Il pozzo – di Mirella Calvelli
Il pozzo in mezzo alla grande aia era antico, ma ancora ben
tenuto. Munito di carrucola, ben oliata, riusciva a portare su un secchio che
conteneva oltre dieci litri di acqua.
Era delizioso guardarlo in movimento, soprattutto nelle sere
d’estate, quel rumore gracchiante, intervallato dai respiri affannati , di chi
era impegnato nell’impresa.
Divertente era sporgersi e gridare il tuo nome, che si
sdoppiava numerose volte, prima di svanire…GIO GIO VANNAAA
E l’immagine riflessa sul fondo, non troppo profondo,
tremolante, si incrociava con quella del cielo, mutandone colori e riflessi.
Il babbo amava portarmi li la domenica mattina, quando il
sole era alto, ma ancora non troppo alto.
Profumava di buono, di brillantina Linetti, di barba appena
fatta, la camicia ben stirata, giacca e cravatta, perché così amava definire la
domenica.
Io stavo in braccio a quelle braccia forti e sinuose, scolpite dal lavoro di falegname iniziato a poco più che bambino.
Ma quel misto di odori, di pulito e di bontà!. Mi adorava mio
padre, come nessuno mai, l’ho sempre capito dal suo sguardo intenso, dai suoi
occhi grigi che mi guardavano nel profondo.
Ricordo il mio vestitino di sangallo, cucito dalla mamma, ma
forse più che un ricordo, lo sono le foto ormai sbiadite.
Avevamo un sorriso raggiante, il mio di gioia il suo di
orgoglio.
Mi sporgeva su quel pozzo e io fra il divertito e lo
spaventato mi avvinghiavo al suo collo.
Poi con gli anni quel pozzo si è seccato, nessuno ha avuto più bisogno di quell’acqua preziosa e si sono potute intravedere le fondamenta, prima umide e poi completamente asciutte.
Così era stata la mia fanciullezza, allegra e spensierata, intrisa di sogni e progetti, espressi con lo sguardo a quello specchio d’acqua circolare. Le margherite “spennate” e lasciate volare laggiù, nel tentativo di richiamare l’amore del personaggio di turno. Laggiù sul fondo avevano trovato la morte, qualche malcapitata lucertola o topolino, che annaspavano faticosamente nel tentativo di uscire dall’acqua. Ma le impietose e sdrucciolevoli pareti li riportavano al loro amaro destino.
***
Non interessava più a nessuno, sfidare la sicurezza e salire
sul bordo, per poi dondolarsi con la
carrucola. Il vecchio secchio era
rimasto riverso sul fondo, le pareti ospitavano qua e là fra le pietre qualche mammola ed erba spontanea.
Così anche lei giovane donna aveva accolto le dichiarazioni e
le speranze su quel bordo, dondolando pigramente le gambe fra la noia,
l’imbarazzo e la gratificazione.
Aveva accettato lusinghe e proiezioni, perché lì su quel
pozzo, tutto era speciale.
Li c’erano state risa e confidenze, baci e sussurri.
Poi una sera una decisione importante era stata presa e aveva
provato a gridare il nome soffocato in quel cunicolo buio, ormai vuoto.
Avrebbe dovuto intuire che quelle non erano grida di gioia,
non erano le grida della domenica mattina, non erano le spiegazioni semplici,
ma dettate dal cuore, da chi ti ama, erano altro.
Aveva pensato inconsciamente che avrebbe ritrovato in quel giovane uomo la forza, la grazia e il rispetto di suo padre. Si tuffava in quei grandi occhi, marroni, ma non erano stati sinceri.
Il tempo ha giocato la sua partita e lei con lui e con loro.
La sua vita come il pozzo, l’aveva sfidata, era fiera eretta
sul bordo, pericoloso, le avevano sempre detto, suggerito e implorato.
Ma lei aveva sempre amato le sfide, perché i suoi ricordi erano tutelati, i suoi errori erano stati accolti, capiti, l’avevano sempre sorretta e il pozzo non le faceva paura.
Il tempo scorreva implacabile, era mosso da intenzioni,
capitolazioni e si ….arrese.
Si arrese perché credeva che quella fosse la soluzione
giusta, perché tutti quelli che l’amavano, soprattutto i piccoli contavano su
di lei.
