Stropiccio metallico

Stropiccio metallico – di Roberta Morandi


Sensazione angosciante, udire questo rumore che potrei definire uno stropiccio metallico.
È come un metallo mi lascia fredda, asettica, per niente in buona compagnia, non provo neppure ad associarlo a qualcosa di piacevole e ancora meno a questi momenti che insieme viviamo il martedì. È un rumore, non è un suono, che faccio rimanere fuori da questa stanza, fuori dai nostri dialoghi, fuori dalle cose belle che insieme riusciamo a scambiarci.
È un rumore  che infonde tristezza, è  lui stesso tristezza, di quella subita, non voluta, quella che piano piano scava nello stomaco un buco nero da cui non puoi scappare.  Ti ingloba lentamente e ti annienta, come un pozzo quasi impossibile da risalire. Buio, umido, solitario.

Il treno fischiava

Il treno fischiava – di Sandra Conticini

Un vecchio treno degli anni ’30 con i sedili di legno e senza scompartimenti fermo alla stazione, in attesa del ferroviere che, con il martelletto, controllava i freni. Le persone si affacciavano ai finestrini o  scendevano perchè la sosta non sarebbe stata molto breve. Al grido “Signori si parteeee in  carrozza!” seguito dal fischio del capostazione tutti risalivano e ognuno si rimetteva al proprio posto. Il treno lentamente ripartiva con lo sferragliamento delle carrozze che passavano sui binari ed il cigolio dei freni, seguito dal rumore ferroso dei vagoni che andando si muovevano.

Quasi tutti guardavano fuori dal finestrino, non erano abituati a veder sfuggire alberi, case, persone, così veloci, perchè gli spostamenti venivano fatti  a piedi o su carretti trainati da animali.

I vagoni erano affollati, i viaggi lunghi e spesso la strada ferrata rappresentava il sogno e la speranza di trovare un lavoro ed una vita migliore.     

Stare in ascolto

Non passano velocemente certi giorni – di Stefania Bonanni

Certi giorni mi sono sentito così: come una ciotola piena di croccantini, in una casa dove hanno arrotato il gatto.

Risecchito, rattrappito, indurito,  inutile.  E non passano velocemente,  certi giorni.

Il senso più  all’erta, è  l’udito. Tutto il resto funziona solo al bisogno.

Sto attento ai rumori perché  danno un senso, scandiscono tempi vuoti.

C’è il rumore della sveglia. Poi quello del carrello con la colazione, quella che riempie la ciotola. Poi, a volte c’è  il sole,  si può  stare un po’ fuori. E a volte si incontra anche qualcuno da ascoltare.  Non sapevo che anche i pensieri sono come i croccantini inutili. Ci si può allenare a non avere pensieri.  Allora, non si parla più,  si ascolta e basta. E il sentimento migliore  è  augurarsi che i giorni passino,  che quando ne finisce uno,  è  il momento in cui ne nasce un altro. Se non ci fosse fine, non ci sarebbe inizio.

Per questo, è  benvenuto il momento della chiusura, ogni notte. Quello delle chiavi attaccate al mazzo che le contiene tutte, e che sbatacchiando sulle inferriate delle porte, le chiudono ogni sera con l’ultimo rumore prima del silenzio.

Rumori di ferrovia

Partire – di Carla Faggi

La stazione ferroviaria di Firenze, tanti e tanti anni fa.

Parto per la prima volta da sola; prendo il Palatino per andare “au pair” da una famiglia a Parigi.

Vado e conquisto il mondo! penso.

Mi guardo attorno, tutto è grigio, polveroso e triste.

Anch’io sono triste ed ho paura, ma mi ripeto: conquisterò il mondo!

Poi quel rumore di treno che parte, ferraglia, stridore, caos come nella mia mente:

  • quante cose avevo da fare qua a Firenze, finire quel corso, coltivare quell’amicizia, forse continuare col fidanzato che ho mollato per andare a Parigi.
  • Avrò ancora tempo quando torno?

Mi accarezzo le mani, mi consolo, mi faccio coraggio.

Forza che vai a conquistare il mondo!

Sferragliare

Nascita a vapore – di Luca Di Volo

Vedendola, avrebbe potuto ricordare la mitica officina del Dio Vulcano. Un’immensa spelonca, annerita dal fumo di mille fuochi riverberantesi fiammeggiando lungo le pareti, quasi un’ardente danza macabra.

Intanto, clangori metallici e struscìo di pesanti catene che raccoglievano i pezzi d’acciaio li spostavano per essere infissi, lavorati e poi assemblati.

