Ansimare

… E ANSIMANDO …- di Laura Galgani

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C’è una siepe fitta fitta e ci infili il muso, per capire chi è che ansima come te. Il buio si fa ancora più fitto in mezzo ai pruni, alle foglie e alle piccole bacche rosse della siepe. L’odore che percepisci non mente: al di là di quella siepe c’è una femmina, c’è desiderio, c’è istinto dirompente.

Torni indietro di qualche passo, vuoi essere libero di muoverti. Devi trovare un varco, oppure aggirare la siepe e individuare un passaggio là dove questa finisce. Perché finirà, prima o poi!

Ti giri a sinistra e corri lungo la siepe. Al di là di questa anche la femmina ansima e si muove, in parallelo con te. I respiri prendono lo stesso ritmo, simmetrici come i passi che ormai si fanno corsa. Improvvisamente la siepe gira a destra, ad angolo retto, costringendoti ad una brusca virata. Anche lei, di là, gira quasi su se stessa e prosegue la corsa. La siepe finisce, si alza un cancello di metallo. Il desiderio di incontrarsi cresce, ansimate sempre più veloci, e la voce esce fuori in un lamento sofferto. Il cancello vi separa, ma non del tutto. Almeno il muso passa, fra una sbarra e l’altra, e vi potete scambiare un tenero bacio.

Ricordi sonori alla rinfusa

Ricordi sonori alla rinfusa – di Stefania Bonanni

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Ricordi alla rinfusa che si intrecciano e rincorrono, popolando ore lunghe e silenziose.

Tornano in mente persone e cose, dimensioni diverse.

Cose colorate, ricordi di vestiti allora alla moda. Fatti di stoffe lisce e scivolose, o di lane ricamate con fiori gonfi al tatto. A occhi chiusi si indovinavano i fiorellini su quelle che sarebbero diventate vestine di cotone abbottonate davanti, o i fiori damascati su tailleur da festa grossa. Ricordi tappezzati di colori, trama di stoffe, ma anche di rumori.

Di quello prodotto da quelle forbicione che la Maria impugnava infilando il pollice nell’occhiello di sinistra, e poi stringendo con il palmo intero della mano, quando affondavano nella stoffa inseguendo le tracce morbide ed un po’ sfumate del gesso bianco. Facevano un suono secco e poi scivolato, ogni tanto il metallo delle forbici inciampava sul tavolo, come a dare il tempo, per il resto era un rumore frusciante, scivolante, scivoloso, sciacquato. La sarta come lo scultore, a dar vita a quello che prima di lei non esisteva, tirando fuori abiti su misura da materia piana e senza dimensione.

Poi, lunghe gugliate approssimavano quello che sarebbe diventato vestito perfetto e le punte d’argento di migliaia di spilli stringevano, per dare l’idea, senza presunzione definitiva. La Maria teneva gli spilli dentro una scatolina grigia di metallo e quando cascavano si spargevano brillando sul pavimento di mattoni rossi, con un bisbiglio vivace, simile al ghiaccio che si spacca, un crepitio allegro e punteggiato, croccante. Quando li appuntava addosso, durante le prove, li teneva tra le labbra, gli spilli. Per questo non mi hanno mai molto stupito fachiri e mangiafuoco. La Maria si, era stupefacente. Mi sono chiesta spesso cosa sarebbe successo se le fosse venuto un colpo di tosse. Ma non è mai accaduto. Non durante le prove alle quali ho assistito io.

Prove segrete, super segrete. Solo la sarta conosceva le misure di signore che neanche dal dottore restavano in sottoveste.

Poi, il vestito arrivava a casa. Un pacco ricoperto di carta velina bianca, fermata anche quella da spilli, ma non stretto, tutto rimaneva gonfio, con la carta fine che lasciava entrare aria e che dava l’idea che dovesse essere delicato e leggero anche il gesto di chi apriva il pacco.

La carta parlava, scricchiolava, emetteva dei piccolissimi gemiti striduli ma gioiosi. Apriva la strada allo stupore della scoperta del vestito nuovo. Profumava anche, quella carta velina. Forse era il borotalco che stava nella scatolina degli spilli, perché non arruginissero.

Forse l’attesa, lo stupore, la gioia, profumavano. E suonavano a festa.

