Ti racconto una storia – Il segreto

Il segreto – di Luca Di Volo

In quella casa l’odore di fritto,  o d’arrosto,  o di bruciaticcio era costante. . , anzi ,  direi che ogni volta che andavo a trovare la cugina della mamma , a Stia, era proprio questa traccia a farmi correre infallibilmente verso quel piccolo edificio isolato in fondo alla lunga piazza Tanucci.

Strana coppia quella di questa cugina e di suo marito, lui insegnava disegno, cosa che non era quel gran successo che lui forse sognava. Piccolo, magro magro (direi anche in senso morale), si era arreso al mondo reale che , anzi, lo infastidiva facendolo reagire con stizza verso chiunque gli ponesse qualche questione. Peccato perché in fondo era un brav’uomo . . ,  non era colpa sua se di talenti dal buon Dio ne aveva ricevuti pochi.

Comunque, io volevo bene a tutti e due , prima di affacciarmi alla porta , mi piaceva girare un po’ attorno alla casa, osservare quel prato dove tante volte avevo giocato da bambino. . spesso anche la vista di una stanza in disordine e un suono di telefono evocavano una insperata eco di commovente familiarità rendendo vivo e palpitante un luogo che , ad una prima occhiata non sarebbe sembrato affatto bello.

Ma poi il desiderio di vedere la cugina (la chiamavo così, forse per me non era neppure una zia), si faceva prepotente e con allegria suonavo il campanello. Mi ricordo che , aprendo la porta, lei era sempre uguale, come uguale era la cucina in cui il nero del fumo faceva da pendant all’espressione stanca e rannuvolata di lei, nero su nero, si sarebbe detto, anche se qualche barbaglio sul volto , alla mia vista, si sarebbe risvegliato . Dopo avermi baciato e prima di lamentarsi della sua amara vita coniugale, si accinse subito a celebrare il nostro rito segreto: sapeva che andavo matto per le polpettine piccanti . Guarda caso queste stavano già friggendo insieme a cipolle dorate in mezzo all’olio che dolcemente e quasi in silenzio soffriggeva.

Ti racconto una storia – Parole da giovani, parole da vecchi

Parole da giovani, parole da vecchi – di Stefania Bonanni

Ci sono parole da giovani, e parole  da vecchi.

Ci sono case di giovani,  per giovani, e poi quelle stesse case che diventano roba da vecchi, piene di mobili ormai sciupati, e che non saranno mai antichi e di valore, ma solo vecchi, sbilenchi, tarlati, scoloriti.

Ci sono giardini dove c’erano fiori e siepi colorate, che circondavano case con le  finestre aperte  e l’odore di sugo che usciva a ventate, mentre qualcuno preparava il pranzo della  domenica. Poi ci sono gli stessi giardini che diventano pieni di foglie secche e di alberi stenti, cresciuti solo in altezza, senza che nessuno abbia  più accarezzato quei tronchi giocando a nascondino. Ci sono coppie di giovani davanti a chiese di campagna in un giorno d’estate, con la sposa che ha in mano i guanti di filo, e lo sposo con il doppiopetto grigio e la camelia bianca all’occhiello.

Poi ci sono lo stesso uomo rinsecchito ed ingobbito, che esce quasi solo per stare al sole, che gli fa bene alle ossa. E quella sposa antica che ai guanti di filo sostituì quelli di plastica, per pulire e pulire.  Faceva le faccende cantando, mentre raccoglieva palette,  palloni e biciclette abbandonati in giardino.

Poi, nessuno ricorda quando, non ha più  fatto il sugo. Mangiavano da soli,  l’omino raggrinzito e la donna annuvolata, sempre più severa, più zitta, più rugosa. Con le rughe tra le sopracciglia,  quelle che raccontano uno sguardo che non è mai aperto,  che forse non vede più  chiaro neanche nel suo giardino, E mangiano cose lesse adesso, dicono tutti che il soffritto fa male. (Che sia tutta colpa del sugo?)

