci siamo conosciute in Andalusia, ci siamo innamorate e oggi voglio gridarlo al mondo! Voglio essere libera, voglio vivere la mia diversità!

Manuel ascolta, annuisce e i suoi pensieri diventano lenti, molto lenti, non fanno rumore, solo a tratti quando diventano determinanti e brevi sembra che sfondino le orecchie. Ma è solo un attimo, poi di nuovo il silenzio, lento.

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Trucioli – di Rossella Gallori

Sentì un movimento quasi impercettibile alle sue spalle,di lei non vi era traccia, era, però  sicuro, che fosse lì, non sapeva come, ma percepiva la sua presenza; addirittura sentiva il rumore del suo vestito, quel tulle rosso fuoco, che ad ogni passo emetteva un piccolo sibilo, impossibile ignorarlo, dimenticarlo.

Sullo sterrato riecheggiavano i passi, come se milioni di sassolini avessero cadenzato il ritmo di una clessidra, rumore anche di sabbia, forse.

Non fa male la solitudine, volle pensare, eppure la mattina guardandosi allo specchio, si era visto come  un pezzo di sughero segnato dal tempo, rugoso e cupo, ecco cosa era diventato, per lei, con lei…sempre e solo l e i…non conosceva altro modo di stare al mondo…..Eppure finì, o iniziò tutto nel momento in cui la vide, aveva bisogno di un corpo privo d’anima, notò solo la trasparenza intrigante del tessuto, i suoi seni, i suoi fianchi quasi nudi, stupenda, anche se sembrava sporca, sudata  ed affaccendata in altri pensieri.

Si consumava in lui la lotta tra la razionalitá e l’ istinto, voleva agire abbandonando la strana concretezza dell’ immaginazione.

Doveva e voleva lasciarsi attrarre, da lei, lui così rigido e freddo, da quella calamita dagli occhi color nocciola, che, come cioccolato caldo e speziato, avevano sprigionato: scintille, gioia, risate…il tutto lo aveva catturato, annientato, i sensi lo avevano allagato come un fiume in piena.

Non riusciva a levarsela dalla testa, dalla prima volta che l’ aveva vista, non c’era giorno che non pensasse a lei, non c’era notte che non la cercasse, quando poi il suo soffrire trovava un varco,  ricordava Agata come qualcosa che forse aveva solo immaginato, annusato nell’ aria dei suoi anni…il suo incedere lento e sensuale, il sua passeggiare lungo il mercato colmo di merce, dove la merce più preziosa era lei,  tra gente frettolosa era l’unica a fermarsi, come una pantera color lacca, osservava e sfiorava ogni oggetto, proiettando ombre più lunghe ed occupando spazzi  che non c’erano.

Il vecchio di sughero stanco e rugoso, senti il suo cuore battere più forte… come uno orologio che segna un tempo che non ha, anche il cupo salottino ascoltava quel tonfo leggero.

Ormai era un pensiero che non lo faceva dormire, ne di notte né di giorno, un’ ansia che non riusciva a risolvere, non esisteva farmaco per lenire il suo dolore, per risolvere il suo dolore.

Una lama luccicò nel buio, interrompendo quel silenzio ritmato, tagliando in mille pezzi i ricordi, mille pezzi di tulle volarono volarono come petali, petali rosso sangue  che non toccarono terra…e fu notte per sempre.

Nota del commissario: la scena si presenta macabra ma piena di colore, il corpo è ridotto ad un cumulo di trucioli….3 dicembre 2019 Antella…..

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Bellissima – di Chiara Bonechi

Lei era bellissima e un po’ fuori dal tempo, camminava per le strade del paese avvolta in uno scialle di pizzo rosso incurante degli sguardi dei passanti.

Quel pizzo che le copriva in parte i capelli le scivolava lungo il volto, di lato, fino a coprirle il mento; lo teneva appena appoggiato e le conferiva un aspetto davvero regale.

Era molto giovane, poteva avere forse trent’anni e lui, col viso scavato da rughe fitte e sottili di chi di vita ne ha vissuta tanta, la osservava.

Sapeva tutto di lei da suo marito.

C’era qualcosa che l’attraeva, era un lungo filo di seta che li teneva uniti ma distanti.

Dove lo avrebbe portato quel filo che lo attraeva e che sentiva in tensione verso quella donna appena intravista fra lo scialle di pizzo rosso?

Che strana la vita!

Lei abitava nella casa in collina. Gli era sempre piaciuta quella casa un po’ nascosta fra i faggi.

Si scopriva spesso incantato a guardarla dalla finestra del suo salotto soprattutto la sera.

Poi un giorno seppe che in quella casa abitava lei.

E allora il desiderio si fece più intenso, un richiamo quasi assordante lo portava a ritornare alla finestra del suo salotto, sempre più spesso e non più solo la sera.

Non sapeva spiegarsi perché, la donna era bella ma era di un altro ed era tanto, troppo giovane.

Non l’avrebbe mai avuta e neppure forse mai avvicinata ma era semplicemente scontato che a quella finestra ci dovesse andare.

I pensieri sono lenti, molto lenti, non fanno rumore, solo a tratti quando diventano determinati e brevi sembrano che sfondino le orecchie.

Quella donna avvolta nel manto di pizzo rosso, eterea, irraggiungibile, lo stava ossessionando.

Ma fu solo un attimo poi di nuovo il silenzio, lento.

Un sospiro profondo lo risvegliò: “devo uscire” si disse.

