Stivali e foglie secche

Stivali rossi tra le foglie – di Roberta Morandi


È  una splendida giornata di fine estate, quasi autunno, quando l’aria è più  fresca ma non ancora frizzante, il cielo è  di un rosso pacato, non violento, che quasi vorresti affondarci le mani. È quel momento in cui le foglie dei platani non sanno se staccarsi e planare delicate a terra o aspettare ancora un poco. 
Ecco, il viale è già pieno di foglie di tutte le sfumature del rosso e dell’arancio, e altrettante sono ancora attaccate, ed altre ancora sono lì,  appese, in attesa di un soffio di vento che aiuti la loro incertezza.
Una ragazzina coi suoi stivali rossi, beata di quelle scarpe di gomma tanto attese con cui può  scalpicciare ovunque senza paura di sciuparle, osserva pensierosa quel tappeto di foglie ai suoi piedi, pronto per essere pesticciato e sparpagliato. Si muove e inizia piano piano a smuovere quelle foglie tirando dei calcetti, ma piano, senza fretta, assaporando ogni gesto; il rumore le piace e la interessa, allora prova a scalciare più forte e via via si lascia prendere la mano, anzi il piede, dall’emozione immensa di correre scalciando quelle foglie rosse e non ancora morte, provocando quello stropiccio (ci vorrebbe un accento sulla i ma non lo trovo). E corre, e scalcia, e le foglie scivolano sotto i suoi piedi.
Poi di colpo si ferma. Davanti a lei due grosse scarpe e una ramazza. Un omone in  tuta gialla le sta davanti  con le braccia conserte, e la guarda.


Fruscìo di pannocchie

Nel campo di granturco – di Nadia Peruzzi

Nel campo le pannocchie erano una punteggiatura di giallo. Toni caldi, colore  su colore. Le foglie un po’ riarse sfrigolavano ad ogni tocco. Cercare un sentiero in mezzo a quella distesa, era quasi impossibile, eppure era necessario.

Laura aveva un appuntamento in quel pomeriggio assolato. Luca la aspettava al vecchio pioppo, l’unico che aveva una piccola radura tutto intorno.

Era il loro posto segreto. Era difficile da trovare in quel mare di mais che arrivava così in alto da coprire la luce del sole una volta che ci si era immersi dentro.

Era in ritardo Laura, come sempre. Così ora le toccava correre facendosi spazio con le mani per allontanare le grandi foglie. Foglie fra i capelli, foglie attaccate alle vesti a strattonarla, foglie che si rompevano in mille pezzi una volta che le scarpe le sfioravano o le schiacciavano.

Non fu facile arrivare a destinazione.

Il sentiero, già stretto, spesso lo perdeva ed era costretta a fermarsi, cercando un altro varco per poi ripartire con passo lesto.

Ad un certo punto avvertì lo stesso rumore arrivare dalla sua destra. Un fruscio, uno sfrigolio, un macinare di foglie secche, come quello che aveva accompagnato la sua corsa.

Capì che anche Luca stava arrivando e non era così lontano dalla radura.

 Lo immaginò ansante, sudato e con quel suo ciuffo castano incardinato in mezzo al blu profondo dei suoi occhi, mentre si sedeva per riprender fiato appoggiandosi al tronco.

Con emozione pensò ai momenti che avrebbe trascorso con lui .  

Il vecchio pioppo, dall’alto, avrebbe osservato paterno i loro baci appassionati.

Caffè d’orzo

La Fata anziana – di M.Laura Tripodi

Arrivava puntuale, alle dieci del mattino.

La signora, che non a caso si chiamava Regina, bussava con un segnale convenzionale: toc toc, toc-toc-toc. I primi due toc distanziati, i secondi tre ravvicinati. Così si sapeva che era lei e anche io avevo il permesso di aprire la porta.

Da sfollata, anche se molto facoltosa, aveva dovuto adattarsi all’assegnazione di una casa popolare, proprio quella di fronte alla nostra, sullo stesso pianerottolo.

Era accompagnata dallo svolazzio e dal fruscio di una vestaglia rossa a piccole fantasie gialle, credo fosse di seta. Ai piedi un paio di  pantofole con il tacco e un ciuffo di marabù sul davanti.