E anche gli uomini, in quel luogo, sembravano mutati, quasi fosse avvenuta una strana simbiosi con l’ambiente:neri come le tenebrose mura, rossi nel viso come i fuochi, agivano con armonica e disumana precisione, lasciavano andare le pesanti mazze metalliche sul pezzo da incastrare o sulla mensola da smussare.

In mezzo a quest’inferno, stava prendendo forma lentamente “qualcosa”, un Moloch, un Leviatano che tra non molto avrebbe divorato tra fuoco e fiamme la terra e le distanze.

Potente, stava nascendo una grossa locomotiva a vapore, e come uno smisurato bebè, nato dal fuoco, già faceva udire i suoi primi vagiti fatti di fischi assordanti e getti incandescenti di vapore.

Ferro che batte

Rumori in fabbrica – di Chiara Bonechi

Non aveva mai visitato una fabbrica, fu felice di quell’invito, era curiosa.

Entrata, vide persone come manichini, braccia che si muovevano “alto, basso, alto basso”, sempre lo stesso movimento e i nastri trasportatori che scorrevano trasportando bottiglie.

Le vedeva oscillare, ma senza mai cadere, sotto gli occhi attenti di chi era lì, immobile per ore.

Ogni tanto il nastro trasportatore si bloccava e una mano veloce ne toglieva una, il nastro ripartiva.

Lei osservava frastornata da quel rumore, tintinnio di vetri che si toccavano leggermente, cigolii metallici, colpi di ferri battuti e intanto la sua angoscia aumentava.

Si sentiva fortunata per aver trascorso tanti anni fra voci serene e grida di bambini, ogni giorno diversi, ricchi di inventiva e di speranza, in un lavoro lontano dalla monotonia di una catena di montaggio.

Un pensiero alla forza di quei lavoratori.

Catene

Catene? Si, catene… – di Rossella Gallori

Sempre, solo catene, pesanti, arrugginite, ruzzolavano giù per le scale a chiocciola, un lungo serpente senza testa, senza coda, rumoroso, ansimante…non trovava pianerottoli, niente fermava l’ inarrestabile corsa.

Senza tregua, si annodava su se stesso, si allungava, si arrotolava.

Nel buio sentivo il freddo del metallo, l’odore del ferro vecchio.

Trovò il portone spalancato il boa con le maglie ammaccate.

Corse per la strada, inarrestabile, violento, cattivo…superò la ferrovia, fece scintille sulle rotaie…trascinò siepi ed alberi, che ne cambiarono il colore, un animale verde acido, che non conosceva limiti, si  tuffò in un piccolo ruscello, avvelenandone l’ acqua…arrivò alla strada, si infilò in una fogna, trovò talpe, topi, qualche anonima carcassa, trascinò tutto senza ritegno, senza soste, una corsa inarrestabile, senza meta, senza traguardo…

Un fantasma di ferro…il mio incubo.

Rumori di ferraglia

Il fantasma sferragliante – di Nadia Peruzzi

Nella casa dei Jones c’era un fantasma. Lo dicevano in molti. Era per questo motivo che non si riusciva a venderla e era disabitata da tempo. Il sindaco era preoccupato perché la casa vittoriana era molto bella e rischiava di andare in rovina.

Gli venne un’idea per verificare quanto la notizia fosse vera o solo una stupida diceria che si tramandava ben oltre il lecito.

Propose di passare una notte intera dentro la villa, insieme al consiglio comunale al gran completo.

Si diedero appuntamento in una notte senza luna. Entrarono e andarono tutti a sistemarsi nella vecchia biblioteca . Era lì che a detta di molti, da anni, si sentivano rumori spaventosi. Avevano tutti un po’ di timore anche se cercavano di non darlo a vedere mentre se ne stavano in silenzio senza che si sentisse alcun rumore.

Arrivò in un attimo. All’improvviso un clangore che sembrava venire dall’altro mondo invase la stanza e si propagò in tutta la casa facendoli rabbrividire.

Era uno sferraglio insistente, lugubre, cadenzato come se dei cingoli fossero in movimento o una grossa catena venisse trascinata lungo una scala senza fine.

Si accorsero in breve che in un punto coperto dalla pesante libreria si sentiva con forza particolare. Era nitido e penetrante, un vero fastidio per le orecchie, e di ritmato non aveva più nulla. Era uno sbattere furioso e senza regole, colpi a caso ma con una costanza e una energia quasi sovrumane.

Spostarono libri, mossero soprammobili senza  che accadesse nulla. Qualcuno ad un certo punto toccò uno degli alamari del camino e all’improvviso un cigolio ebbe la meglio sui rumori metallici che si erano presi la scena fino a quel punto. Ci volle pochissimo perché il varco si aprisse del tutto.