Non pensa più nessuno a quelle polpette piccanti che cuoceva la mamma dell’omino, nel paiolo davanti alla parete annerita da anni di fuoco, e che non si è  mai saputo con cosa fossero fatte. Quelle però facevano bene, quando arrivavano in tavola cinque polpette in un mare di sugo, e la tavola era piena di fette di pane, ed i troppi commensali ridevano, e bevevano. Doveva anche essere freddo, la nonna portava addosso una specie di coperta a righe,  ma il freddo è roba da vecchi, solo ora l’omino sente freddo.

Ti racconto una storia – La signora annuvolata

La signora annuvolata   – di Vanna Bigazzi        

  ” Come ti stavo dicendo” continua Giuseppe parlando al suo amico, “osservo spesso quella signora della quale molti parlano. Ogni volta cerco in lei qualcosa di attraente. Tu lo sai, mi piace sognare le donne anche perché rinsecchito e ringobbito come sono, non ho mai avuto troppa fortuna in amore… Tuttavia, ogni volta, la mia fantasia rimane delusa a causa della sua espressione sempre annuvolata, severa, direi indisponente anche se lei non è male…” ” Ma sarà vero che litiga sempre con il marito?” aggiunge Carlo. ” Cosi’ dicono, certo che con una megera del genere, non deve esser facile andare d’accordo!” ” La sua domestica dice che è sempre ostile, risponde con rabbia ogni volta le si rivolga la parola, tanto è vero che la poveretta cerca di parlarle il meno possibile, perché ha paura. Risponde sempre alzando la voce, ti fulmina con quello sguardo irato e fisso come se volesse annientarti.” ” L’altro giorno ” riprende Carlo: ” preso dalla curiosità, ho fatto un giro intorno al suo giardino. Nessun segno di vita. Strano, ho pensato, in genere qualcuno viene sempre a bagnare le ortensie ma il terreno è molto secco… Neanche il cane, significa che se ne sono andati, però dalla finestra sul retro, ho intravisto disordine, la domestica non deve esserci stata. Il telefono continuava a suonare, mah…” ” Dobbiamo tenere la situazione sotto controllo ” aggiunge Giuseppe: ” E’ insolito che non ci siano, non si assentano spesso, forse non ricordo bene.” Nel frattempo Giuseppe era impegnato ai fornelli ed il profumo di soffritto aveva attanagliato lo stomaco di Carlo. ” Che ne dici di mangiare qualcosa insieme?” ” Molto volentieri grazie, cosa prepari di buono?” ” Polpette piccanti! ” ” Che bontà, accetto davvero volentieri.” Mentre Giuseppe controlla la cipolla al fuoco, che prenda il colore giusto, dorato e non si scurisca troppo, Carlo dà ancora un’occhiata con sospetto a quella casa disabitata che si trova proprio di fronte. I due consumano con gusto quel piatto saporito, dopo di che si salutano promettendosi che si sarebbero rivisti a breve per aggiornarsi sul controllo della casa. Alcune sere dopo, Giuseppe, prima di coricarsi, intravede dalla finestra sul retro  un piccolo bagliore. Preso dalla curiosità, si infila il giubbotto e esce per osservare più da vicino. Di fronte al focolare nero della stanza, schiarita dal bagliore di una piccola fiamma, intravede la sagoma di una donna che si scalda le mani, avvolta da una coperta ocra e rosa, ma è lei? Giuseppe non riesce a distinguere, guarda meglio avvicinandosi ancora, vicina la cassetta degli attrezzi aperta, dalla quale si intravede fuoriuscire     una forma simile a quella di un punteruolo lungo ed acuminato. Accanto, disteso a terra, un badile a punta pronunciata e a lati rialzati, con manico corto e di facile impugnatura. Il cuore di Giuseppe inizia a galoppare, senza capirne ancora il perché. ” Chi sarà mai quella figura nascosta dai bordi arricciati della coperta?” Ma all’improvviso quella strana sagoma si gira, a stento la riconosce, la signora. Lo guarda dal basso in alto con occhi felini, quasi incandescenti in quel buio diffuso, esprimono follia e malvagità. Fugge terrorizzato il povero Giuseppe, percorrendo il muretto che recinge il giardino, con un colpo d’occhio veloce intravede di sfuggita che le ortensie non sono più al loro posto; divelte, riposano di lato in attesa di essere nuovamente interrate. 