Avrei dato non so cosa per impossessarmi di vestaglia e pantofole.

Regalava alla mamma il quotidiano che aveva già letto. Sulla pagina della cronaca c’era passo passo il processo Raoul Ghiani- GianniFenaroli: un fattaccio relativo all’uccisione di una donna. 

La mamma tifafa spudoratamente per l’imputato Ghiani che invece fu condannato all’ergastolo. Leggeva sempre con molta attenzione l’evolversi dell’istruttoria e se c’era il babbo lo faceva a voce alta, per commentare con lui.

A me piaceva stare ad ascoltare.

La signora arrivava accompagnata anche da una scia di profumo, con il rossetto sulle labbra, le unghie laccate e le dita  inanellate.

Io notavo un gran sbrilluccichio, ma avrei realizzato molto tempo dopo che con uno di quei brillantini la mia famiglia ci avrebbe campato per un bel po’. E comunque ero molto più affascinata dall’insieme. Avrebbe potuto sembrare una fata anziana, ma io sentivo sempre un certo disagio quando entrava a casa mia. Come se la differenza fra la mia realtà e quella che lei impersonava si tramutasse in un abisso colmo di diffidenza.

Lei si sedeva, tirava fuori il pacchetto di Nazionali e si accendeva una sigaretta. Ho ben impresso nella mente quanto brillassero i suoi anelli quando strofinava il cerino sulla scatola.

Quel personaggio faceva parte del mio quotidiano, ma era lontano da me anni luce e lo vivevo ogni mattina come qualcosa di incomprensibile e straordinario.

Lei andava dalla pettinatrice (chiamava così la parrucchiera) una volta a settimana, aveva la sarta che le cuciva i vestiti (a Fiesole. A volte portava anche me), la lavandaia che le lavava i panni (la Serafina), era separata dal marito e quando usciva aveva in testa sempre un gran cappello. Anni cinquanta: un altro mondo.

Lei però non era spocchiosa. Faceva pesare la sua differente condizione quel tanto che fosse percettibile, ma non offensivo. A me e mia sorella qualche volta faceva dei regali.

Ricordo quel Natale quando con gli occhi spalancati aprimmo quel pacco che conteneva due ombrelli identici, di quelli con gli spicchi colorati. Non so quanto tempo siamo state a scrutare il cielo sperando che piovesse. Ai miei fratelli che erano molto più grandi di me,  prestava spesso i gialli Mondadori e le settimane enigmistiche con ancora qualche cruciverba da fare.

A volte ci invitava a vedere la televisione, ma dovevamo portarci le sedie da casa.

La sua, di casa, era uno spettacolo. Io ho un ricordo molto preciso del mio disagio: mi sembrava che come mi fossi mossa avrei fatto danno, che io ero quanto di più fuori posto potesse esserci in quell’ambiente.

Però la mia era  una famiglia molto modesta, ma tre volte tanto dignitosa. Credo che questo sia stato un dogma che mi ha accompagnato per tutta la vita: modestia, coraggio, onestà, testa alta e si va avanti.

,…………E comunque la signora Regina, tutti i giorni, alle dieci in punto del mattino, bussava alla nostra porta per gustare il caffè della mamma fatto di orzo mescolato a Vecchina.

Carta che scricchiola

Regalo di Natale – di Sandra Conticini

Tutti gli annivicino a Natale la solita storia… Voglio fare il cesto natalizio con caramelle cioccolate e dolci vari per i bambini poveri della parrocchia, ma quel foglio di cellophane trasparente mi fa sempre arrabbiare,  non sta fermo, si muove e scappa da tutte leparti.  Lo accortoccio, faccio una palla e lo butto via. Ne prendo un altro sperando di avere più fortuna, ma dopo averlo piegato varie volte e sgualcito decido di buttare via anche questo, chè sembra un dono riciclato. Al terzo tentativo andato male, decido di mettere tutto in una busta di carta colorata, con un bel fiocco rosso e di portarlo così, tanto sia bambini che adulti guarderanno il contenuto e non la confezione!!!