Non poteva immaginare!

Procedendo a testa bassa sul marciapiede che costeggia il fiume sentì “buongiorno!”

E alzando gli occhi fu avvolto da una nuvola di tulle rosso.

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Velluto e macramè – di M.Laura Tripodi

Di lei non v’era traccia, ma era sicuro che fosse lì. Non sapeva come, ma percepiva la sua presenza.

Sentì un movimento quasi impercettibile alle sue spalle. Con il battito del cuore accelerato si voltò di scatto, certo che l’avrebbe vista, ma lei non c’era. Solo, la chioma dell’albero si era appena mossa e le foglie avevano intonato una canzone.

Sentì prepotente il bisogno di accostarsi a quel tronco rugoso, di toccarlo, di farsi raccontare  le storie di tutte le mani che l’avevano sfiorato, di tutto quel tempo che aveva vissuto, di tutte le cose che aveva visto.

Desiderò fortemente entrare in lui, assorbirne la linfa e godere della sua maestosa immobilità.

Chiuse gli occhi e le sue braccia diventarono rami e le sue gambe radici.

Sullo sterrato riecheggiarono passi, come se milioni di sassolini avessero cadenzato il ritmo di una clessidra.

Ma non tenne conto di quella presenza.

Nel suo cuore si era timidamente affacciato il ricordo di un corpetto di macramè sopra una lunga gonna di velluto bianco. Era un pensiero latente che si insinuava nelle sue notti e lo teneva in uno stato di costante dormiveglia.

Non riusciva a levarsela dalla testa.

L’immagine fluttuava dalla prima volta che l’aveva vista passeggiare lungo il mercato a quel giorno che, nascosto dietro una colonna, l’aveva salutata silenziosamente mentre appariva sul sagrato della chiesa con il suo bel vestito bianco di velluto e macramè.

Non riusciva a liberarsi dell’attrazione che quegli occhi nocciola riuscivano ancora ad avere su di lui.

Non fa male la solitudine se non si conosce altro modo di stare al mondo. Ma lui aveva conosciuto la felicità e l’aveva persa.

In mille modi aveva provato a distruggere l’immagine di lei. Se l’era imposta brutta, sudicia e con addosso l’odore sgradevole del sudore. Ma poi, lei tornava in tutto il suo splendore, riempiendogli la testa e svuotandogli il cuore.

In lui si stava consumando la lotta fra la razionalità e l’istinto.

I rami tornarono braccia e le radici si rifecero gambe.

Sullo sterrato riecheggiarono i suoi passi che tornavano verso casa. 

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Incontro – di Stefania Bonanni

Di certo nessuno me lo chiederà mai, ma se dovessi parlare di me, mi paragonerei ad una scorza di albero. Rugosa, spaccata, piena di ferite, ma leggera. All’apparenza, quasi un libro con le pagine un po’ aperte. Ma poco scostate, non si legge neanche una parola, da fuori.  Sono un uomo di cui si sa poco, solo perché  a nessuno è mai interessato davvero chiedere . Così,  sono stato solo, tutta la vita. Solo, a guardare un mondo fatto di gente che non sa stare da sola.

Ma non fa male, la solitudine, se non si conosce un altro modo di stare al mondo.

 Eppure tutto finì,  nel momento esatto in cui la vidi. Non riuscii più  a levarmela dalla testa. Dopo che l’avevo vista passare lungo il mercato colmo di merci e gente frettolosa. Lei, l’unica a fermarsi calma e tranquilla ad osservare oggetti, sorridente e s volazzante. Questo fu l’inizio.  Un pensiero indipendente, autonomo, che mi si affacciava nella mente all’improvviso, e mi costringeva a cercarla, ad uscire sperando di incontrarla. Da lì a cominciare a seguirla, il passo fu breve. Indovinai dove abitava, spiai le sue finestre. Vidi l’intimità dei  suoi gesti domestici.  Affaccendata, sporca, sudata, viva, indimenticabile.  Era una calamità. Erano quegli occhi nocciola, così vivaci e pieni di scintille, di gioia e di risate. Erano quelli che mi avevano catturato in un attimo. In me c’era una lotta continua tra razionalità ed istinto. Fra la voglia di abbandonarsi all’immaginazione, e provare la concretezza di agire.

Sentivo la sua presenza, non so come fosse possibile, anche quando di lei non c’era traccia. Presi a consumare il mio tempo davanti a casa sua, nascosto. Sobbalzando ogni volta che sullo sterrato riecheggiavano passi, come se milioni di sassolini avessero cadenzato il ritmo di una clessidra.

Sentivo che il tempo stava per finire.

Riconobbi subito il giorno fatale. Sentii un movimento impercettibile alle mie spalle. Un’ombra cauta che attraversò la strada di corsa e si infilò nel portone della casa di lei. Vidi aprirsi le imposte della sua camera.  Vidi lei. Un attimo. Non la scorderò. Indossava una sottoveste rossa, di pizzo. Intravedo il rosa della sua carne affacciarsi dai ricami. Vidi anche materializzarsi l’ombra alle sue spalle, lei che si girava e gli buttava le braccia al collo. Poi, come un lampo, uno schizzo di sangue si allargò  sul davanzale, e l’ombra fuggì,  con ancora in mano il coltello.

La ripeto da tanti anni, questa storia, ma tutti i testimoni hanno ricordato di avermi visto dietro di lei, al mercato, e per tanti, tanti giorni, a spiare le sue finestre.