Ti racconto una storia – L’omino che si pestava i pantaloni

L’omino del bosco – di Sandra Conticini

Nel giardino meraviglioso della villa della Marchesa Pappafiele si sentivano, ogni tanto, degli strani rumori e non si riusciva a capire cosa fosse quel cigolio di rami che non faceva dormire né la servitù ne i nobili. Fatto è che tutte le mattine, quando la signora Marchesa si metteva sul terrazzo a fare colazione la sua espressione era sempre più annuvolata e arrabbiata, perchè dopo diverse notti passate a rigirarsi nel letto, la stanchezza  si faceva sentire. Se poi  si metteva anche  l’odore del soffritto di cipolla sbruciacchiata, che già di prima mattina si sentiva venire dalla cucina,  l’espressione della Marchesa diventava nerissima tendente al nubifragio.

Un giorno d’estate, mentre la signora stava facendo la sua dormitina pomeridiana, sentì un cigolio simile a quello notturno e, con un occhio aperto e l’altro chiuso  vide uscire dal tronco di un albero un omino piccolo piccolo che, mentre camminava, si pestava i pantaloni da quanto erano grandi. Tutto gobbo sembrava volesse scappare per non farsi vedere. Lei lo chiamava e lui diventava sempre più piccolo e impaurito. Non ce la faceva  ad andare nè avanti né indietro, sembrava incollato al terreno e tremava come una foglia. La Marchesa pensò che fosse un folletto del bosco, ma poi si vergognò di se stessa, sapeva molto bene che erano solo personaggi delle fiabe, ma lui ci assomigliava molto.

Cercò di chiamarlo più dolcemente possibile, così lui si avvicinò ed iniziò a chiederle scusa…non voleva dare noia a nessuno. Quella mattina si era svegliato molto tardi, Era in ritardo, doveva trovare da guadagnare qualche soldo per poter comprare qualcosa da mangiare. La Marchesa intenerita, invitò l’omino a sedersi all’ombra  della grande quercia. Chiamò la cuoca e le fece portare le polpette piccanti che aveva cucinato la mattina sul focolare ormai nero.  L’omino iniziò a sentirsi meglio, nessuno voleva fargli del male e a quel pensiero sembrava si raddrizzasse piano piano. Quando  la cuoca, con la sua vestaglia tutta logora a righe ocra e rosa, portò in tavola il tegame di polpette a sugo e tanto pane  l’omino pensò che tutto quel mangiare in vita sua non lo aveva mai visto, e lo mangiò con avidità. La signora gli chiese cosa faceva dentro quell’albero e lui le disse che dormiva lì  da tanti anni, ma nessuno lo aveva mai visto perché la mattina andava via molto presto e la sera tornava molto tardi per non  disturbare. La Marchesa, presa da uno slancio di bontà, le offrì una piccola stanza con un letto, un bagno e qualcosa da mangiare tutti i giorni, in cambio lui avrebbe  dovuto fare delle piccole pulizie in giardino. Lui naturalmente accettò, ma quando poteva tornava a nascondersi nell’albero.

Ti racconto una storia – L’omino con la gobba

L’omino con la gobba – di Simone Bellini

Arrivò silenziosa alle spalle di quell’omino secco rifinito mentre lo vedeva cercare nel ripostiglio degli attrezzi dietro il garage.

– Venanzio, non vi ho visto lavorare il terreno del giardino – disse accigliata la contessa.

