Il rumore del dolore

La luna e l’iraniana – di Cecilia Trinci

Nell’aria, il mare.

Una di quelle feste dove conosci solo chi ti ha invitato. Grigliata all’aperto, il barbecue di legna, cesti di frutta carnosa: pere, prugne, pesche. E poi in giro tanta gente.

Su una panchina sta parlando una bella donna: Azita, iraniana. “Ciao, dice, mi chiamo Azita, stanotte c’è una bellissima luna piena, nessuno dormirà bene, stanotte. La luna piena ha troppa forza e nessuno ce la fa a sostenerla”.

“Ha un significato il tuo nome?” chiedo

“Colei che cura il male d’amore”

“E tu lo sai fare?”

“Eh no, troppo difficile!!” e ride con tutta se stessa. Con gli occhi soprattutto.

Poi comincia a raccontare, con quella magia da Sherazade, con gli occhi intensi, tutti pieni di storia. La storia intera della Persia.

“Sono iraniana, sono fuggita dal mio paese perché il governo è infame”.

Dice del suo lavoro, e di nuovo si illumina: dipinge rose sulla stoffa, seta soprattutto.

Ha una famiglia italiana. La figlia parla un po’ il persiano, il figlio non ne vuole sapere. “Le donne sono troppo più brave”, dice. Lei tiene a mente la sua lingua leggendo poesie iraniane. Non vuole dimenticare.

Sono diciannove anni che non torna. Solo una volta è tornata e ha rischiato tutto quello che aveva. L’accademia, il lavoro, gli affetti. La libertà. Soprattutto la libertà. Ha partecipato ad una festa di matrimonio non autorizzata. Gente ricca, piscina  a pelo d’acqua…c’è una Teheran ricca, ricchissima e una Teheran povera, poverissima. Tutto si paga. Basta pagare e ti lasciano in pace. Nel privato e nel segreto delle case poi succede di tutto. Qualunque nefandezza. La gente impara la democrazia stravolta da internet. Le guardie sono venute a controllare e hanno fracassato tutto. Lei è riuscita a scappare. Avrebbe perso tutto: il visto, il passaporto. Non sarebbe più potuta tornare indietro. Ha detto “no, non rischio più, troppa paura”. Era scappata dal suo paese perché aveva visto troppa violenza. Uscendo dall’università aveva visto una donna lapidata in mezzo alla strada, in centro di Teheran. Una donna interrata fino al petto, col capo coperto da una balla di iuta e tutta piena di sangue. Una violenza inaudita dice. Rabbrividisce. Ci fa rabbrividire. Gli occhi si inumidiscono. Trema.

“Non c’è niente di più crudele e non vale la pena rischiare. Se sei straniera non ti fanno niente, anzi, sono accoglienti, l’Iran è pieno di bellezze, di storia. Ma se sei iraniana possono farti di tutto, se torni con un marito, dei figli stranieri loro possono lasciarli tornare ma tu no, tu puoi essere trattenuta per sempre. Ci sono famiglie spezzate, divise. Un ragazzo iraniano che non ha potuto raggiungere la moglie in America si è impiccato a Teheran”.

“Non tornerò più” dice, ma dice anche che il proprio paese ci resta nelle vene, nel sangue. Gli odori, i sapori. E gli affetti. Suo padre è morto senza che lei abbia potuto rivederlo. Lei dice: è un diritto condividere con i genitori anche i momenti di dolore. Gli ultimi momenti della vita. A noi ce lo negano. Anche questo diritto elementare. E’ una grande violenza.

Dice “tempo fa, sotto Natale ero a fare la spesa alla Coop. Ho visto una figlia che faceva la spesa con la madre, compravano il pesce per la festa, parlavano tra sé. Io mi sono chiusa in bagno e ho pianto per un’ora. Io non potevo. A me non poteva toccare”.

“Siete un bel popolo” dico, e ricordo altre due donne iraniane che ho incontrato: la venditrice di riso con gli occhi bellissimi, che faceva di una cottura un rito importante; l’amica di Solange, rimasta in Italia da sola a pochi anni, con due sorelle:  i genitori  dopo essere scappati in Italia con le figlie erano tornati indietro a prendere altre loro cose e non sono più potuti tornare e raggiungerle. E loro sono cresciute con sofferenza, ma anche con la solidarietà gioiosa di sorelle, tre donne, da sole.

“Grazie” e di nuovo si illumina di una grande luce interiore. “E’ bello che si parli di noi. Loro vogliono che si costruisca un buco buio e silenzioso sopra  l’Iran. Vogliono che si sparisca dalla storia. Ma non riusciranno in questo. Il nostro popolo non è musulmano, non è neppure arabo. Abbiamo le nostre tradizioni i nostri riti, legati al fuoco, per esempio. Si fanno dei falò e ci si salta sopra, attraversandoli, dicendo delle formule. Loro ce lo vorrebbero impedire. Ma noi li facciamo lo stesso. Sono riti di purificazione.

Dice “Avete letto il cacciatore di aquiloni? E’ un best sellers ma va letto, dice cose vere, autentiche. Bisogna che si sappia. Si deve parlare di questi problemi” E ancora “Anche Lolita a Teheran, va letto, anche lì c’è Azita o Ajita, non si sa bene come si scrive di preciso”.

Dice ancora, con quei suoi occhi stupendi “Il Dio dei poveri è diverso da quello dei ricchi. Non può essere le stesso dio. Si sono fatte cose ignobili in nome di Allah. E l’altro Allah non è possibile che approvi”.

Quando mi sono alzata per salutarla le ho detto “buona luna” e lei “grazie, che piacere incontrarti”.

L’ho lasciata lì, nella luce della luna, sotto gli olivi grigioargento.

Legami

Legami – di Gabriella Crisafulli

Ci incontriamo ogni settimana a lavorare di penna, a ridere e a scherzare.

I testi, sciorinati come panni al sole, vibrano di gioie e dolori. In questi spartiti ognuno trova la propria cadenza. 

Sediamo intorno ad un tavolo rosso mentre le voci dialogano, si rincorrono, si sovrammettono. Le parole rotolano, rimbalzano, colpiscono, svelano. Le idee costruiscono castelli, ponti, strade.

Un clima soffice ci avvolge mentre moduliamo il pensiero in una fitta trama di fili aerei.

Legami.