Quello che videro li lasciò di sasso. Avevano davanti un vecchio rugoso dai capelli grigi e lunghi, barba incolta fin quasi alle ginocchia, occhi febbricitanti e abbacinati per la luce che c’era nella stanza. Li guardava fisso, come se fossero loro gli alieni.

Aveva in mano una spada e indosso una vecchia armatura.

Era rimasto chiuso in quel ripostiglio segreto per un numero imprecisato di anni, disse dopo essersi ripreso.

Era accaduto durante la caccia al tesoro che la famiglia Jones aveva organizzato la sera prima di traslocare definitivamente. In tutti quegli anni usando la spada e facendo leva pure sull’armatura aveva cercato di farsi sentire. Batteva colpi furiosi ma fino a quella notte non era servito a niente, nessuno aveva sentito, nessuno lo aveva liberato dalla sua prigione.

Sembrava al settimo cielo quando abbracciò e baciò tutti i presenti. Erano ancora a bocca aperta quando se ne uscì da casa, sferragliando felice.

Primavera vien danzando

Bibliocoop Bagno a Ripoli 27 marzo 2019

Chiude la nostra mini rassegna Matite-Bibliocoop una festa di primavera con parole colorate e immagini d’autore, con Carla Faggi, Tina Conti, Luca Di Volo, Laura Galgani e Ivana Acciaioli. Letture di Emma Rotini, Gabriella Crisafulli e Cecilia Trinci

acquarello di Carla Faggi
acquarello di Tina Conti
olio su tela di Luca Di Volo

pittura su seta di Laura Galgani

fiori di zucchero di Ivana Acciaioli

i fiori di Tina Conti

Quando le stelle ridono

Mi sembrerà che tutte le stelle stiano ridendo – di Mirella Calvelli

Percorrere il lungo sentiero fino alla spiaggia  sarebbe stato un gioco da ragazzi, se non fosse stato per l’ora e che stava per sopraggiungere l’oscurità.

Lenta, come nelle sere di inizio autunno e nel contempo veloce.

Lo scenario del cielo stava cambiando e i grandi nuvoloni grigi si spostavano velocemente da un capo all’altro, complice un vento determinato e freddo.

Così, pulito il manto celeste, una coltre semiscura pennellava la volta in maniera decisa.

Incerte comparivano le piccole luci argentate, applaudite dalle chiome dei pini, già vestiti da sera.

I loro smokings sembravano impeccabili, impercettibili le loro braccia e il fresco fogliame.

Accellerò il passo, perchè in quel punto la folla degli alberi era compressa. La sabbia che calpestava la faceva sprofondare leggermente.

Il tunnel  del teatro aveva numerosi anfratti, un’infinità di palchi, dove sbirciare tutto l’insieme.

Rumori la colpivano alle spalle, per poi rifuggire come un colpo d’ala all’indietro.

Facevano capolino le maschere fra i cespugli odorosi, gigli di mare, piccoli animali notturni dai grandi occhi gialli.

Il passo rallentò, adesso lo spettacolo  che le si poneva davanti era aperto. La lunga lingua del mare lambiva i piedi, provocando un misto fra il piacere e il disagio.

I brividi le percorrevano la schiena dal basso verso l’altro, increspandole i capelli.

Poi il silenzio. Sembrò che il vento si fermasse, che le onde rallentassero la monotona corsa verso la riva. I pini trattennero il respiro.

Lei fece ancora due passi indietro, non per l’acqua gelida, ma per aprire il suo sguardo all’orizzonte.

Alzò la testa, all’indietro, appoggiandola sulle spalle.

La bocca si aprì sottilmente,  il respiro rallentò, intervallato dal battito del cuore, gli occhi divennero ancora più grandi e lì….sembrò che tutte le stelle stessero ridendo.

Rumori nella notte

Rumori nella notte – di Chiara Bonechi

…non gli piacevano i rumori della notte…                                                                                                 

Sua moglie era partita per qualche giorno, accadeva raramente e lui non era abituato a rimanere da solo, non si sentiva a proprio agio nel silenzio della sua casa, niente cigolio di porte, niente tonfi di sportelli che si aprono e si chiudono, gli mancavano il rumore dell’aspirapolvere, gli squilli del telefono e le sue chiacchiere, senza di lei la casa piombava davvero nel torpore.

Era una sensazione strana a cui certo sarebbe sopravvissuto ma che si intensificava verso sera, quando la luce del sole si faceva lieve per lasciare spazio al crepuscolo e all’oscurità.

