Il soldato John – di Cecilia Trinci (in risposta a Rossella Gallori)
Era molto grande la casa della mia infanzia. E per fortuna! perché fino a che non ho compiuto sei anni ci vivevamo in sette: babbo, mamma, nonno, nonna, io, sorellina e zio, il fratello di mamma, più giovane di lei che era rimasto a studiare in casa dei genitori. Allora si usava così, e si viveva così, in tanti tutti insieme. Ci sarà oggi chi ci compatirà e ci immaginerà immersi in disagi senza fine (e in effetti , pensate!, il bagno era uno solo) ma si viveva un tale calore, una tale cascata di affetti multicolori che credo si sia trasformata in globuli rossi e piastrine in modo indelebile.
Mia nonna aveva il dono della narrazione. Raccontava fatti, persone, spesso senza la barriera di un contesto, senza che si avvertisse in modo chiaro la connotazione temporale. Mamma le andava dietro, dal momento che capiva a volo di chi o di cosa e soprattutto di quando si stesse parlando. Così il dialogo che si creava tra loro rendeva ancora più difficile inquadrare il fatto in una sua realtà. Così si raccontavano storie di parenti che io mai avrei conosciuto, o di amici incrociati nei vari luoghi dove loro due, col nonno, avevavano vissuto in ere precedenti. E se ne parlava con i loro soprannomi coloriti: “Succhio”….”Fagiolino”….”Il matto delle Giuncaie” come fossero stati davvero nomi di battesimo e facendo crescere nel mio immaginario curiosità e meraviglia.
Mio nonno non parlava mai. Eppure ci capivamo a gesti, o più probabilmente per telepatia. Sapevamo senza dirci niente cosa avremmo fatto, a cosa volevamo giocare, se volevamo andare al cinema e passarci tutto il pomeriggio e rivedere il film (se ci piaceva) almeno due volte e mezzo!
Eravamo tanti sempre. Anche al mare dove i nonni erano gli altri, quelli paterni, ma il numero complessivo dei familiari restava pressoché lo stesso o cresceva in qualche momento, a causa di inviti sempre possibili e sempre accettati.
Tanti. Tutti. Diversi. Allegri e presenti. Le nostre case erano piene di letti, di sedie, di parole, di caldo, di consolazione. Era normale crescere con i nonni.
Ma che c’entra il soldato John?
Mia nonna lo nominava spesso, perché nessuno “in tempo di guerra” come dicevano loro, poteva essere stato esente dall’aver ospitato qualcuno in casa in modo non proprio legale. A noi, o meglio a loro, era toccato un giovane americano, di nome, vero o fittizio che fosse, John, appunto, il quale aveva poi, finita la guerra, ricambiato l’affetto ricevuto con doni fantasmagorici. Primo tra tutti un improbabile paio di sci di legno, rigorosamente conservato in soffitta, che nessuno della famiglia mai osò mettere alla prova sulla neve, ma che tutti chiamavano “gli sci di John” e per qualche anno, finché non cominciai ad andare a scuola, rievocavano ricordi di ogni tipo. Mia nonna e mia mamma, appena capitava di alludere per qualche recondito motivo agli sci di John, si buttavano a raccontare della guerra e delle patatine fritte che apparivano in sogno e della cicoria al posto del caffè e delle bombe e degli allarmi e dei rifugi dove di notte scappavano con il gatto in braccio, il mitico gatto Nanni, nero e bianco, sopravvissuto alla guerra e alla miseria, che negli anni 50 accolse la mia sorellina appena nata miagolando sotto la culla piena di tulle.
Nanni morì dopo qualche anno, molto vecchio. Per età era più vecchio lui di tutti gli altri quando sono scomparsi ad uno ad uno …..
Scomparsi da quella casa e dalla vita, ma non da tutto il resto.