La voce nella radio

La Lola – di Rossella Gallori

Il gruzzoletto era lì, malcelato dall’unico paio di calze di pizzo bianche, accanto al sottabito di nylon nero, tanto simile a quello della mamma, erano il  frutto del mio lavoro, a 15 anni lavoravo già da un anno e quel poco che avevo mi sembrava tanto,  ma l’ importante era che fosse sufficiente.

Quindi avevo deciso di farlo…e lo feci; mi informai da colleghe più grandi, chiesi in giro, San Lorenzo, era un mondo a parte, un mondo che io poco conoscevo, ma della Lola parlavano tutti, proprio tutti, dal barrocciaio, alla contessa…la Lola era una sensitiva, cioè dicevano che lo fosse. A  me,sinceramente sembrava più  una prostituta di terzo livello, messa in pensione dopo lunga  ed intensa attivitá, ciondolava su alte scarpe di vernice verdi, dal tacco rivestito di pelle mangiucchiato dalle pietre dei vicoli, un cappotto di casentino bianchiccio, stretto in vita da una cintura piatta e larga a mò  di vestaglia, al collo una macabra stola di pelliccia intignata, con una testa di volpe dall’ occhio di vetro, completava la “mise” un cappello di feltro nero, con la penna rossa….no, no non era invitante, la Lola, ma di lei si raccontava tanto, per lo più si parlava del suo mettersi in contatto con i morti attraverso un’ immensa radio.

Andai, con le gambe tremanti, il cuore in gola, avevo chiesto un paio d’ore libere…una visita medica come scusa, e la certezza che con i soldi ce l’ avrei fatta, volevo risentire la sua voce, il colore del suo amore per me, avevo paura di dimenticarlo, quel babbo amato, non avevo avuto il tempo di salutarlo, di dargli un bacio, erano passati già più  di cinque anni. Ì soldi nella tasca della gonna di jeans, la speranza nella mia testa…feci gli scalini a due a due e non vedendo il campanello, bussai …l’ odore di minestrone era forte, il buio era pesto, pesante, forse le persone erano tre o quattro, una lama di luce filtrò dalla porta cigolante, ed apparve ĺei, struffellata   e diafana, per magia la radio si accese…..smisi di respirare ed ascoltai…quanto gracchiò quella radio, sembrava sputare, non trasmettere, ogni tanto si  udivano frasi sconnesse e sommesse, no la voce non era quella del mio babbo…no capii che l’ avrei riconosciuta tra milioni…

Quanto costò la Lola, e quante lacrime versai, quando mi sembrò di riconoscere nel secco fruscio, la voce del Semboloni, il ganzo della Lola,  lattaio di via Dell’ Amorino…piansi sulla mia stupidità, sulla mia ingenuità, sulla mia solitudine di adolescente, rividi i miei fogli da mille affogati nel seno della  Sensitiva e piansi, piansi ancora…..

Schiuma

AUTO – LAVAGGIO – di Laura Galgani

Si era persino messa gli stivaloni da pioggia, quelli neri di plastica, per dare l’impressione di voler fare sul serio. I gettoni erano caduti nella monetiera con un rumore sordo, e lei aveva meccanicamente premuto i pulsanti per il primo step: acqua e sapone.

La lunghissima e steccuta lancia metallica, fredda e sottile, moderno animale sputacchiante, aveva iniziato a rumoreggiare buttando fuori un getto d’acqua saponosa, che con una considerevole forza andava ad infrangersi sulla carrozzeria della sua auto sporca, fangosa. Teneva la lancia sfoggiando convinzione e determinatezza, quasi professionalità: prima il parafango di plastica, poi il cofano inzaccherato dalle deiezioni appiccicose degli storni, poi il parabrezza lurido di polvere dello sterrato di campagna, il tetto stondato, il lunotto posteriore e giù, fino al paraurti.

Ci metteva una gran lena a dirigere quel getto d’acqua grigiastro e bolloso. Troppa. Via via che passava e ripassava sulle varie parti dell’auto non poteva fare a meno di accompagnare ogni gesto con un gemito di fatica, che però non era solo quello; era anche rabbia. Sì, rabbia. Impotenza, rabbia, dolore. In quella macchina si erano amati, tante volte. Oramai, quanto tempo fa? Prima con tenerezza, poi con passione, alla fine per abitudine. Cercava, con quella schiuma, grigiastra e mutante, di cancellare i ricordi, ma non era facile. Soprattutto, cancellare i lividi dalla sua pelle e dalla sua anima le riusciva davvero impossibile.