Aveva comunque deciso di gustarsi la casa apprezzando la solitudine, non gli dispiaceva sentirsi avvolto nel silenzio e muoversi nelle stanze che, come ovattate, gli apparivano perfino più grandi.

Una cena fugace, uno sguardo al computer, al giornale, una telefonata per rassicurare moglie e figli e poi finalmente spaparanzato sul divano alla televisione.

Il sonno arrivò prima del solito, forse era la noia di quella situazione che lo portò a letto presto.

Si rigirò una, due, tre volte, poi solo ascolto: una macchina che arriva, un cancello che si apre, un motorino che accelera e  voci di gente che si saluta con toni troppo alti per quell’ora della notte.

Tutto rimbombava, poi silenzio ma solo per un attimo.

Da sopra percepì un calpestio, leggerissimo, e poi un ticchettare, di sicuro erano i gatti nelle loro fughe notturne e poi un fruscio, forse si stava alzando un po’ di vento.

Basta!

Non gli piacevano i rumori della notte.

Si alzò e andò a bere.

L’Uragano sta soffiando

Ancora vento – di Rossella Gallori

L’ho adorato, cercato, sfidato, mi sono esposta, offerta…

Ho sempre amato il vento, mi piaceva stare in giardino, in via Cesare Guasti, con le gambe nude, la “sottanina corta” i capelli lunghi che perdevano la strada.

Mi piaceva lo Stibbert, quando le altre bimbe stavano a casa,  ed io ero padrona del tempo, del vento.

Mi piaceva il suo respiro affannoso, che mi rincorreva senza prendermi, alla Fortezza con i cigni spettinati.

Mi piaceva stare in piedi sulla panchina, nella mia strada, guardando le finestre vuote d’ amore, dove la nonna si nascondeva, dietro tendine di lino liso.

Mi piaceva, ci piaceva tenere, i finestrini aperti, all’ alba quando tirava il vento, nella nostra millecento,tu con i tuoi Rayban…io con gli occhialini da vista, che traballavano, sul mio viso innamorato, del vento, del babbo, delle trecce appena fatte, di un giorno che spazzava il cuore dalle incertezze …perché tu dicevi “ bella la mia bambina”

Mi piaceva, si, mi piaceva il vento.

Poi sono arrivati gli anni della paura, che non ho e non so accettare, anni di assenze e silenzi, di: ci sono ma non so per quanto, di: ho bisogno di te ma non per sempre, di:  se cadono gli alberi su di lei.. Se perdo la strada e confusa  non so tornare a casa…..se il vento spazza i miei amori …i miei affetti…i miei giorni migliori…..ed ancor peggio…se il vento cancella i miei RICORDI….

Sbattere la porta senza ritegno

Non voleva sentirla piangere e sbatté la porta senza ritegno – di Ivana Acciaioli

Sua moglie era in travaglio ormai da diverse ore e viste le due precedenti esperienze si immaginò  che il momento dovesse essere vicino.
Gli era sembrato di sentire un vagito, ansimava fermo dietro la porta,  il respiro corto per la corsa su per le scale, non vedeva l’ora, non vedeva l’ora di sapere e ansimava come un mantice.
Ecco sentiva il pianto ininterrotto, la levatrice aprì la porta ed annunciò: – È femmina!
La terza femmina… ero io.
E qui iniziano i racconti contrastanti: mia madre ha sempre affermato che mio padre sbatté la porta senza ritegno deluso senza neppure venirmi a vedere, mio padre invece  fermamente  sosteneva di aver chiuso la porta  in modo normale  e  di essere entrato ma un attimo  non riuscendo a sopportare di sentirmi piangere in quel modo strano,disperato;  in effetti piansi  per ore e non per il trauma di essere nata,  mi fasciarono e sfasciarono  più volte peggiorando ogni volta la situazione.
Era il 26 giugno, l’ultimo venerdì , il temporale estivo era stato violento , mio padre si  accese una sigaretta  ed  uscì, le ultime piccolissime gocce battevano sulla lamiera della capanna in giardino, tump,tic, plac, plunc, ancora era buio ma l’orizzonte si tingeva di rosa e pure la sua famiglia si era tinta di nuovo di rosa, scansò con la mano il fiocco azzurro sul tavolo, prese quello rosa, lo attaccò alla porta.
Salì di nuovo al piano di sopra, si tolse le scarpe  e proseguì  in punta di piedi in camera delle figlie per non fare il minimo rumore, era stata una notte lunga, nella stanza al buio si sentivano solo sospiri leggeri, per fortuna  non avevo disturbato il sonno delle mie sorelle.
Solo  dopo qualche giorno e molti pianti incomprensibili mia mamma si accorse che avevo un piede rotto.