– Mi scusi padrona, ma queste lame hanno bisogno di essere affilate, perciò sono venuto qui.-

Dicendo questo il poveruomo si curvava sempre più , mostrando involontariamente la gobba piegata dal duro lavoro.

La contessa si sorprese nel vederla, per la prima volta si rese conto di quanto tempo aveva passato al suo servizio.

– Vieni, riposa un po’- disse riconoscente- Vieni, sul fuoco la Cesira sta preparando polpette e cipolle.-

L’ omino la guardò incredulo e la seguì verso la cucina con un sorriso commosso ed una schiena che sembrava raddrizzata dall’emozione.

Ti racconto una storia – L’omino in poltrona

L’omino in poltrona – di Nadia Peruzzi

Nel quartiere l’odore di fritto si era fatto strada poco per volta. All’inizio sapeva di olio che friggeva appena,di piatti poco impegnativi .In poco tempo aveva preso campo e era arrivato ad impregnare tende, tessuti, lenzuola, mobili e pure gli abiti dentro gli armadi.

Un fritto rifritto di olio che era invecchiato passando da un cibo all’altro .

Anche i fiori nei giardini una volta sbocciati restituivano odore di fritto al posto degli aromi naturali e al tatto avevano pure una patina oleosa che si appiccicava alle mani di chi li cogliesse.

Veniva da una casa piccola color ocra, con una veranda che la cingeva tutta. A mala pena se ne distinguevano i contorni visto che ristagnava su tutto un pennacchio di fumo acre e fastidioso che si alzava di molto verso il cielo. Era un peccato, sembrava una casa con una storia tutta sua , tirata su con amore paziente da mani trepide e felici.

Adesso, da dopo che erano arrivati i nuovi proprietari il giardino era malconcio, gli attrezzi fuori dal capanno arrugginiti, l’erba incolta.Era trasandato anche il casotto del cane ,che non vedeva un cane da molto molto tempo.

Ad eccezione di un omino ingobbito e rinsecchito che se ne stava tutto il giorno sulla veranda senza far nulla, la casa sembrava deserta.

Lui , scostante, non dava relazione a nessuno. Restava seduto ,avvolto in un pessimo odore di cipolla fritta e rifritta che faceva pensare a  piatti tirati via, così  per fare, senza voglia e senza passione.

Chi passava lì vicino e provava a scambiare due parole, lo vedeva rattrappirsi tutto nella grande poltrona color petrolio, come se volesse sparirci dentro.

Evitava le controversie nascondendosi nel mutismo, per di più con un bel pizzico di menefreghismo.

Il fumo e quel nauseabondo odore di fritto stantio era come se non lo riguardassero affatto, come se non uscissero da casa sua ,come se non li sentisse proprio.

Rimaneva il mistero di chi cucinasse . Nei parlottii di vicinato si raccontava che al tempo del trasloco si era vista anche una signora di una certa imponenza, ben vestita ma con uno sguardo annuvolato, stanco e venato da una certa tristezza.

Si erano sentite volare parole grosse fra i due . Nessuno si ricordava bene quando fosse successo. Doveva essere certamente quando ancora stavano a finestre spalancate estate e inverno e non si facevano problemi a far piazzate in pubblico anche per futili motivi. Si era rotto qualcosa fra i due, in quel periodo, ma nessuno seppe mail il perché.

È allora che iniziarono le fritture. Ad ogni ora del giorno e della notte. La moglie non la si vide più in circolazione ,il marito cominciò a passare sempre più tempo sulla poltrona e in veranda. Ogni giorno che passava dava l’impressione di restringersi e ingobbirsi sempre di più.

Ti racconto una storia – Filastrocca della cena che non fu

FILASTROCCA DELLA CENA CHE NON FU – di Elisabetta Brunelleschi

Il telefono squillò, squillò, squillò

La donna corse e parlò, parlò, parlò

della cena si scordò, scordò, scordò.

E il fuoco del camino bruciò, bruciò, bruciò.