 

Voce

E sento anche...il suono di una voce nel cuore

Da: Sotto il sole giaguaro di Italo Calvino

 “Quella voce viene certamente da una persona, unica, irripetibile come ogni persona, però una voce non è una persona, è qualcosa di sospeso nell’aria, staccato dalla solidità delle cose. Anche la voce è unica e irripetibile, ma forse in un altro modo da quello della persona: potrebbero, voce e persona, non assomigliarsi. Oppure assomigliarsi in un modo segreto, che non si vede a prima vista: la voce potrebbe essere l’equivalente di quanto la persona ha di più nascosto e di più vero. E’ un te stesso senza corpo che ascolta quella voce senza corpo? Allora che tu la oda veramente o la ricordi o la immagini, non fa differenza.

  Eppure tu vuoi che sia proprio il tuo orecchio a percepire quella voce, dunque quel che t’attira non è più solo un ricordo o una fantasticheria ma la vibrazione d’una gola di carne. Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci.

Una voce mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore. Ciò che ti attira è il piacere che questa voce mette nell’esistere: nell’esistere come voce, ma questo piacere ti porta a immaginare il modo in cui la persona potrebbe essere diversa da ogni altra quanto è diversa la voce.”

 

La pasticca

La pasticca – di Laura Galgani

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La vedeva lì, piccola, insignificante, lattiginosa, quasi si confondeva col colore del tavolo di cucina. Ce l’aveva messa senza nemmeno toccarla, perché non l’amava, no, per niente. Dopo averla lasciata cadere dal blister di plastica aveva subito fatto due passi indietro, senza voltarsi, alzando lo sguardo verso la finestra. Il sole stava sorgendo, e i suoi primi brillanti raggi scavalcavano già il profilo blu delle colline, là in fondo. Il disco dorato del sole però ancora non si vedeva. Stava ferma, senza respirare. Ad un tratto, un raggio di sole colpì la piccola sfera di cristallo appesa con un filo viola in cima alla finestra, e la luce si scompose nei colori caldi dell’arcobaleno, che iniziarono a riflettersi in piccoli segni che fluttuavano ovunque sulle pareti, sul pavimento, sul tavolo, sulla specchiera, ed anche sul suo corpo febbricitante. Allora lei si sentì come sollevata verso il cielo, verso una dimensione di pace e di luce, e si lasciò andare. La pasticca rimase lì, sul tavolo, inutile, fredda. Lei era già volata via.

Il rumore di una matita che scrive

Secondo incontro: 6 novembre 2018: Al buio sento……..

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……Il rumore di una matita che scrive….

…può sembrare il levigare di un legno

Sandra Conticini: Era il tuo amico fedele..lo portavi sempre con te, perchè poteva essere sempre utile, questo è quello che dicevi. Quando ti veniva l’ispirazione lo prendevi  ed iniziavi ad incidere e levigare. La trovasti in Sardegna  quella corteccia di pino dove pensasti di incidere i nostri nomi e, a distanza di anni, è sempre sulla mensola in cucina.Quella volta che eravamo a camminare facesti i bastoni per tutti e tre con le iniziali di lei, ed ogni volta che andavamo nel bosco se lo portava dietro e raccontava a tutti che lo avevi fatto te…e si vedeva che eri contento. Quando trovavi un pezzo di legno che ti ispirava la fantasia, ti mettevi lì, grattavi e ripulivi e poi ricominciavi, grattavi e ripulivi e avanti così finchè non decidevi che il lavoro potevi considerarlo soddisfacente  e lo donavi con il tuo sorriso  soddisfatto.

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…può sembrare lo scartavetrare di una finestra

Patrizia Fusi: Ho visto come l’imbianchino aveva fatto a sistemare le finestre lo scorso settembre. Quest’anno ho deciso di sistemarle io e stamani sono scesa in cantina, ho preso cartavetro un taglierino e la vernice. Ho iniziato il lavoro, ho scartavetrato il bordo basso delle finestre, dopo ho soffiato sul legno per far scivolare via la vecchia vernice.

L’aria tiepida e i raggi del sole entravano nelle stanze rendendole luminose.

Mi guardo intorno: mi sembra che il lavoro sia venuto bene, mi è piaciuto farlo e ho risparmiato dei bei soldi.