***

Queste le frasi assegnate da cui si poteva scegliere un suggerimento per la storia:

Ho sbattuto la porta sulle mie rabbie- Ogni mattina le persiane cigolavano-Aveva voglia di raccontarsi a piene mani- Ti sembrerà che tutte le stelle stiano ridendo-Dietro di sé sentì un fruscio– Non gli piacevano i rumori della notte-Dietro la porta il suono di una musica dolce-Parlava piano per non farsi sentire-Ascoltò attentamente tutto il discorso. Era sicura di non aver sentito niente-Una tromba urlò in lontananza-Non voleva sentirla piangere e sbatté la porta senza ritegno-Si tolse le scarpe e proseguì in punta di piedi per non fare il minimo rumore-La sirena perforò i timpani dei curiosi-Era troppo lontano. Non riusciva a sentire cosa diceva. E allora si mise a guardarla-Nella stanza al buio si sentivano solo sospiri e battiti di ciglia-Non piangeva. Raccontava e basta.- Dal piano terreno saliva un rumore indefinito, un rotolare di ferraglia senza senso. -Non era possibile dormire. Dalla strada un fragore stratosferico, alternato a momenti di quiete angosciosa  peggiori dello stesso rumore.-Ansimava. Il respiro corto, la corsa su per quelle scale. Non vedeva l’ora. Non vedeva l’ora e ansimava come un mantice.-Piccolissime gocce battevano sulla lamiera del giardino. Tump, tic, plac, plunc……… Ancora era buio ma già l’orizzonte si tingeva di rosa

Echi di cattiveria

Il pozzo – di Mirella Calvelli

Il pozzo in mezzo alla grande aia era antico, ma ancora ben tenuto. Munito di carrucola, ben oliata, riusciva a portare su un secchio che conteneva oltre dieci litri di acqua.

Era delizioso guardarlo in movimento, soprattutto nelle sere d’estate, quel rumore gracchiante, intervallato dai respiri affannati , di chi era impegnato nell’impresa.

Divertente era sporgersi e gridare il tuo nome, che si sdoppiava numerose volte, prima di svanire…GIO GIO VANNAAA

E l’immagine riflessa sul fondo, non troppo profondo, tremolante, si incrociava con quella del cielo, mutandone colori e riflessi.

Il babbo amava portarmi li la domenica mattina, quando il sole era alto, ma ancora non troppo alto.

Profumava di buono, di brillantina Linetti, di barba appena fatta, la camicia ben stirata, giacca e cravatta, perché così amava definire la domenica.

Io stavo in braccio a quelle braccia forti  e sinuose, scolpite dal lavoro di falegname iniziato a poco più che bambino.

Ma quel misto di odori, di pulito e di bontà!. Mi adorava mio padre, come nessuno mai, l’ho sempre capito dal suo sguardo intenso, dai suoi occhi grigi che mi guardavano nel profondo.

Ricordo il mio vestitino di sangallo, cucito dalla mamma, ma forse più che un ricordo, lo sono le foto ormai sbiadite.

Avevamo un sorriso raggiante, il mio di gioia il suo di orgoglio.

Mi sporgeva su quel pozzo e io fra il divertito e lo spaventato mi avvinghiavo al suo collo.

Poi con gli anni quel pozzo si è seccato, nessuno ha avuto più bisogno di quell’acqua preziosa e si sono potute intravedere le fondamenta, prima umide e poi completamente asciutte.

Così era stata la mia fanciullezza, allegra e spensierata, intrisa di sogni e progetti, espressi con lo sguardo a quello specchio d’acqua circolare. Le margherite “spennate” e lasciate volare laggiù, nel tentativo di richiamare l’amore del personaggio di turno.  Laggiù sul fondo avevano trovato la morte, qualche malcapitata lucertola o topolino, che annaspavano faticosamente nel tentativo di uscire dall’acqua. Ma le impietose e sdrucciolevoli pareti li riportavano al loro amaro destino.

***

Non interessava più a nessuno, sfidare la sicurezza e salire sul bordo,  per poi dondolarsi con la carrucola.  Il vecchio secchio era rimasto riverso sul fondo, le pareti ospitavano qua e là fra le pietre  qualche mammola ed erba spontanea.

Così anche lei giovane donna aveva accolto le dichiarazioni e le speranze su quel bordo, dondolando pigramente le gambe fra la noia, l’imbarazzo e la gratificazione.

Aveva accettato lusinghe e proiezioni, perché lì su quel pozzo, tutto era speciale.