Il tegame tutto tutto nero diventò

e il suo fragrante contenuto si carbonizzò.

Quando alla sera il povero marito risecchito la porta varcò

nel suo naso un tanfo di bruciato entrò.

E allora si lagnò, lagnò, lagnò.

La donna che si vestiva di rosso bordò

si difese e altezzosa proclamò:

– È stato il telefono che squillò, squillò, squillò! –

Ti racconto una storia – Voglia di parole

Profumo di cipolla – di Chiara Bonechi

La signora della casa accanto oggi non se ne sta sola e rannicchiata sul divano in attesa del marito che ormai fa la sua vita.

Attratta dal profumo di cipolla che soffrigge decide di andare a far due chiacchiere dalla vicina.

Si alza dal divano e, con la solita espressione stanca e annuvolata, si avvia.

Suona il campanello, nessuno risponde.

Spinge il cancellino, entra nel giardino, gira intorno alla casa, esplora.

Tutto sembra deserto e vuoto, solo una finestra è aperta, guarda dentro, chiama.

Da lì arriva quell’odore di fritto, di soffritto, dell’olio che frigge appena appena. In casa nessuno.

In fondo, dal garage vicino alla cuccia del cane, lentamente arriva la vicina avvolta da una coperta ocra e rosa, tranquilla va verso di lei e la saluta, non sembra affatto preoccupata del soffritto di cipolla.

Dice “arrivo!”

“Ero andata ad aiutare l’omino della legna che sembra ingobbirsi e rinsecchirsi ogni anno di più”.

Ma la cipolla! Sullo sfondo del focolare nero di fiamma la teglia fuma, lei accelera il passo, si ricorda che tutto era pronto e doveva preparare polpette

Ti racconto una storia – La tovaglia impossibile

La tovaglia impossibile – di Rossella Gallori

Si ricordava ancora il “magico momento” in cui le fu consegnato il cartoccio…un pacchetto dal forte odore di stantio, che volutamente ignorò, un dono è sempre un dono, telefonò per ringraziare, mentre lo apriva…apparve così, l’ orribile tovaglia: quadri grandi e sfacciati, di un tessuto più salda che filato, un ensemble  di colori inguardabili ai suoi occhi attenti;  la signora era stata gentile, come non riconoscerlo, ma rosa e giallo ocra, proprio no…

A casa gettò, si gettò, sopra il tavolo del giardino l’ orribile drappo sperando che sbiadisse in fretta e perdesse l’ odore forte ed appiccicoso. La lasciò li tutta l’ estate….i gatti l’ avevano sfilacciata i piccioni decorata….ma il sole non aveva fatto il proprio dovere, era sempre troppo colorata, accecante.

Si propose di gettarla nel focolare, al più presto, per vederla bruciare piano, piano…..sarebbe arrivato anche dicembre…forse.

Arrivò, invece, un novembre peso come una lastra di marmo  grigio come un tunnel abbandonato ….ma la tovaglia “ era li,   la vedeva svolazzare dalla finestra, protetta dal cedro. Ma a cosa poteva servire  se non a buttar via  i suoi incubi…

Uscì sul prato incurante della pioggia, l’ acchiappò con rabbia, ci mise tutto dentro, tutto il lercio di quei giorni: le lacrime, quell’ omino macabro e deforme, le lacrime troppo salate, il bicchiere rotto con rabbia ed ancora sporco di sangue, quell’ amica cattiva, quei silenzi, i vomiti improvvisi, i pensieri bui come la notte …. Ne fece un fagotto ben stretto e  se lo caricò sulle spalle. Pesava, pungeva…

Il telo aveva, finalmente assunto  un’ altra forma, stava anche lentamente cambiando colore…

Salì, salì, salì   nel  posto più alto che conosceva, scosse tutto giù, nel baratro….dai rifiuti foglie color castagna, volarono in silenzio, una vecchia gobba e rattrappita, al volo le raccolse….

Una nube ocra e rosa apparve in cielo…..