Non si rese conto che i gemiti di fatica erano diventati gemiti di dolore, acuti, forti. Piangeva, senza nemmeno saperlo. E continuava a dirigere quel getto d’acqua sulla lamiera, sui vetri, sulle ruote, per cancellare il passato.

D’improvviso il getto si fermò, l’animale metallico si fece silenzioso.

Lei si sorprese ad ascoltare lo sgocciolio dell’acqua sul cemento. Tirò su col naso, le lacrime salate se le sentì in bocca, e le fecero piacere. Pensò che con l’auto pulita valeva proprio la pena di andare da qualche parte, fare un viaggio dove avrebbe sempre voluto. Da sola, però. 

Radio e amicizia

Incontri – di Chiara Bonechi

Si ritrovavano il sabato sera, erano un gruppo di amici affezionati.

La casa che li accoglieva non era sempre la stessa, cambiava secondo la disponibilità di ciascuno, si offriva caffè, dolcetti e vini liquorosi.

Era diventata un’abitudine molto bella, impegni diversi che potevano capitare venivano collocati possibilmente in altri giorni della settimana perché nessuno voleva rinunciare al rito del sabato sera.

Quella volta l’incontro fu fissato in casa di Lina per ascoltare storie lette alla radio.

Nella sua ampia taverna aveva conservato un vecchio apparecchio, un parallelepipedo ingombrante, in legno marrone con tasti dorati.

“Prima metto il caffè” disse, “poi ci mettiamo in ascolto”.

La serata si preparava diversa, poteva sembrare un evento come ai tempi dei nonni.

Intanto le chiacchiere fra amici creavano un certo brusio, poi quel rumore inconfondibile che dalla moka si sprigiona insieme al profumo del caffè, li pose in attesa.

Che buono il caffè!

Il suo sapore rilassa e, mentre si gusta, prepara all’ascolto.

La vecchia radio viene messa in funzione, un mano sicura cerca la stazione, è il momento dei racconti ma si sente solo un fruscio, la manopola viene mossa a più riprese, il cursore scorre, si passa da una stazione all’altra, il fruscio non cessa e si alterna ad uno scoppiettio.

Qualcuno non si fida, vuole provare e riprovare, è difficile arrendersi e rinunciare dopo l’attesa.

La stazione non si trova, il fruscio continua, lo scoppiettio pure e la storia per quel sabato è svanita.

Bazar

Potere del potere – di Carla Faggi

Mia madre aveva un negozio bazar dove vendeva un po’ di tutto, anche giocattoli.

Sono quindi nata e cresciuta in un negozio di balocchi.

Inutile dire che la supervisione la facevo sempre io!

La preferenza la davo alle bambole, quelle con i capelli lunghi e morbidose,  bambole che non avevano età.

Poi arrivò Cicciobello, bambolotto bebè e poi la Barbie, bambola adulta.

Non mi piacevano, preferivo le bambole bambine.

Adoravo pure i camioncini, i trenini e le locomotive di legno. Tutti da trainare.

Da bimbi imparavamo a camminare, poi a trainare e poi a costruire con il lego.

Poi arrivarono i trenini e le macchinine di latta ma con il motore a batteria. Già non mi piacevano più.

Non dico la mia disapprovazione quando arrivò jeeg robot e gli eroi di guerre stellari!

Però erano pubblicizzati dalla tv e andavano a ruba, con grande gioia di mia madre e mio notevole disappunto.

Durante il carnevale il negozio vendeva bombettine, manganelli, maschere e coriandoli.

Non ho mai amato il carnevale, non mi piaceva mascherarmi e avevo paura delle bombettine e delle manganellate. I maschietti a quell’epoca erano tremendi, se ti prendevano di mira ti massacravano.

Io però ero abbastanza fortunata perchè se mi riconoscevano dicevano: no, a lei no! sennò non ce li vende più!

Eh già! Potere del potere!

I privilegi di chi conta!

Comunque continuo a non amare il carnevale, troppa confusione, troppo caos! In fondo io sono una light…e come dico sempre…delicata e fragile!