Li c’erano state risa e confidenze, baci e sussurri.

Poi una sera una decisione importante era stata presa e aveva provato a gridare il nome soffocato in quel cunicolo buio, ormai vuoto.

Avrebbe dovuto intuire che quelle non erano grida di gioia, non erano le grida della domenica mattina, non erano le spiegazioni semplici, ma dettate dal cuore, da chi ti ama, erano altro.

Aveva pensato inconsciamente che avrebbe ritrovato in quel giovane uomo la forza, la grazia e il rispetto di suo padre. Si  tuffava in quei grandi occhi, marroni, ma non erano stati sinceri.

Il tempo ha giocato la sua partita e lei con lui e con loro.

La sua vita come il pozzo, l’aveva sfidata, era fiera eretta sul bordo, pericoloso, le avevano sempre detto, suggerito e implorato.

Ma lei aveva sempre amato le sfide, perché i suoi ricordi erano tutelati, i suoi errori erano stati accolti, capiti, l’avevano sempre sorretta e il pozzo non le faceva paura.

Il tempo scorreva implacabile, era mosso da intenzioni, capitolazioni e si ….arrese.

Si arrese perché credeva che quella fosse la soluzione giusta, perché tutti quelli che l’amavano, soprattutto i piccoli contavano su di lei.

E allora accettò che il viso si schiacciasse sulle pietre del bordo, premuto con forza, che le parole d’amore si trasformassero in offese e biasimo.

Lei parlava, parlava, parlava, come aveva sempre fatto e le sue parole rimbombavano con la forza dell’eco.

Poi la voce divenne leggera, ma non leggiadra, si assopì. Il pozzo non riusciva più a fare da cassa di risonanza e le parole tornavano indietro nella gola, nessuno sapeva più ascoltare.

Provò a scendere nel pozzo, grazie a quelle pietre sconnesse che formavano degli scalini circolari e si adagiò sul fondo.

Di laggiù il cielo non era ampio, ma piccolo circolare e lontano.

Non accoglieva il nuovo, ma stringeva il vecchio. Portava a pensare all’incapacità di uscire a combattere.

Laggiù era fresco, nessuno l’avrebbe trovata.

Avrebbe potuto gridare, ma a chi e cosa? Avrebbe potuto risalire, ma per chi, per che cosa?

Poi quando la sua testa si appoggiò sulle ginocchia e le braccia le abbracciarono, fu scossa da qualcosa di molliccio che le aveva colpita  proprio li, sulle braccia.

Si voltò di scatto e vide la piccola lucertola impaurita che schizzava da una parte all’altra delle pareti cercando una via di fuga.

Si ricordò allora della sua incapacità di reazione, di aver permesso che qualcuno decidesse per lei, che volesse a tutti i modi farla sentire in colpa, inadeguata.

Ma lei non era questo, lei non poteva seppellirsi laggiù. Lei era quella che aveva giocato, sperato e riso, lassù.

Che si era ferita e medicata con un semplice soffio.

Lei in quel tunnel non voleva starci. Laggiù dove chi con tanta maestria, quasi per mano l’aveva indotta, spinta. In fondo le aveva fatto un piacere, le aveva dato la possibilità di un altro punto di vista, non contagiato dagli aspetti esterni. Laggiù sola con se stessa aveva preso la sua decisione, sarebbe risalita, con tutte le difficoltà della scalata. Con i rimproveri e le avversioni da chi si era allontanata senza preavviso.

Ma in fondo lei si era già allontanata da tempo per sfuggire alle ingiurie ipocrite, di chi probabilmente aveva pensato di poterla strumentalizzare a suo piacimento, accusandola di fatti che non aveva mai commesso. Pensati si, con insistenza per scappare, ma eseguiti mai!!!

Adesso risalendo le irte mura aveva chiaro cosa fare e dove andare. Rimise il piede in terra e con lo sguardo cercò la sua compagna di sventura, la prese, lei le morse un dito, lei se l’infilo nel taschino.

Stranamente il piccolo rettile si placò, intuendo forse una via di salvezza oppure una morte sicura.

Salirono faticosamente, perché salire è sempre più duro che discendere.

Ma uscirono che ancora non era buio. Liberò la piccola che schizzò via quasi saltando. Le parve però che a metà dell’aia si voltasse, quasi come se la volesse ringraziare di quell’inaspettata libertà.

Arrivare a casa, fu un attimo.

Il resto, le parole i gesti furono immediati e liberatori.

Anni di prigionia si dissolsero in pochi istanti, proprio perché prima si era calata nella sua “prigione”.