E allora accettò che il viso si schiacciasse sulle pietre del bordo, premuto con forza, che le parole d’amore si trasformassero in offese e biasimo.
Lei parlava, parlava, parlava, come aveva sempre fatto e le
sue parole rimbombavano con la forza dell’eco.
Poi la voce divenne leggera, ma non leggiadra, si assopì. Il
pozzo non riusciva più a fare da cassa di risonanza e le parole tornavano
indietro nella gola, nessuno sapeva più ascoltare.
Provò a scendere nel pozzo, grazie a quelle pietre sconnesse
che formavano degli scalini circolari e si adagiò sul fondo.
Di laggiù il cielo non era ampio, ma piccolo circolare e
lontano.
Non accoglieva il nuovo, ma stringeva il vecchio. Portava a
pensare all’incapacità di uscire a combattere.
Laggiù era fresco, nessuno l’avrebbe trovata.
Avrebbe potuto gridare, ma a chi e cosa? Avrebbe potuto
risalire, ma per chi, per che cosa?
Poi quando la sua testa si appoggiò sulle ginocchia e le
braccia le abbracciarono, fu scossa da qualcosa di molliccio che le aveva
colpita proprio li, sulle braccia.
Si voltò di scatto e vide la piccola lucertola impaurita che
schizzava da una parte all’altra delle pareti cercando una via di fuga.
Si ricordò allora della sua incapacità di reazione, di aver
permesso che qualcuno decidesse per lei, che volesse a tutti i modi farla
sentire in colpa, inadeguata.
Ma lei non era questo, lei non poteva seppellirsi laggiù. Lei
era quella che aveva giocato, sperato e riso, lassù.
Che si era ferita e medicata con un semplice soffio.
Lei in quel tunnel non voleva starci. Laggiù dove chi con
tanta maestria, quasi per mano l’aveva indotta, spinta. In fondo le aveva fatto
un piacere, le aveva dato la possibilità di un altro punto di vista, non
contagiato dagli aspetti esterni. Laggiù sola con se stessa aveva preso la sua
decisione, sarebbe risalita, con tutte le difficoltà della scalata. Con i
rimproveri e le avversioni da chi si era allontanata senza preavviso.
Ma in fondo lei si era già allontanata da tempo per sfuggire
alle ingiurie ipocrite, di chi probabilmente aveva pensato di poterla
strumentalizzare a suo piacimento, accusandola di fatti che non aveva mai
commesso. Pensati si, con insistenza per scappare, ma eseguiti mai!!!
Adesso risalendo le irte mura aveva chiaro cosa fare e dove
andare. Rimise il piede in terra e con lo sguardo cercò la sua compagna di
sventura, la prese, lei le morse un dito, lei se l’infilo nel taschino.
Stranamente il piccolo rettile si placò, intuendo forse una
via di salvezza oppure una morte sicura.
Salirono faticosamente, perché salire è sempre più duro che
discendere.
Ma uscirono che ancora non era buio. Liberò la piccola che
schizzò via quasi saltando. Le parve però che a metà dell’aia si voltasse,
quasi come se la volesse ringraziare di quell’inaspettata libertà.
Arrivare a casa, fu un attimo.
Il resto, le parole i gesti furono immediati e liberatori.
Anni di prigionia si dissolsero in pochi istanti, proprio perché
prima si era calata nella sua “prigione”.
Tutti rimasero
allibiti, perché pubblica fu la decisione.
Ma tutti capirono vecchi e bambini.
Solo lui il
carceriere, non si rese conto di quello che stava accadendo, si ribellò inveì,
minacciò. Ma lo sguardo dei suoi figli, gli rimase impresso addosso, come due
lance di fuoco.
Alla fine tante miserevoli azioni si conclusero con un paio
di valigie fatte scivolare in silenzio fuori dalla porta, al mattino molto
presto, prima che la casa si rianimasse dei rumori della giornata.
Chiudendo quella porta un sorriso e un senso di benessere la
pervasero .
Mentre riorganizzava la sua vita, volse lo sguardo al
calendario: 19 marzo…la festa del papà, sicuramente quella del 2003, non
l’avrebbe mai dimenticata!!!
Mentre io non dimenticherò mai tutte le altre, nel ricordo
del mio babbo, anche lui falegname, anche lui semplice e profondo.