Il taglio dei capelli – di Andrea Bettarini

di Giuseppe Boschetti pittore
Ogni mese era d’obbligo il taglio dei capelli. Andavamo col babbo da Melino, il parrucchiere, la domenica mattina. Ero molto timido, un po’ vergognoso, in quel locale pieno di uomini che in attesa leggevano giornali poco adatti a un ragazzo come me. Quando toccava il loro turno era tutto un chiacchierare con un linguaggio sconosciuto, di calcio e di donne ricorrendo spesso a sottintesi quasi si fossero messi d’accordo per fare di tutto a non rendermi partecipe. Stavo seduto su quelle monumentali poltrone girevoli coperto con un telo, che infilato da una parte tra collo e camicia mi scendeva fino ai piedi. Testa china, ogni tanto sollevavo lo sguardo verso il grande specchio che avevo davanti. Melino mi chiedeva se stavo comodo, se andavo bene a scuola, e se la scrinatura la volevo a destra o a sinistra. Rispondevo con lo stretto necessario. Di solito mentre Melino faceva i capelli a me l’altro parrucchiere si occupava di farli al babbo. Io terminavo sempre prima, Melino mi spalmava una generosa dose di brillantina per aver ragione di una indomita ritrosa, mi spruzzava del profumo chiedendomi di tenere gli occhi chiusi, soffiava con una peretta, simile a quella dei clisteri, del borotalco nel collo, spazzolava i capelli tagliati dalle spalle e mi liberava da quel telo scuotendolo con due rapidi gesti sincronizzati. Riprendevo posto su quelle basse poltroncine di vinilpelle, da un piccolo tavolino prendevo l’unico giornalino a fumetti, ormai sgualcito; mi accorgevo che era lo stesso del mese precedente. Non mi rimaneva che osservare ciò che mi accadeva intorno. Melino faceva accomodare sulla poltrona Giannetto della Nella, un giovanottone un po’ tardo, quasi completamente calvo, ma a questa disgrazia Giannetto della Nella non si sapeva rassegnare. Il lavoro di Melino si riduceva a tagliare quel poco di capelli sotto le tempie e dietro la nuca. Il parrucchiere, dimostrando un grande impegno, faceva battere ritmicamente le forbici dietro al collo di Giannetto, quasi che la chioma fosse un ammasso enorme. A rendere verosimile la cosa Melino, prima di aver fatto sedere Giannetto sulla poltrona, si era rifornito di alcune manciate di capelli, dal retrobottega, infilandoli nelle capaci tasche della gabbanella bianca. Assieme al rumore delle fobici lanciava, a piene mani, pugnelli di capelli. « Giannetto questa volta hai i capelli più lunghi del solito.» Il giovanottone guardava le ciocche che si ammassavano sul telo dinanzi al petto sorrideva emettendo dei suoni inarticolati che gli uscivano dalla bocca ingombrata da una lingua che a stento riusciva a contenere. Un ragazzo di bottega non faceva altro che spazzare il pavimento ingombro di capelli, dal retrobottega portava dei pentolini di acqua calda per i clienti che si facevano la barba. Cliente fisso, non perdeva una domenica, Aroldo conosciuto da tutti come Spandiamore. Sempre in giacca doppio petto e cravatta, camicia stirata di fresco sul polsino sinistro un Longines d’oro. I capelli sempre della medesima lunghezza, accuratamente sbarbato. Aroldo non dava confidenza a nessuno, erano gli altri che una volta uscito dal barbiere si abbandonavano a considerazioni non certo benevole nei suoi confronti. « Spandiamore è sempre stato di spalla tonda, non ha mai fatto un lavoro in vita sua. » e un altro di rimando: « Se non fosse per la vedova dell’avvocato Cipriani sarebbe morto di fame » Poi aggiungevano: « E’ un parassita, un gigolò. La vedova dell’avvocato sarà ricca ma è anche tanto brutta. » Parte di questi discorsi avevano per me un significato incomprensibile, preferivo continuare a leggere il giornaletto e guardarmi intorno. Il giovane che faceva le barbe aveva molta dimestichezza nell’insaponare il viso del cliente fino a farlo quasi scomparire sotto una candida schiuma, densa come la panna, che richiedeva un intenso lavorio di pennello. Era la volta del rasoio, che altrettanto con abilità e destrezza affilava su una cote di cuoio unta d’olio. Con colpi di polso decisi, il rasoio scorreva asportando lo strato di sapone per poi depositarlo, via via, su delle vecchie schedine del totocalcio. L’operazione veniva ripetuta una seconda volta, il contropelo, per poi sciacquare il viso asciugarlo e spruzzare infine l’acqua di Colonia. Faceva capolino Graziella, la figlia non più giovanissima di Melino, da una porta che dava nell’abitazione del parrucchiere: « Babbo quando devo apparecchiare per il pranzo? » dando un’occhiata, ricambiata, al giovane barbiere. « Come sempre alla solita ora. Come tutti i giorni che i’ Dio mette in terra. » Rispondeva insofferente Melino, facendo capire anche a un babbeo che la venuta della figlia in negozio era un pretesto per fare il filarino al giovanotto. Mio babbo, alla fine, pagava, di solito gli spiccioli erano lasciati come mancia. Una volta fuori da quell’ambiente saturo di disparate fragranze era immediato respirare l’aria fresca a pieni polmoni. Pochi passi, dall’altra parte della strada, nel bar di Danilo. Il babbo ordinava le paste dolci per pranzo, con cura Liliana la moglie del barista disponeva su un vassoio le bignè incartandole con un foglio di delicati disegni color seppia e un nastrino dorato. Il babbo mi porgeva il pacchetto dei dolci: « Vai a casa, mi trattengo per una partita a carte, torno per l’ora di pranzo ». Casa era sullo stesso marciapiede, e distava poche decine di metri. Procedevo tranquillo con il mio pacchettino tenendolo per il nastrino dorato. Dalle finestre al pian terreno delle case uscivano odori dell’imminente pranzo della domenica: ragù di carne, lasagne al forno, pollo e patatine arrosto. Dalla finestra del salotto delle sorelle Manetti, tre signorine invecchiate, non si sentiva aroma di pietanze ma una esalazione di olio paglierino, che le sorelle usavano abbondantemente per ravvivare il legno dei mobili antichi dei quali era ingombra la loro casa.