 Tutti rimasero allibiti, perché pubblica fu la decisione.

Ma tutti capirono vecchi e bambini.

 Solo lui il carceriere, non si rese conto di quello che stava accadendo, si ribellò inveì, minacciò. Ma lo sguardo dei suoi figli, gli rimase impresso addosso, come due lance di fuoco.

Alla fine tante miserevoli azioni si conclusero con un paio di valigie fatte scivolare in silenzio fuori dalla porta, al mattino molto presto, prima che la casa si rianimasse dei rumori della giornata.

Chiudendo quella porta un sorriso e un senso di benessere la pervasero .

Mentre riorganizzava la sua vita, volse lo sguardo al calendario: 19 marzo…la festa del papà, sicuramente quella del 2003, non l’avrebbe mai dimenticata!!!

Mentre io non dimenticherò mai tutte le altre, nel ricordo del mio babbo, anche lui falegname, anche lui semplice e profondo.

Battere… e risbattere la porta

Ho sbattuto la porta sulle mie rabbie… – di Rossella Gallori

Scardinata e pesante mi è caduta addosso, un tonfo sordo, son volate mille schegge impazzite, che han ferito la mia  anima.

Lo sapevo.

Non ti ho telefonato io, so solo che sei arrivata ed in un attimo di tregua tra il vomito e le lacrime, ti ho chiesto chi ti aveva avvertita…

Lo sapevo.

Ho avuto una risposta improbabile, alla quale ho voluto credere, leniva le ferite, toglieva il bruciore agli occhi.

Lo sapevo.

Fazzoletti ed affetto, amica mia, non fermeranno le mie rabbie, non mi insegneranno a schivare ante impazzite.

Lo sai…

Continuerò a credere che un lampione sia la luna…

Una voce, amore.

Un libro un bacio.

Due parole, una carezza

Una telefonata, un sogno.

Lo sappiamo.

Tu  ci sarai, senza indirizzi di bravi falegnami, senza insegnarmi a riparare usciate violente…senza consigli che non capirei.

Lo so…..lo sappiamo.

Da un momento all’altro risbatterò la porta che mi cadrà ancora addosso…mi farò meno male…sarò più forte quando ti dirò grazie…..

Il richiamo della foresta

Il richiamo della foresta – di Cecilia Trinci

Quella sì, la poteva dominare. Poteva conoscerne i sospiri, le vibrazioni, i sussulti. Prevederli, anticiparli.

Tenendola stretta con le mani, abbracciata tra le gambe sapeva esattamente quanto e cosa poteva chiederle. Lei rispondeva. Chiedeva molto poco e solo su domanda. Non avrebbe mai raggiunto la porta per andarsene da sola. La mattina sarebbe stata sicuramente lì, senza ombra di dubbio, nella sua stanza dedicata e buia. Non chiedeva vestiti  né aveva bisogno di parole. Quando partiva era senza limiti, non si fermava mai prima della meta. Il rumore del vento che le risuonava dentro faceva crescere l’esaltazione della corsa. Lucida, serena, vibrante. Senza bagagli. Non ne aveva bisogno. Un bauletto stretto, senza lacci con poche cose rigorosamente essenziali. Era facile, per lui, esser orgoglioso di averla con sé, vantarsene come di un successo costante. Non c’era amore infatti, tra loro. L’amore non corre e non ha fretta, è lentezza e pazienza. E’ come il mare: pericoloso e immenso, bellissimo quando è calmo, terribile in tempesta. Bisogna conoscerlo e saper conoscere il vento e le maree, saper tenere la rotta e sapere dove andare. Anche con i figli, anche con i bambini. L’amore è stare in equilibrio sulle onde. Ma con lei bastava scendere le scale, abbracciarla, accarezzarla un po’ e poi andare per monti e per valli, per città e per campi, guardare sempre avanti e poi fermarsi e dire scoppiando dentro:  “Come sei bella! Che animale perfetto!” per poi abbandonarsi ad  osservare  con orgoglio infinito  le curve dell’orizzonte, le pieghe dei tornanti, le cupole delle cattedrali. Gli bastava per essere felice. Sentirsi parte di un infinito a sua misura, di un mondo immenso fatto di cose.

Non chiedeva, lei, di condividere pensieri, di concepire parole elaborate, di sognare sui bordi di quelle strade polverose un minimo di futuro che fosse appena appena più evoluto. Non chiedeva bambini da cullare, da portare a scuola, da medicare dopo le sbucciature, da consolare per un’enorme banale delusione. Bambini da ascoltare con le loro difficili magie.  Da lasciare quando fossero diventati grandi. Non cresceva. Non cambiava aspetto. Non aveva rughe. Non conosceva dolore. Chiedeva solo un po’ di manutenzione, un cambio d’olio ogni tanti chilometri,  il controllo  di quelle due ruote così grandi, l’allineamento del manubrio essenziale per tenere la strada.  E tanta benzina, quella sì, per non fermarsi lungo la strada inerte e sudata ad aspettare la tanica provvidenziale. Tanta benzina, facile da comprare.

Senza piangere

Non piangeva. Si raccontava e basta – di Gabriella Crisafulli

Se ne stava seduta al sole bruciante circondata dalle Dolomiti. L’atmosfera era quella allegra di sciatori in una malga ad alta quota. Lei guardava tutto: i camerieri che servivano, le persone che chiacchieravano, il panorama strepitoso. Era in cima ai monti avvolta da una natura incantevole ma si sentiva preda della malinconia. A giorni sarebbe stato il suo compleanno e misurava i danni che aveva fatto nel tempo.

Fin dalla nascita aveva bevuto virtù a cucchiaiate con il risultato di cercare errori e vizi negli altri. Era stata fiamma ossidrica per chi la circondava perché si incistava nelle loro vite. Peccato. Sicuramente qualcosa di positivo doveva aver pur fatto, ma non veniva ricordato e chi la circondava era ostaggio dei propri vissuti. Così le si avvicinavano con prudenza, in dosi omeopatiche.

Si strinse nella pelle accaldata dal sole.

Non piangeva: si raccontava e basta.

Aprì il libro che teneva in mano e cominciò a leggere.  

Sei felice?

LA PORTA BATTUTA CON RABBIA – di Carla Faggi

Quando vengo a trovarti riesco ancora a vederlo quell’ammacco alla porta, forse sono gli occhi del ricordo, forse il dolore che è rimasto ancora lì, ma il pugno rabbioso che tirasti alla porta di cucina sanguina ancora.

Era la ribellione alla tua malattia, alla mancanza di vita, alla paura degli altri, ma soprattutto alla consapevolezza di non essere te stesso.

Eri appena adolescente ma già avevi paura del mondo, ti sembrava che gli altri parlassero di te, che ti guardassero sempre. Depressione, ansia, fobie, sindrome mista l’avevano chiamata.

Ora è passato tanto tempo, ragazzo mio, e stai meglio, molto molto meglio.

Ma non sei più un adolescente, hai cinquanta anni.

-Sei felice? ti chiedo.

-Forse, mi dici.

Urlare in silenzio

Non amore – di Vanna Bigazzi

Aveva dodici anni quando nacque Ivana, ormai era certa che sarebbe rimasta figlia unica e quella bambina inattesa da tutti fu proprio un” fulmine a ciel sereno” per Laura. Non capiva che corso avrebbe preso la sua vita e quella dei suoi genitori in seguito a quell’evento. Altro che “fulmine a ciel sereno”, una voragine senza fine si aprì nel suo animo…

Già era stata allontanata dai genitori negli anni della guerra. Per proteggerla, l’avevano affidata ai nonni che abitavano una bella palazzina di campagna, lontana dai pericoli.

Laura viveva i suoi nonni come un surrogato. Nonostante facessero di tutto, rappresentavano per lei degli usurpatori d’amore, per questo non concedeva loro una briciola del suo affetto. In quegli anni i suoi andavano a trovarla ogni fine settimana, le portavano regalini e dolcetti per quanto, all’epoca, difficilmente reperibili; una volta persino un dolcissimo canarino. lei sempre scontrosa ed irritata. Non riusciva in quei due giorni di festa a non far pesare il suo scontento. Le foto dell’epoca la ritraevano sempre imbronciata. Sua nonna per farla sorridere le cantava sempre una canzoncina:” E l’ uccellino, su quell’ ulivo…” nessuna reazione. In segreto Laura confessò alla mamma che odiava quella filastrocca e odiava anche la sua nonna quando la cantava. Fu in uno di quei fine settimana che i suoi, giungendo alla palazzina con un’auto d’ occasione acquistata appositamente per fare quel tragitto che li separava dalla figlia, si preoccuparono moltissimo nel vedere la nonna che li attendeva trepidante fuori dal cancello. “Mamma, cosa è successo” gridò Maria.

La nonna piangeva quasi: “Non ho il coraggio di dire niente, venite a vedere…” Li condusse sotto la loggia e mostrò loro un brandello di carne simile ad una piccola salsiccia depositato in un angolo, sopra il tavolo; accanto qualcosa di giallo non bene identificabile, di lato la gabbia deserta esprimeva solitudine ed abbandono…